PISTOIA. Ci vogliono coraggio e disciplina registica (Rimas Tuminas), saggezza e lungimiranza d’adattamento (Fausto Paravidino), lungimiranza produttiva (Teatro Stabile del Veneto) e impeccabili protagonisti per ridurre a novanta minuti un interminabile dramma secolare di tre atti. Perché prima o poi, il passato, soprattutto quello tenuto demagogicamente nascosto, riemerge e i suoi effetti sono generalmente catastrofici. Perché non c’è più tempo di riparare al danno e gli scheletri, tenuti ben nascosti negli armadi, prendono forma e corpo, iniziano a parlare, a raccontare e sui piccoli e grandi castelli di sabbia costruiti con la menzogna basta si imbatta una semplice onda, non un’imponente mareggiata, per cancellarli. La storia è vecchia, circa un secolo e mezzo, ma la sentenza degli Spettri di Ibsen è ancora attualissima, perché l’ipocrisia, non solo quella borghese, ma anche quella che circola un po’ ovunque, anche nel sottoproletariato, la fa ancora da padrona. Soprattutto se si affida il racconto e dunque il ruolo, doppio, di abile e indispensabile protettrice/mistificatrice prima e di esasperata rivelatrice di verità dopo, a una femmina di rare fascino ed eleganza come Andrea Jonasson, (81 anni il prossimo 29 giugno), una tedesca con il vezzo francese della erre blesa che non a caso è stata compagna e collega per ventiquattro anni di uno dei mostri sacri del teatro italiano, Giorgio Strehler.

È lei Helene, la vedova Alving, quella che ha tenuto, per una vita intera, segreta la dissolutezza del marito, che ha lasciato in dote alla società e ai posteri immeritate fortune e fragili apparenze e al figlio Osvald (Gianluca Merolli) la sifilide, la follia e Regine Engstrand, una sorellastra (Eleonora Panizzo) serva della famiglia Alving, divenuta tale per riparare all’illegittimità familiare di una delle innumerevoli scorribande erotiche del padre, tra le quali quella con la madre, la vecchia governante. Il pastore Mendes e il falegname Engstrand (rispettivamente Fabio Sartor e Giancarlo Previati), il vero amore di Helene, non corrisposto solo per le medesime contorte leggi di facciata e il padre adottivo per circostanza e convenienza, chiudono il cerchio di una tragica, buia, cupa e irrisoluta finzione, che si sgretola, rovinosamente e ineludibilmente, in questo smascheramento antropologico di una società fondata sulle apparenze difese, tanto oltranzisticamente quanto irritanti, fino alla negazione della felicità. A parlare di Ibsen e dei suoi Spettri, ospitati ieri sera (si replica oggi, domenica 19 febbraio, alle 16) al Teatro Manzoni di Pistoia, ci fermiamo qui; per rispetto di quelli che ne sanno più di noi e per quelli che faranno meglio a documentarsi, prima di aprire bocca e fingersi attori. Il resto lo dedichiamo, in piedi, applaudendo, al quintetto che ha animato questa sublime, lentissima e filtrante commedia, che impone riflessioni immediate, che rende al Teatro quel fascino inimitabile e stratosferico che si genera al cospetto di una formazione variegata, che ruota, perfettamente, attorno alla serafica sconcertata e sconcertante massiccia debolezza della vecchia protagonista, Andrea Jonasson, che ci permettiamo di corteggiare spudoratamente per quelle incantevoli doti che paiono esserle connaturate ma che sono in realtà il frutto di una vita di ricerca dell’eleganza, della professionalità e della bellezza. Come la letale incertezza del figlio, frutto di falsi miti e reali drammatiche diagnosi, la sadica compassione del vecchio claudicante padre adottivo, l’irritante distacco, mascherato da malcelato pietismo, della Chiesa e l’inesplosa (in)felicità della giovane governante, costretta comunque a ereditare, per il suo futuro, la via meno perigliosa.   

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