PISTOIA. Idea di tutto rispetto, quella prodotta da un bel po’ di società, patrocinate, tra l’altro, da Amnesty International, nel mettere in piedi La classe. Ma il buono che regna e che alla fine, seppur dopo un epilogo violentissimo, prende il sopravvento su una situazione invece praticamente e sistematicamente irrecuperabile, ci fa storcere un po’ il naso (tanto sotto le mascherine non si vede). Vincenzo Manna, l’autore e Giuseppe Marini, il regista, hanno messo in piedi un cast di tutto riguardo, con i due senior (Claudio Casadio, nei panni di un Preside come tanti, quasi tutti, tronfio di moralismi, ma anche di utili consigli sbrigativi e Andrea Paolotti, il professor Albert, che tenta disperatamente di trasformare una piccola classe differenziale di future vittime di soprusi, abbandoni e sciagure, dal basso della sua posizione intermedia, quella di professore potenziato, in attesa della nomina in ruolo) ad armonizzare sei studenti problematici: una schizofrenica (Caterina Marino - Maisa), un classico capobanda da quartieri difficili (Federico La Pera – Nicolas), una conturbante futura velina, casomai sposa di qualche calciatore dislessico (Valentina Carli – Arianna), la sua amica, decisamente meno inguaiata e più taciturna (Giulia Paoletti – Petra), un sinti alla prese con un difficile reinserimento (Edoardo Frullini – Vasile) e l’arabo che sogna un futuro migliore, pieno di pace, libero da qualsiasi forma di inquinamento e con tanta, ma tanta droga in circolazione (Andrea Monno – Talib).
Il palcoscenico è solo loro, su una scenografia marcatamente avvilente; una classe di un enorme Istituto Comprensivo dove da mesi non passa un bidello, se non a pulirla, almeno a liberarla del mare di carta che è per terra, adibita a corsi di recupero per quegli studenti, come i nostri sei giovani e bravi attori, che dopo l’ennesima sospensione scolastica sono stati segnalati agli Assistenti sociali. Insomma, tutti gli ingredienti più succulenti per mettere in piedi una rappresentazione che sappia di importante, utile e buono, sia per gli studenti che riempiono il teatro Manzoni, dove va in scena lo spettacolo, che per i professori che li accompagnano e che spendono la loro malripagata stima raccomandandosi (inutilmente) con i più scalmanati di non disturbare, ci sono tutti, con la ciliegina dello ZOO, il quartiere difficile di immigrati recintato da un alto muro di otto metri, che l’anonima città europea che ne è culla (potrebbe essere una qualsiasi) ospita malvolentieri, soprattutto da chi, nell’urbe, è già relegato ai margini. Ma alla fine, il lieto epilogo arriva. I sei studenti, istigati a delinquere dal loro professore di sostegno che li convince, dopo una ferrea e ostinata resistenza da parte di tutti, a partecipare a un bando europeo sui crimini dell’Olocausto, risultano vincitori. Arianna, purtroppo, è in ospedale: ha tentato di suicidarsi, dopo le ripetute violenze morali, fisiche e sessuali subite da suo padre; nello stesso nosocomio c’è anche il Professore, al quale un irritato Nicolas, prima della fine delle due settimane del corso di recupero, brillantemente superato da tutti, ha deciso di sparargli. La cultura ha il dovere e l’obbligo (altrimenti sarebbe qualcos’altro) di dare segnali, denunciare, suggerire soluzioni, ma anche quello di essere realista, attendibile, veritiera e a quei sei studenti, in una Classe qualsiasi di un qualunque Istituto secondario pistoiese, l’Autorità giudiziaria avrebbe dato, come minimo, il daspo, per la gioia, comprensibile e giustificata, di tutti gli altri studenti e delle loro famiglie.