FIRENZE. Nel titolo abbiamo cercato di sintetizzare tutto quello che, a nostro funereo presagio, dovrà ancora succedere sulle famiglie nate e uccise dalla loro stessa inconsistenza e che prima di noi è già stato sentenziato da un giovanissimo Florian Zeller, che ha previsto catastrofici riflessi con la sua trilogia familiare: La madre, Il padre e Il figlio. Su questo intimo triangolo generazionale si è a sua volta concentrato Piero Maccarinelli, che dopo la traduzione del testo francese dell’autore ha deciso di portare in scena le sue inquietitudini, affidando a un giovane, ma ormai scafatissimo, Giulio Pranno i disagi e i dolori di un figlio che non riesce a capire, men che mai a metabolizzare, la separazione dei propri genitori, che alla Pergola di Firenze (stasera ore 21 e domani, domenica 5 marzo, alle 16) sono interpretati da Cesare Bocci e Galatea Ranzi. Il problema lo crea Marta Gastini, la nuova e più giovane moglie del papà, che ha da poco coronato il suo sogno: diventare madre con il navigato e vincente professionista e dare così al giovane tormentato Nicola un ulteriore fardello psicologico, un fratellastro molto più piccolo (Riccardo Floris e Manuel Di Martino, rispettivamente medico e infermiere del reparto di psichiatria dell’ospedale dove il giovane farebbe forse meglio a restare un po’ più a lungo concludono il cast).
Ora che ci siamo messi l’animo in pace per aver citato tutti e sei i protagonisti della rappresentazione, ci concentriamo, volentieri, sul drammatico messaggio tristemente contemporaneo delle famiglie che si sgretolano, con la stessa facilità con la quale, in tempi non sospetti, si sono formate. E che spesso materializzano tutto il loro mal di vivere con i figli che si trovano perfettamente inadatti a dare un senso al tempo, soprattutto perché orfani di guide, esempi, perché figli di genitori che devono puntualmente riparare, sbagliando ulteriormente, alle loro inefficienze. Non sembra, all’inizio della rappresentazione, che Giulio Pranno, inesorabilmente predestinato (alla commedia, eh, non all’infelicità), ricoprirà un ruolo così decisivo nella dinamica e nello sviluppo dello spettacolo. Non occorre particolare acutezza per capire che nell’opera di Zeller Il figlio, il figlio sia ruolo centrale. Ma Giulio Pranno, classe 1998, classe tanta, anche se per alcuni versi inesorabilmente grezza, senza alcuna ansia da prestazione si prende, lentamente ma inesorabilmente, tutta la scena, oscurando, con la sua crescente inadeguatezza esistenziale, la nostalgica, commovente e irritante nostalgia materna di tempi che non sembrano lontanamente riproducibili e la voglia paterna, stritolata dai rimorsi, di rifarsi una vita. Dipenderà, forse, anche dalla non eccellente vena della madre, del padre e della seconda moglie del padre, apparentemente troppo timidi per lasciare scenograficamente un segno e che avrebbero potuto e dovuto dare strappi ben più energici e drammatici alla scrittura, o forse così volutamente timidi e subalterni per dare il giusto e unico risalto al dramma terzo, dopo quello offerto da La madre e da Il padre della famiglia del terzo millennio glacialmente descritta da Florian Zeller. Operazione Il figlio perfettamente riuscita, però, perché quando il buio totale della platea e del palcoscenico hanno lasciato intendere che il dado fosse tratto, il pubblico ha sonoramente condiviso con applausi sindacali la sufficiente prova degli altri cinque, riservando ai dolori del giovane Werther la più rumorosa e convincente approvazione, alla quale Giulio Pranno, visto l’aplomb manifestato, sembra essere ormai abituato.