PRATO. Lo storico fallimento di una certa branca dell’impegno politico si è trasformato, prima di disintegrarsi in un insucceso che chissà per quanto tempo dovremo ancora subire senza poter avere diritto di replica, in demagogia, che rappresenta, a qualsiasi latitudine, la peggior sepoltura, senza nemmeno l’onore delle armi. Giuliana Musso, che conosce il teatro e i suoi maledetti tempi, quando ha deciso di riproporre, a venti anni dalla nascita, il suo Sexmachine, in scena al Fabbricone di Prato, avrebbe dovuto dolcemente mutilare alcune parti iniziali della prima stesura e ampliare, a dismisura, affondando oltre ogni ragionevole tristezza il coltello nella piaga, l’epilogo originale, quello nel quale il piccolo industriale del nordest confida a una mignotta qualsiasi il suo fallimento economico, d’impresa, che si ripercuoterà, inevitabilmente, su quello personale, familiare, con moglie e figlie che disconosceranno il loro marito e il loro padre. Perché una volta abbandonato il sarcasmo sinistrese, che infiniti lutti addusse agli Achei, e immersa nell’intimismo fallimentare di quegli uomini che si sono fatti da soli, stringendo forse troppo il laccio emostatico o esagerando nell’inocularsi stupefacenze, Giuliana Musso, accompagnata, come di rito, dalla chitarra funk e dalla voce carioca di Gianluigi Meggiorin, diventa irresistibile, una maschera teatrale di rara bellezza e tristezza, amplificata da quel diaframma che ricorda, in più di una circostanza, i gregari di un ciclismo d’altri tempi e doping.
I racconti, anche vent’anni dopo, sono gli stessi dell’esordio: quattro abituali clienti, di ogni ordine, casta e censo, di prostitute, una moglie/madre indignata, che si divide tra un’intervista rilasciata alla Doxa e il bambino che gioca più in là, e una zoccola doc, con quest’ultima che sembra impartire una lezione on line per tutte le nuove avventuriere. Di giovani e giovanissimi, nella platea di un Fabbricone con temperature adorabili, appena l’ombra. In sala ci sono i soliti nostalgici, quelli che non hanno saputo tramandare ai loro figli e alla generazione degli amici di questi ultimi, la passione per il teatro. Quelli grandi, Giuliana Musso, la ricordano bene, con i suoi spettacoli di ricerca, indagine, denuncia, quella onegirlshow che ha inanellato premi a profusione, diventando un punto focale del giornalismo teatrale. Sexmachine, che rappresenta, con Nati in casa e Tanti saluti il secondo stadio della trilogia sui fondamentali esistenziali (nascita, sesso e morte), analizza alcune sfumature sociali della fauna clientelare delle prostitute, tragicomiche interpretazioni affidate allo straordinario camaleontismo di Giuliana Musso che, ripetiamo, si supera nell’ultimo step, quello nel quale la tragicità prende letteralmente il sopravvento sulla tematica della rappresentazione, obbligando il pubblico all’intimismo del fallimento in agguato. Saremmo fortemente tentati di offrire la nostra angolazione per quello che riguarda il mondo della prostituzione, la frustrazione maschile che sovente cerca e trova il riscatto nella violenza più cieca e di come la società gestisca mignotte e clienti, ma il nostro giudizio esula, letteralmente, dalla recensione, quindi tacciamo, anche e soprattutto sulla demagogia che ha guidato, in questi decenni, la veicolazione della secolare e intramontabile compravendita della mercificazione del corpo delle donne, del buonismo impunito che pseudoassolve i mariti/fidanzati/amici stupratori e assassini, della falsa emancipazione femminile, con il dubbio, che nessuno è riuscito ancora a sciogliere, che si stesse meglio quando si stava peggio.