FIRENZE. Riuscire a far tacere, per poco più di un’ora, un’orda di studenti liceali convincendoli, con la sola lusinga del teatro, a silenziare o addirittura spegnere i propri telefonini, è già un inestimabile successo. Non poteva essere altrimenti, perché i suoni che giungono dal palco della preistoria suscitano, contemporaneamente, fascino e mistero e lo spettatore non può fare a meno di cercare di capire a quale fiera appartenga quel sibilo stordente, coperto da ululati dimenticati, a loro volta soppiantati da conversazioni familiari, classiche, usuali, estraibili da qualsiasi contesto domestico. A rimbalzare dal jurassico ai giorni nostri ci pensano, con le loro ugole, le loro voci, le anime perse chissà in quale girone dantesco, Marco Cavalcoli e Monica Piseddu (abituati a frequentare i piani alti dei riconoscimenti Ubu), affiancati, lungo la stessa bisettrice scenica, da Ivan Graziano e Arianna Pozzoli, che completano le voci ad archi e a cappella, di Ashes, lavoro metropolitano della Muta Imago, esibizione senza tempo, né storia, senza corpi, né contesti, ma con un indispensabile sottofondo musicale, quello abilmente prodotto da Lorenzo Tomio, alla chitarra, al violino, alla consolle, andata in onda, ieri sera, al Teatro Cantiere Florida, con una platea di giovanissimi ammutoliti dall’emozione di scoprire che gli effetti speciali sono quelli che ci accompagnano, sistematicamente, lungo tutto il nostro cammino, da quando iniziamo ad avere percezione fino a quando non l’avremo più, per sempre e che spesso è sufficiente prestare la dovuta attenzione a quel che ci succede attorno per riuscire a capire che cosa ci siamo venuti a fare.
Ma la nostra entusiasta percezione non si è fermata lì; in più di un’occasione abbiamo avuto l’impressione che sul palco ci fosse il Quartetto Cetra rivisitato, secondo la più nobile tradizione delle resurrezioni e dunque delle reincarnazioni, dalle anime sporche delle Voci Atroci, magnifica realtà musicale con due nomi, Esmeralda e Andrea e due cognomi, Sciascia e Ceccon, messa preventivamente e chirurgicamente in disparte onde evitare dissapori lobotomizzanti. È vero: siamo indefessi, e alcune volte estremisti, estimatori di Monica Piseddu, donna cruda e potente, cinica nelle sue dimostrazioni, poetica, tra le pieghe dei suoi avari sorrisi ed è soprattutto questo il motivo che ci ha suggerito, rasentando l’imposizione, di andare a vederlo questo Polvere, convinti, e siamo rimasti soddisfatti, che ci avrebbe fatto bene, al corpo e all’anima, farci suggerire come i suoni quotidiani di ogni stagione e tempo rientrino nell’alveo e nella sfera dello scibile e che nulla debba essere ancora più inventato. Basterebbe chiedere alle autorità giudiziarie di mettere, nelle nostre vite, sul comodino accanto al letto, fuori dalle nostre finestre, nella macchina, sulla scrivania del posto di lavoro, nella zip dei nostri pantaloni, cimici capaci di schermarci ventiquattrore al giorno per poterle poi riascoltare, ogni giorno, prima di coricarci. Queste le motivazioni umorali; il resto, lo fa il teatro, lo han fatto Arianna, Ivan, Marco e Monica, con la regia, drammaturgica, di Riccardo Fazi, microfonati e con tanto di leggio come se si trattasse di un qualsiasi reading per cercare, riuscendoci, di fondere e confondere antico e moderno, cavernicolo e futuribile, una quotidianità sull’altalena del tempo, un susseguirsi e ricoprirsi di suoni e immagini, di raccomandazioni e preghiere, di promesse e minacce, di ricordi, rimpianti, aspettative, lasciandosi risucchiare dall’adrenalina delle circostanze con il rischio, concreto, di farci dimenticare cosa fossimo venuti a fare.