FIRENZE. Non è solo semplicemente il custode del Museo Pasolini, Ascanio Celestini. Dipenderà dalla crisi, strisciante e progressiva, di tutto ciò che è cultura, arte, ma oltre a ricevere i visitatori, l’usciere sostituisce tutte le altre figure e costituisce l’anima della memoria dell’intellettuale bolognese. Lo fa, come perfetto traghettatore per carovane di turisti organizzate, snocciolando, in esemplare sequenza cronologica, nomi, date e posti dove Pier Paolo Pasolini ha segnato la propria vita e quella del ventesimo secolo. Una vita che, ironia della sorte, inizia e coincide con l’anno zero dell’Era Fascista: 1922, la marcia su Roma. Il Teatro Puccini di Firenze è pieno in ogni ordine di posti. Sul palcoscenico, oltre a una sedia impagliata, una porta rossa che non si aprirà mai, ma sulla quale busseranno, in cerca di favori o di via libera, si può procedere, un sacco di mani, anche una serie di scatole, scatolette, una bacinella, tutte disposte a emiciclo intorno alla sedia, unite tra loro da uno spago che sembra voler segnare continuità, ma che resteranno lì per tutta la durata della rappresentazione, più di due ore, senza che lo storiografo ne faccia uso, menzione, che si rifugi in loro. Una compagnia scaramantica, forse, le poche cose, i pochi oggetti salvati e conservati nel museo Pasolini. Perché non c’è tempo di distrarsi in dettagli. L’autore enciclopedico parte da lontano, dalla mamma, dai nonni materni, dai primi passi di Pier Paolo Pasolini, dalla nascita, il 5 marzo in quel di Bologna, e seguendolo via via in tutti i vari spostamenti, attraverso il Veneto, il Friuli, la Liguria, fino all'Idroscalo di Ostia, dove il 2 novembre 1975, fu trovato morto, massacrato di botte. Lo fa in perfetta solitudine (direttissima, solitaria, invernale, come direbbe Bonatti), come gli è consono, lasciandosi scappare ogni tanto dei sorrisi, che non servono e non vogliono stemperare il clima; ma chiacchierando, anche di atrocità, succede.
Il padre è un ufficiale dell’esercito, famoso per aver bloccato Matteo Zamboni (poi morto massacrato di botte), il primo, giovane e unico attentatore del Duce. Sembra una semplice pagina di storia, seppur correlata da una miriade di tassonomiche informazioni, e invece è solo la premessa per entrare in sintonia con l’intellettuale più difficile e più schivo del ventesimo secolo, cento anni, la seconda metà, fino a un certo punto, che ha provato a tratteggiare, anticipare, prevedere, interpretare, restandone inesorabilmente schiacciato. Il sacrificio di Pier Paolo Pasolini ricorda, a diverse latitudini, ma con la stessa inesorabilità, quello di Aldo Moro: comunista, il primo, nonostante i comunisti; democristiano, il secondo, nonostante i democristiani. Un fiume in piena che scende a valle, rovinosamente, portandosi dietro ogni scoria incontrata nel percorso, per arrivare, inquinato, malconcio, sporco e contaminato fino al mare, dove sarà facile perderne la memoria. L’infanzia e la vita di Pasolini coincidono con i Patti Lateranensi e le leggi fascistissime, prima, nefaste esaltazioni del regime; con la fine della guerra, la spartizione europea tra Usa e Urss, l’invasione dell’Ungheria, la primavera di Praga, una volta diventato grande, maturo, fastidioso e ingombrante. È un intellettuale schivo e particolarmente vulnerabile: è frocio. Il Partico Comunista Italiano lo espelle, nell’immediato dopoguerra, subito dopo una denuncia per atti osceni in luogo pubblico (fu trovato in un parco, in compagnia, promiscua, di tre adolescenti, ragazzi di vita; non lo reintegrerà mai, salvo piangerlo, ma tardivamente. Ascanio Celestini, con la solita smorfia di uno còlto in fragranza di reato di improvvisazione, continua a snocciolare, con quel diaframma nasale metropolitano che fa continuamente sorgere il dubbio che stia prendendo per il culo tutti quelli che lo stanno ascoltando, nomi, cognomi, date e luoghi. Lo fa con precisa e maniacale fedeltà, collegando gli avvenimenti esistenziali e artistici di Pasolini con quelli del suo tempo, stabilendo così una concatenazione spazio/temporale che va ben oltre le semplici coincidenze; Pasolini interpreta e prevede politicamente il suo tempo, ma lo fa allontanandosi sideralmente dalla realtà quotidiana, scegliendo, come suggestiva alternativa, la lettura letteraria e cinematografica. Il monologo prosegue, ininterrottamente. Ogni tanto, si refrigera con piccoli sorsi d’acqua; servono a inumidire palato, dentatura e diaframma. Lo descrive con minuzia di particolari, Celestini, perché ha la fortuna di prendere, spesso, con lui, il 109, uno degli autobus di linea di Roma. Lo vede arrivare alla fermata dalla finestra della sua abitazione e allora si affretta a scendere in strada per fare il viaggio con lui. Gli chiede un sacco di cose, ma ha sempre risposte apparentemente evasive, come se l’interlocutore non gradisse. Rispondere, spesso, vuol dire scendere a patti: la verità sta altrove. Sempre. Il cervello viaggia senza sosta fino alla fine, con una ferrea sequenza temporale, framezzata e perdonata da qualche aggancio con la vita politica del Paese, che preferì ignorarlo, fingendo di non capirlo, fino al tragico martirio, senza cadere mai – e di trabocchetti ce ne sono un’infinità – in qualsiasi retorica. Pasolini e il suo vecchio amico Celestini si sono finalmente ritrovati, dopo anni di distanza, tempo nel quale però sono rimasti volutamente in contatto: il primo risorgendo ogni giorno, il secondo invocandone la forza. Nell’anniversario del centenario della nascita di Pasolini, che coincide con il centesimo anno dell’Era Fascista, per molti versi mai debellata, lo straordinario monologo termina con le parole dell’ufficiale dei Carabinieri intervenuto subito dopo il ritrovamento del cadavere martoriato: strano, pensavo che indossasse delle mutandine di seta.