di Letizia Lupino
PISTOIA. È una prima nazionale quella di stasera (29 ottobre, senza la pomeridiana replica odierna: Chiara Caselli si è fatta male a un polso; impossibile riandare in scena) al Teatro Manzoni di Pistoia. Prima nazionale e Pistoia insieme. Sono circa le 20:40 di un sabato al finale, sono al lavoro e i movimenti si accelerano, come se fossi una moviola al contrario mi muovo meccanicamente con un solo obiettivo in testa: mica voglio arrivare tardi a una prima e per giunta nazionale? Mi sono anche vestita bene per l’occasione, cioè, in realtà niente di troppo diverso dal solito, però questa cosa del vestirsi in un certo modo per il teatro mi ha sempre fatto sorridere, così come poi rendermi conto del binomio generazionale: cozze abbarbicate ad uno scoglio da un lato e pesci volanti dall’altro e oltretutto è anche sabato sera, ma mi riserverò per dopo il gusto di scoprirlo di nuovo. Raccatto le mie carabattole nel mentre i miei capi stanno discutendo su come legare un fiocco intorno al collo di una bottiglia di vino, piccolo pensiero per essere stati eletti a covo perfetto della compagnia; casa Vianello nello Spazio (la libreria n.d.r.) breve di un sipario che presto si aprirà. Presto appunto. E non c’è andata neanche troppo male per essere sempre il solito sabato sera. Il pacchetto è pronto e noi pure e con la curiosità negli occhi accorciamo, un passo davanti all’altro, la strada che separa noi e il velluto rosso.
La scena che si presenta in fondo a via Verdi è esattamente come la immaginavo: una moltitudine di teste che si muovono senza un apparente motivo e auto confuse in cerca di un divin parcheggio. L’ingresso pare irraggiungibile ad appannaggio esclusivo degli abbonati seriali. Con un braccio teso ci facciamo largo tra giacche a coste, sciarpe che svolazzano e pettinature scintillanti. Delegando a lei il peso del mio corpo agguanto sicura la maniglia della porta che però non si muove di un millimetro e mi rende indietro tutta la mia corporea sicurezza, avvampo rendendomi conto dell’errore, l’inesistente e calca avrebbe dovuto indicarmi qualcosa. Il mio capo ride. E così, con le guance in fiamme, guadagniamo la platea: R 14 il mio posto, quasi in fondo, ma la visuale non manca. Nessuno di fianco a me, posso allargarmi quanto voglio e, soddisfatta, affondo le spalle nello schienale. Mi sto godendo tutti gli scenografici attimi che mi si srotolano davanti. Poltrone che non corrispondono ai biglietti, cappotti flosci abbandonati a loro stessi, palchetti pieni di un palpabile brusio, facce sorridenti, saluti che si scambiano in un palleggio continuo. Il teatro è pieno, la eco di una prima nazionale, di Alessandro Benvenuti e Chiara Caselli non poteva far presagire altro da questo. Il palco è aperto e si presenta accogliente allo sguardo con la sua poca scenografia: un tavolo e una sedia rovesciata a dividere il palco esattamente a metà, una luce e quello che pare una sorta di leggio in fondo a sinistra e al centro, sul fondale, le ombre ben delineate di quelli che saranno i capisaldi di tutto lo spettacolo, un cavaliere lanciato sul suo destriero e un indiano dalle penne attente. Le luci si abbassano e di colpo il brusio cessa. Un cicerone fuori dal campo di luce accompagna sul palco prima l’uno, Alessandro, poi l’altra, Chiara, in un movimento così morbido e delicato che ti chiedi come sia possibile che protagonisti siano già sul proscenio. Romeo di anni nove e Sabah di ben nove anni e mezzo ci racconteranno in un’ora troppo veloce le loro mirabolanti avventure, le loro differenze e i loro dubbi, ma anche le paure riflesse dei rispettivi genitori in un susseguirsi di battute e cadenzate pause che ci agganceranno senza chiedere se possono. Una storia che si aggroviglia fra i pianerottoli di una palazzina qualunque fra le Fornaci e Bottegone passando da Casalguidi fino a Capostrada. Una storia comune che ci accomuna nel voler sbirciare sotto la coperta di queste due giovani solitudini che si incontrano e scontrano fra bisonti bianchi e noccioline giganti. Piccoli eroi che fuggono da una realtà che non comprendono e passioni che non riescono a gestire. È una storia d’amore, I Separabili, prodotto da Arca Azzurra e Atp, per il testo di Fabrice Melquiot, tradotta da Anna Romano e messa in scena da Giselda Ranieri, di quella verde ingenuità che riuscirà, nella verità di un sogno, a sfidare i codici sociali, a sguainare spade di legno e frecce avvelenate contro i brutali pregiudizi di adulti di shakespeariana memoria. Alessandro Benvenuti e Chiara Caselli incarnano perfettamente l’antidoto contro l’ineluttabile malattia di un’adulta responsabilità piantata solo su sé stessa. È attraverso una puntuale regia e una poetica suggestione che tramite Romeo e Sabah riconosciamo la nostra parte più candida, la vediamo e la lasciamo correre libera, è il riuscire a dissetarsi, a tirare il fiato nonostante ci rendano indietro l’immagine perfettamente deformata di una ghiacciante realtà nella quale siamo quotidianamente immersi e che lì, in quel preciso contesto, la riconosciamo ridicola e ne ridiamo. Un mostruoso colpo che forse, sfortunatamente, durerà solo il tempo di rimettere la giacca per andare via. È musica, è poesia, è favola, è un dito che disegna nella sabbia, è romanticismo senza melassa. È uno scanzonato Alessandro Benvenuti, è una battagliera Chiara Caselli, è una calda visione di Gabriella Compagnone che rendono questo spettacolo meritevole di un lunghissimo applauso che li richiama più di una volta sul palco. Che ci rende nervosi e slalomisti professionisti nel volerli raggiungere nei camerini, io e il mio capo, per dirglielo negli occhi Bravi! per fargli capire con le stelline nelle pupille che anche noi li avevamo scelti così come loro avevano scelto noi!