di Letizia Lupino

PISTOIA. Un arco temporale di 91 anni, dal debutto di quel lontano 12 febbraio a una nuova e sorprendente proiezione al Funaro di Pistoia il 2 settembre 2022. Sì, sembra di essere al cinema, ma senza popcorn, ma cosa importa se quel che viene proiettato è Dracula di Tod Browning, pietra miliare del genere horror e di quello che da allora è diventato? La veste è sempre quella ovviamente, un film in bianco e nero senza perimetri netti, nonostante il periodo storico sia delineato, che ti sbalza subito indietro in un tempo indefinito, almeno, questa è la sensazione che io vivo. Il bianco e nero mi trasporta in un limbo temporale spreciso, sfrangiato, opaco. E mi piace, mi piace un sacco. Così quando sono arrivata in sala non sapevo bene cosa aspettarmi; d’altra parte mi ero anche informata poco lasciandomi solo trasportare dalla locandina che avevo visto: Dracula, riadattamento cinematografico del celebre romanzo di Bram Stoker e dai brividi che, sia il film di Francis Ford Coppola che il libro, mi avevano lasciato a suo tempo. E tanto perciò mi è bastato. Travolgente la decisione di rendere la colonna sonora, di cui il film del 1931 è quasi totalmente privo, reale da quarta dimensione, visibile, presente e possente.

A Massimo Zamboni, non solo chitarrista e principale compositore dei CCCP e poi dei CSI, Cristiano Roversi e Simone Beneventi l’arduo (o piuttosto l’hanno presa di tacco) compito di demandare ai loro strumenti la voce filmica guidandoci lungo tutte le peripezie della trama. Nomi non a caso per questa esperienza che sa di vintage d’autore e dunque una collaborazione magica che ha fatto sì che la colonna sonora diventasse la protagonista indiscussa dell’evento. Geometrie perfette che come un guanto si sono misurate impeccabilmente alle immagini che scivolavano via una dietro l’altra. Gli albori del cinema a braccetto con un tappeto musicale di alto spessore che ci ha fatto godere dall’inizio alla fine. Ottimo lavoro sartoriale quello che è stato creato, mantenendo la tensione ipnotica e sinistra fino ai titoli di coda. Settantacinque minuti ininterrotti, anche quando alcune battute in lingua originale hanno fatto capolino tra la fitta vegetazione musicale. Scelta forse discutibile perché è come se mi avesse risvegliato da un incubo che mi teneva incollata lì senza però avere troppa paura; sì, lo avrei preferito senza, avrei voluto che fosse solo la musica a parlare con i suoi guizzi, con l’alternarsi dei battiti del cuore quando più cauti, quando più nervosi. Nonostante questo o forse anche grazie a questo è stato un esperimento dove mescolando ingredienti magari lontani tra loro si sono così bene legati da scongiurare un’ipotetica esplosione. Insomma, il Funaro sa regalare delle gioie, dall’incantesimo del teatro, al fascino avvolgente del cinema d’altri tempi, così sconcertantemente lontano da noi, ma con Zamboni, Roversi e Beneventi così vicini oggi.

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