di Dario Monticelli
LIVORNO. Vincent River è un dramma del poliedrico artista britannico Philip Ridley, che ha spaziato in ogni forma d’arte conosciuta, persino la regia di qualche horror d’autore con interpreti hollywoodiani. E quindi, non è un caso se l’opera, tradotta da Carlo Emilio Lerici (che ne curò la regia tre lustri or sono) e Fabia Formica, musicata da Giovanni Sabia con immagini e video di Matteo Tortora e la messa in scena della compagnia Atto Due di Firenze (per la regia di Sandra Garuglieri e Marco Toloni, molto sobria e netta), sono resi con un deciso taglio cinematografico. Dialoghi duri da serata al cinema quando non ti va di trattenere le lacrime e sei più propenso alla sospensione dell’incredulità, cazzo e Cristo come se piovessero, energie recitative sincopate a volte stranianti, ma perfettamente coerenti con l’atmosfera intima e al tempo stesso da dietro lo schermo del testo (e uno schermo da videoproiezioni è in effetti interposto tra scena e pubblico). Simona Arrighi, vibrante e coriacea Anita, madre scontrosa, ma rotta da un dolore indicibile. Samuele Anselmi, verde, ma con padronanza consumata nella parte del giovane Davey, che rinviene il cadavere del figlio della donna: Vincent River. Un brutto fatto di cronaca nera, un giovane uomo assassinato. La periferia violenta. I valori familiari più forti delle relazioni umane. Un vicinato moralista come nelle peggiori dittature.
Si parla, o meglio, non si deve parlare di omosessualità. Un’omosessualità repressa, clandestina, ma che arde di desiderio e che subisce violenza, la violenza della meschinità. L’omofobia e la violenza contro gli omosessuali sono temi reali, attuali, percepiti come preoccupanti o sono solo bolse chiacchiere da salotti radical chic? La storia è inventata di sana pianta (debutta a teatro nel 2000, ripresa da un radiodramma del 1989 dello stesso Ridley) eppure all’uscita qualche spettatore commenta convinto che sia trattato da una storia vera. Merito dell’autore, merito della credibilità degli attori. Al di là delle toponomastiche londinesi e dei nomi anglofoni, il dramma avrebbe potuto benissimo titolarsi: Vincenzo Fiume. Perché è una storia senza tempo e senza luogo. La storia del brutale omicidio di un uomo perché omosessuale e dei suoi risvolti familiari. La storia di un figlio.