FIRENZE. Datemi una foto e vi spiegherò il mondo. Almeno il mio. Ma non perché dalla foto si possa risalire ai genitori, alla famiglia, al quartiere, agli amici. No. La foto è un meraviglioso tragico pretesto grazie al quale, senza andare in analisi, l’osservatore riesce a vomitare tutto quello che ha tenuto involontariamente, ma gelosamente in seno, per una vita intera. E un giorno, il 21 maggio 2004, per l’esattezza, il Washington Post pubblica quel macabro rituale della prigionia di Abu Ghraib dove una ragazza, una teen agers qualsiasi, capelli corti, corpo minuto, occhi anonimi, ma in divisa militare, tiene al guinzaglio un uomo da poco torturato e che poco dopo continuerà a subire torture. Claudine Galea, che aspettava un momento propizio per liberarsi di dosso tutte quelle sovrastrutture che fino a quel momento l’avevano appesantita fino al soffocamento, in quella foto non vede quello che ogni spettatore inorridito scorge e impietosito invoca la carità, ma ben altro, che poco o nulla sembrano avere a che fare con quell’immagine inequivocabile. E si mette a scrivere: Au bord, un viaggio a ritroso iniziato proprio da quella fotografia che fa il giro del Mondo così come l’autrice riesce a rovistare sé stessa.

E lo fa concentrandosi proprio sul corpo della ragazza, della marines, nella quale riesce a scorgere la madre, la compagna perduta, il padre, la sua vita, le sue frustrazioni, le sue paure, inanellando, con meticolosa lucidità, momenti magici e tragici dei suoi trascorsi. Ci vuole coraggio, e anche parecchia fantasia, però, per creare un ponte, seppur immaginario quanto si voglia, tra quell’immagine, che incarna la guerra e i suoi orrori, e la nostra vita. E sono quelle che ha usato l’autrice marsigliese e il nostro, perché italiano, Valentino Villa, il regista, che si è avvalso della traduzione di Valentina Fago. E Monica Piseddu, che sembra essere nata a proposito, che sembra arrivare chissà da quale pianeta ancora sconosciuto e incarnare, contemporaneamente, tutte quelle persone passate ai raggi X ieri sera al Teatro Cantiere Florida, a Firenze, durante i cinquantotto minuti della rappresentazione che ha segnato anche la ripartenza della stagione dello stabile di via Pisana. Non sappiamo, veramente, se sia nato prima lo spettacolo o la sua metallica, algida, stereoformattata protagonista, che parla nella farfalla legatale sulla nuca, ma con il microfono coperto dalla ciocca di capelli della parrucca che le copre, per tutta la durata dello spettacolo, la metà destra del viso. Per fortuna, in due circostanze, l’aliena Piseddu perde il passo del rosario apocrifo e si increspa, per poi riprendere, spianandosi beata, il cammino, altrimenti più d’uno, tra gli assorti spettatori, avrebbe avuto ragione nel dubitare che a parlare fosse un’altra persona, una voce registrata chissàddove e chissàquando e non lei, con il capo a quarantacinque gradi rivolto al suolo, senza tradire una smorfia, un’emozione, un cipiglio. Un monologo stordente, ritmico, algebrico, glaciale, incastonato in una scenografia spaziale, seppur minimale, sterilizzata, senza rischio di contaminazione alcuna. E invece, nonostante le attenzioni, le luci tridimensionali impenetrabili, le ombre appena disegnate e il corpo, quasi nudo, ma invisibile, sottile e giunonico, con i capezzoli inturgiditi dall’assenza di atmosfera, Monica Piseddu è arrivata laddove la ratio, la comunicazione, la sintassi e la percezione non sarebbero mai potute approdare, facendo sì che il pubblico, attonito, avesse la fortuna di riuscire a entrare, in quell’ora scarsa, nella navicella di un’odissea vissuta, tutti i giorni che restano e resteranno, da quel 21 maggio 2004, uno spartiacque storico che tiene legato il prima e il dopo con un semplice guinzaglio.

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