di Letizia Lupino
PISTOIA. Il fondale e il pavimento sono ricoperti da enormi teli bianco latte, al centro un parallelepipedo rivestito da rettangoli di plastica neri, pile di riviste e libri appoggiati sopra e ai lati - è questo quello che mi si para davanti quando, una volta tanto, per prima, varco la soglia del Funaro di Pistoia per teatri di confine. Il ballerino, scoprirò dopo, fugge via come se fosse stato beccato con le mani dentro la marmellata. Il cesello cardiopatico dell’ultimo secondo. L’odore caldo del legno ci avvolge senza chiedere il permesso e un padre con la figlia, dietro di me, si scambiano saperi e impressioni. Sorpresi perché e carezzevoli ragioni. Sorrido. Gradualmente la luce si scolora fino al buio. È l’inizio di Fray di Olimpia Fortuni, il primo di un doppio appuntamento con anticorpi explo-tracce di giovane danza d’autore. Ed è dunque con Fray e attraverso una piccola lucciola rossa che si accende e indugia dietro il nascondiglio rettangolare che ci immergiamo in questo viaggio visionario dell’uomo che tramite una ricerca spasmodica del sapere cresce e si fa grande, si muove fra le anse della vita raccogliendo a più non posso i frutti di quel sapere che poi, inesorabilmente, lo schiacceranno. Pier Adolfo Ciulli interpreta con vigorosa presenza questo viaggio folle, che forse vuole essere simbolo universale di una deprecabile ingordigia che come un treno lanciato a gran velocità non lascia il tempo di guardare fuori dal finestrino.
È disarticolazione umana e spirituale quella che vediamo. Dal correre nervoso e spigoloso da una conquista all’altra, fino al desiderato crollo di quello stesso corpo, ormai esaurito. La sua agitazione è diventata la nostra, siamo quasi stanchi nel vederlo o forse, molto più verosimilmente, senza rendercene conto, siamo stanchi di noi stessi e godiamo, quindi, nel vederlo rallentare, tirare il fiato un attimo che pare eterno e necessario, sdraiarsi sul pavimento nel tentativo ultimo di riconciliazione con la vita che fugge inconsapevole in un caotico delirio. Non so quanto tempo sia passato; venti minuti o un’ora hanno il solito peso per questa danza amara che adesso dovrà cedere il passo alla seconda performance: Sarajevo la strage dell’uomo tranquillo. Quasi nessuno di noi si muove dal proprio posto, in parte atterriti da quello che abbiamo da poco vissuto, tanto che in pochi si renderanno conto del cambio scena. Per la seconda volta le luci si abbassano, Gennaro Lauro fa il suo ingresso, in un’arena adesso completamente bianca e vuota, per raccontarci nello spazio di circa quaranta minuti l’orrore di una guerra senza definizione anche se un nome ce l’ha, quantomeno nel titolo, orpello inutile. È un muoversi ora a rallentatore ora a guizzi improvvisi cercando di indagare la condizione dell’uomo tranquillo usando il corpo fisico per farlo nello spazio concessosi della gabbia che fondamentalmente si è costruito da solo. A volte pare perdere il filo della narrazione, e noi con lui, rischiando di caricare o di allungare un po’ troppo la tesa tensione di un gesto piuttosto che di un altro. Bellissima la scelta di non mostrare mai il volto, se non nell’atto finale, è l’uno che diventa moltitudine in quella situazione orrorifica sine nomine. Pare quasi che un legame ci sia con quello che è avvenuto prima anche se nessuno lo ha dichiarato. Dopotutto la fascinazione dell’arte è proprio questo, il caricare di significanti magari diversi ora un gesto, ora una parola, ora un silenzio. L’uso del corpo è lentamente accattivante nel cercare di renderci tutti partecipi a questo dolore antropomorfo. Destrutturazione ossea, quindi, per l’uno solo per non essere solo. Il gioco della campana su di un macabro prato. La concentrazione è tutta lì, nei fasci dei nervi, nelle braccia tese a nascondersi o a proteggersi, il sudore che scivola dal corpo innaturalmente piegato è sangue di martirio quale che sia la sua provenienza. Nessuna identità, un milione di identità. A tratti, che sfortunatamente non sono stati lineari, è riuscito a farci vedere l’annullamento fisico di mille corpi che hanno avuto volume nello spazio e nel tempo. Danza d’autore, insomma, che il Funaro non si è lasciata sfuggire a volte decifrabile a volte oscura al limite del parossismo.