PRATO. Non si era mai cimentato con Samuel Beckett, solo perché lo è profondamente, beckettiano. Ma ora, deve essere decisamente più tranquillo, Massimiliano Civica, tanto che per il suo Metastasio, del suo mai confessato mentore ha deciso di portare in scena una delle opere più controverse, difficili, introspettive: Giorni felici. E conoscendo i rischi che avrebbe potuto correre con un’opera così minimale, insignificante, virtualmente esposta dunque a vessazioni di ogni tipo, ha affidato il monologo a un diaframma mostruoso, quello di Monica Demuru, pietrificata e pietrificante, ma agile, snella, ficcante e imprevedibilmente ottimista al cospetto di una situazione, parossistica quanto vogliate, certo, ma che non può che offrirle un’unica via d’uscita, il suicidio, tra l’altro facilitato, almeno fino a quando la vita/sabbia non la sommergerà fino al collo, dalla rivoltella che ha nella sua borsa scura, a portata di mano, dove ha lo stretto necessario per trascorrere le giornate: rossetto, specchio, lente di ingrandimento, dentifricio e una lima per le unghie, di setola animale. Anche il ruolo del marito, oggettivamente meno faticoso e impegnativo, occorreva affidarlo a un personaggio che avesse una straordinaria affabilità con la surrealtà. In mente, a noi, viene subito lui, Roberto Abbiati, e così è stato, anche per il regista.
Ma torniamo appunto a Civica e a questo suo spettacolo, prodotto dal Met, una commedia brillante sulla necessità di comunicazione della coppia che si trasforma, in virtù dell’unico artificio scenografico, la montagnola di sabbia, o di merda, se preferite, il vero protagonista, nella quale ognuno di noi è ricoperto e bloccato, in un disperato, letale, appello alla solidarietà umana, sentimentale, coniugale, al bisogno di esistere solo se si riesce a interfacciarsi con qualcuno, depositario delle nostre riflessioni e ragione, unica e ultima, della nostra esistenza. Winnie non si concede mai a riflessioni, seppur a voce alta; ogni suo mugugno, risata, sillaba, parola, frase e discorso hanno un preciso intermediario, che non può che essere il suo Willie, il nostro Willie, che l’ascolta, con le poche risorse che gli sono ancora rimaste, visto che anche lui è ormai costretto ad aspettare la morte in un cunicolo sotterraneo di scarsissima abitabilità dal quale ogni tanto, strisciando, riesce a uscire per leggere le ultime notizie di un quotidiano che si ripete uguale, salvo necrologi, tutti i giorni, dando comunque le spalle alle sua Winnie, la nostra Winnie, immobilizzata nella direzione opposta. Il suo feedback si materializza in semplici intraducibili grugniti, monosillabi; del resto, ha la testa fracassata e l’unica condizione personale che lo possa avvicinare a quella umana sono i sentimenti, le passioni, le voglie. Beckett ha esagerato e con lui Civica? Purtroppo, no. È questa la condizione umana nella quale ci stiamo, seppur inesorabilmente, supersonicamente indirizzando. Beckett non aveva contemplato pandemie e guerre di dollari; Civica, invece, ha dovuto farci i conti, ma lo si era capito ormai da tempo che la nostra inconsistente frenesia, il nostro allucinante nichilismo, la nostra insaziabile ingordigia avrebbero partorito, nel giro di breve, alcuni mostri, sconosciuti anche alla nostra miope dabbenaggine. E ora che ci siamo paralizzati, ora che siamo condannati a (soprav)vivere in un cumulo di sabbia, scopriamo che per continuare a essere, felici, ma davvero felici, ci basta riuscire ad avere un compagno di viaggio con il quale dividere condividere il tragitto. E quando gli arti, ormai atrofizzati dall’immobilismo, ridurranno ulteriormente le nostre modestissime capacità motorie, l’illusione e il dolore si amplificheranno, perché Willie, incredibile ma vero, riuscirà, seppur moribondo, a circoscrivere il guscio che ci segrega per guardarci finalmente negli occhi; toccarsi, possedersi, amarsi, non sarà comunque più possibile, perché sarà ormai tardi, troppo tardi.