PRATO. Non conosciamo la vita privata di Massimiliano Civica e non sappiamo se nella notte tempestosa e shakespeariana nella quale è ambientata la sua ultima fatica, La stoffa dei sogni, ci siano anche e soprattutto, oltre ai successi che non gli hanno fatto lievitare il conto in banca, le sue incomprensioni, le sue sconfitte, i rapporti mancati, perché dai quali si è voluto e dovuto sottrarre, con mogli e figli. Avremmo potuto chiederglielo, alla fine della rappresentazione, visto e considerato che al Metastasio (che ha prodotto la spettacolo), dopo lo spettacolo, scritto da Armando Pirozzi, si è messo lì, il regista, a farsi infilzare dalle domande del pubblico. Ce ne siamo andati, preferendo evitare qualsiasi interferenza, anche salvifica, probabilmente, soprattutto in vista della recensione e privilegiare, con la presunzione che goffamente ci distingue, la nostra metabolizzazione di spettatori privilegiati, quelli che siedono alle prime file senza pagare mai il biglietto. Abbiamo preferito non sentire le sue spiegazioni perché ci siamo voluti accontentare delle nostre percezioni, che sono, traslate, le nostre, quelle che ci hanno imposto per una vita intera inseguire le nostre chimere. Le sue, quelle di Massimiliano Civica, sono costellate da una vita trascorsa a teatro, in quella sala/parola magica che è inferno e paradiso, gioia e dolore, successi e sconfitte, andate e ritorni, glorificazioni e condanne.

Le emoticon, brutte, sono l’inevitabile contrappasso che spesso si soffre decidendo di dare anima e corpo al Teatro, è il dazio che si paga con gli affetti più cari, quelli che non credono nei tuoi ideali e che possono argomentare la tua inconcludenza, non necessariamente fallimentare, a ogni piè sospinto, soprattutto quando, improvvisamente, la vita richiede, anziché decantazioni e rime, molto più profanamente, soldi. È il nipote non ancora maggiorenne che ruba una macchina con la quale si va a schiantare contro un albero, rompendosi un braccio, cazzata per la quale serviranno 30.000 euro per riparare tutto; sono gli imprevisti di una vita lontano e all’oscuro di qualsiasi palcoscenico, sono i ritmi quotidiani che ignorano del tutto l’abnegazione attoriale, quella che ti riscalda il cuore con gli applausi finali e che ti copre le spalle in una rigida sera d’inverno in alternativa a un cappotto che non ti sei potuto comprare. Il vecchio, ma non ancora disilluso, anzi, che non cambierebbe un atomo della sua claudicante serenità economica, è un adorabile Renato Carpentieri, marito fallimentare, padre e nonno incapace di assolvere a entrambi i ruoli, salvo indorare le pillole della propria inconcludenza affettiva con roboanti citazioni letterarie, che sono quelle che irrigidiscono ulteriormente, fino a incattivirla, la figlia Barbara (Maria Vittoria Argenti), che lui avrebbe chiamato Miranda, la figlia del Duca di Milano Prospero, nella Tempesta di Shakespeare, e ci mancherebbe altro, che aspetta, come in una sala d’attesa ferroviaria, al fianco del giovane cabarettista (Vincenzo Abbate) che duetta con l’ormai vecchio e dimenticato leone solo alle sagre paesane per poche centinaia di euro, di entrare nell’enorme salone della sua abitazione dove un tappeto srotolato raccoglie gli escrementi del cane san bernardo, preventivamente dato in consegna a un’amica, e il vomito del padre. Un goffo tentativo di ricucire, in una notte particolarmente inclemente, uno strappo lungo una vita, nella quale lo stanco e malconcio padre/nonno prova a (ri)prendersi la stima e gli affetti lasciati marcire e putrefare. È così stanco, il padre/maestro, che perde anche l’ultima chance, quella di osservare, dopo averglielo promesso, con la figlia e l’allievo, l’alba che nasce. Ma ormai, tutto e tutti intorno, sanno perfettamente come sua la sua vita, che non conosciamo, ma che possiamo immaginare: prendere o lasciare, in quell’isola fantastica, in quell’isola che non c’è, ma che non ci possiamo permettere il lusso di smettere di cercare. Soprattutto quelli come Massimiliano Civica.

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