PRATO. Quando si alza dal suo malandato scranno per scendere, con attenzione, vista l’età e l’enigmistica coreografia, e immergersi nella vasca rosa dove i suoi ricordi, demoniaci, lo intratterranno fino alla morte (?), leggendo, canticchiando, le deliranti considerazioni dell’inesorabilità del suo suicidio, che non si consumerà certo, l’attenzione è già andata a farsi benedire, perché la visuale, kitch fino al parossismo, ha già lasciato intendere che di Libidine violenta non c’è assolutamente nulla da capire. Enzo Moscato, del resto, ideatore e regista di questa ennesima provocazione che replicherà al Metastasio di Prato fino a domenica prossima, 27 novembre, dopo aver ricevuto il placet dai propri conterranei partenopei, ha già detto, scritto e scandalizzato tutto e tutti, con una serie innumerevole di rappresentazioni puntualmente applaudite dal pubblico, italiano e straniero, e puntualmente insignite da riconoscimenti ufficiali, a partire dal primo, nel 1985, a Riccione e fino ad arrivare all’Ubu, quattro anni fa, immancabile suggello alla carriera. Dai Quartieri Spagnoli, dove è nato, a Recife, dove è andato a tenere lectio magistralis, passando dalle cattedre di parecchi atenei, Enzo Moscato è, insindacabilmente, un autore cardine e di riferimento di tutta la drammaturgia degli ultimi quarant’anni.
L’impressione, però, almeno dalle false confessioni di Reci-diva, rispolverate alla bisogna ventisei anni dopo, che questo spettacolo, prodotto proprio dal Metastasio di Prato, dal Teatro di Napoli, dal Nazionale e dalla Casa del Contemporaneo, sia un’autoglorificazione che non subirà ferocia alcuna perché a uno come lui, dopotutto quello che è riuscito a mettere in scena, gli si possa e gli si debba perdonare qualsiasi stravaganza, compresa questa Libidine violenta, che ha poco d’erotico e ancor meno di cruento. La ricerca compulsiva del barocco in scena, i suoi movimentati e coloratissimi trascorsi, interpretati da Giuseppe Affinito, Luciano Dell'Aglio, Tonia Filomena, Domenico Ingenito, Emilio Massa e Anita Mosca, i richiami suppellettili a tutto il suo trascorso (dai fogli A4 di cui è costellato il palcoscenico al frigorifero) aumentano, con modesta necessità, la confusione delle memorie che questo eccentrico cantante ormai non più in grado di esibirsi, che parrebbe essere anche una scrittrice sulla via del tramonto (esaltando, volutamente, una discutibile fluidità), vuole dare al suo tragico, onirico e assurdo testamento, un andirivieni tra le incomprensioni materne e l’uso smodato di sostanze stupefacenti. L’assurdo e il non senso, ogni tanto, entrano di diritto nell’occhio di bue del sarcasmo, strappando risate, surreali proprio quanto il testo. Ma il copione che strige tra le mani e che legge come se, invece che a una prima regionale, si fosse a una delle prove prima del debutto, smorzano, non poco, quel rito di onnivoro cannibalismo che invece dovrebbe sbranare, con il trascorrere della rappresentazione, tutto quello pronunciato un attimo prima, senza dimenticare che tutti gli agganci alle sue precedenti esperienze teatrali, gettate nella mischia dello spettacolo alla ricerca dello spettatore-pilota, non sono facilmente individuabili e dunque digeribili e godibili. Resta, indelebilmente, non solo il tracciato teatrale nel quale hanno sguazzato, dagli anni ’90 in poi, una moltitudine di avanguardisti, ma anche e soprattutto il suo smisurato sapere storico e culturale, che ci auguriamo non debba più soffrire ulteriori detrazioni che si presenterebbero, inevitabilmente, se a questa Libidine violenta dovessero susseguirsi altri improbabili testamenti, che non riuscirebbero a dare alcun senso salvifico a questa spiazzante brutalità della vita.