di Letizia Lupino

PISTOIA. Un primo pensiero spontaneo arriva direttamente lì, gli indizi elementari ci sono tutti: una sorta di porta d’ingresso, valigie sparse, la finzione di essere all’aria aperta, le poltrone per l’attesa e l’attesa stessa. C’è voluto un po’ per tentare di mettere a fuoco, in confini a noi riconoscibili, il quadro che ci si para davanti, anche se, un tappeto verde a mo’ di prato, una cornice sospesa e un ramo di acero a mezz’aria ci fanno pensare che più che una stazione il Funaro di Pistoia abbia allestito un sogno, con accostamenti senza senso durante la veglia, ma che si agganciano perfetti come un puzzle quando ci lasciamo andare posando la ragione sul comodino. Allora le voci tacciono, i cellulari si spengono e le luci si abbassano; Giuseppe Cederna entra sul palco come se fosse in ansia da ritardo, dando l’impressione di non sapere bene dove andare, le valigie in mano, uno sguardo perso verso l’oltre e una voce che dall’alto si fa largo nelle nostre orecchie: Mia cara Lison… Ed è così che inizia il viaggio, sembra proprio il caso di dirlo, di un corpo. Giuseppe Cederna incarnerà, battuta dopo battuta, il ragazzino dodicenne che si fa giovanotto, poi adulto, poi anziano fino a spegnersi all’ottantasettesimo anno di età, è un discorso confidenziale tra lui e noi, è la messa in scena di un diario segreto ma non intimo, sai quante riserve ho sul resoconto dei nostri mutevoli stati d’animo.

Né vi troverai alcunché sulla mia vita professionale, le mie opinioni… No, Lison, solamente…” la Storia di un corpo. È questo il titolo, libro e spettacolo, prodotto da Fuorivia produzioni/Agidi, in collaborazione con Teatro Stabile di Bolzano e Teatro Cristallo. Daniel Pennac torna in scena e lo fa tramite l’interpretazione di Giuseppe Cederna e la riduzione teatrale di Giuseppe Gallione che, in poco più di un’ora, cesella un ritmo ben serrato e sostenuto. Un plauso dunque al talento di saper cucire, tagliare ciò che nel libro viene indagato, soppesato, scandagliato, sbirciato senza perderne il senso, quel senso che Daniel Pennac riesce così bene a descrivere attraverso quell’io narrante che con tutta la sua fisicità ci accompagna facendocelo scoprire attraverso i sensi e soluzioni tutte magicamente teatrali: una valigia che diventa vasca da bagno, l’odore dell’amata Tata Violette che anch’essa diventa valigia morbida, tenera, da abbracciare e libri che si accendono e spengono, le sorprese e le allegorie create sono perfettamente calibrate e calcolate in questa storia fisica che si scopre davanti a noi. Frase dopo frase, Giuseppe Cederna, velatamente trattenuto, ci racconta con un linguaggio prima acerbo, poi via via più maturo e complesso, il viaggio di una vita con le sue grandezze e le sue miserie, tra orgasmi potenti e dolori brucianti, a tratti incespicando, ci fa da filtro, ma senza censure, a quella curiosa tenerezza con cui nel libro vengono osservati gli uomini, queste strane e vulnerabili creature. Ridiamo, ci sorprendiamo e ci imbarazziamo perché in qualche modo veniamo sgamati. Noi con il protagonista, legati dalle stesse, identiche, pulsioni, leggi non scritte che ci identificano tutti senza distinzione alcuna. Lo spettacolo è esattamente questo, un testo che arriva diretto anche se alle volte l’attore sembra uscire dal personaggio, uno scollamento che pizzica, che a singhiozzi ci sospende dalla sospensione del dubbio, ci vogliamo credere più di quello che siamo riusciti a fare perché alla fine, aldilà di ogni possibile sbavatura, questo è un testo fortemente raccomandato a tutti quelli che hanno un corpo.

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