di Letizia Lupino

PISTOIA.  È Il giorno prima delle elezioni, nel silenzio elettorale che mi appresto a tornare, dopo diverso tempo, al teatro Bolognini di Pistoia. Sono stata avvertita il giorno stesso, posso quasi osare all’ultimo secondo e la parola che mi convince subito è una sola: Ginevra di Marco, e il resto non lo sento neanche. Mi accerto soltanto del luogo e dell’orario, onde evitare di fare come mille altre volte. Quella di stasera è semplicemente la conferma di quello che già so. Non importa quindi se non conosco, nel dettaglio o anche meno, quello a cui andrò incontro. Salgo le scalette che invitano nell’atrio del teatro come se andassi a un appuntamento al buio. E forse in qualche modo lo è. La locandina, posta alla mia sinistra, stuzzica a malapena il mio sguardo che non cede al blando richiamo di una copertina ammiccante. Lo sguardo infatti è oltre, spazia dalla biglietteria all’ingresso della sala, frugando i pieni, i vuoti, le attese e le chiacchere sospese in un molle brusio. Tranquilli ragazzi, l’ingresso è gratuito. ci dicono e così, con passo meno incerto, ci avviciniamo alle colonne di Ercole della platea. Varco la soglia, le poltrone sono quasi tutte occupate. Sorrido e aguzzo la vista, per ciò che rimane voglio riuscire a godermi lo spettacolo senza slogarmi il collo che manco a Wimbledon. Individuo così la fila perfetta, non ho nessuno accanto a me se non colui che presto mi farà da staffetta. L’aperitivo bussa. Il palco preparato e aperto chiama la mancanza di chi condurrà lo spettacolo.

Indoviniamo facilmente il fondale nero in attesa del play dell’operatore video. Un microfono al centro palco, la batteria, le tastiere, le chitarre. Le luci sono già basse, l’attesa si prolungherà ancora un po’. Questo Grande villaggio globale è ciò che ci accompagnerà nelle due ore consecutive. Un concerto spettacolo in onore e per l’onore di Margherita Hack. Un tributo che nasce dall’esigenza di non opacizzare la lucidità di una donna che nella sua fulgida semplicità ha incarnato con granitica fattura l’ideale del libero pensatore autonomo e indipendente. Ginevra di Marco, Francesco Magnelli e Andrea Salvadori danno voce a tutto questo, raccontando e raccontandosi nell’esperienza di aver portato in giro per l’Italia una donna e la sua vita, le sue ricerche e le sue idee. È uno spettacolo di musiche e parole è L’anima della terra vista dalle stelle, ma è soprattutto una confidenza dietro l’altra, come se fossimo tutti allo stesso tavolo e fra un bicchiere di vino e l’altro ci scambiassimo briciole di conviviale intimità. È solo uno scorcio quello che ci lasciano intravedere fra la musica perfetta che unisce cieli infiniti e volti come pietra mani incallite e ormai senza speranza e la potente maestria vocale di Ginevra di Marco che a tratti ci accarezza e attratti ci tiene vigorosamente sul pezzo. Mi rendo conto, ora che ne scrivo, che ho poco da dire su quello che ho visto, quantomeno non riesco a tradurre con l’inchiostro quello che mi è rimasto dentro e non per mancanza di concetti o di interesse, ma semplicemente perché non si può scriverne rischiando di non essere banali e ridondanti. Chi già conosce Ginevra di Marco lo sa, sono i canti dei grandi ideali, sono le canzoni del folklore che sconfinano dall’Italia e poi tornano esplodendo di chiara potenza verbale come esplode la conchiglia di Ursula ne La sirenetta; chi non la conosce probabilmente avvertirà una sospensione cerebrale alla quale non sa dare nome. Ecco, quel nome è Ginevra di Marco. C’è poco da raccontare, c’è da viverla.

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