PONTEDERA (PI). La violenta passione di Rossana si abbina, perfettamente, con la stanchezza di Cirano. Che per non tradire la propria nobiltà d’animo, ma senza svilirsi agli occhi del pubblico, decide di trasformare la sua delusione esistenziale in una serie concatenata di situazioni oniriche, ironiche, beffarde, cercando così di voler far credere che il proprio struggimento d’amore, sia, in realtà, un’ennesima prova da superare, un carosello di esibizioni, una dimostrazione di teatralità. È l’arte, tipicamente napoletana, d’arrangiarsi, del resto e Silvio Orlando, di questa corrente filosofica, ne è uno dei rappresentanti più illustri. Senza la sua tragicommedia, infatti, il Cirano di Michele Santeramo si sarebbe dovuto stracciare le vesti e perire di stenti tra innumerevoli angosce. Certo, ci sarebbe voluto essere lui tra le braccia di Rossana al posto di quel bellimbusto di Cristiano, bello, bellissimo, vero, ma grezzo, greve e senza la minima arte, né parte, la stessa di quei meridionali che dopo essere emigrati al nord in cerca di lavoro e dignità, vorrebbero anche perdere l’inconfondibile slang natio in favore di un accento che non si addice minimamente loro. Il palco è lo stesso, quello del Teatro Era di Pontedera, quello che ha ospitato Rossana (Sonia Bergamasco) e Cristiano (Rocco Papaleo). All’analisi completa della turbolenta passione di Bergerac mancava l’anello più forte, quello dell’impavido e invincibile spadaccino, poeta d’arme e di gesta, che per chiudere il cerchio, surreale e metempsicotico, della tragedia cavalleresca, era giusto che non desse e offrisse spunti melodrammatici. Quel naso, quell’enorme naso, diventa, in un gioco di luci e ombre, la proiezione di un bicchiere di plastica sorretto solo dalla bocca con il viso rivolto all’insù e il proscenio estivo dell’emiciclo dell’Era, vuoto, lo spazio di un pubblico che non c’è, ma che aspetta di entrare in scena. Lì, da solo, nel bel mezzo della semicirconferenza che abbraccia ad arco le spalle della scena, Cirano inizia a raccontarsi. Lo fa dopo che, sabato, Rossana e domenica, Cristiano, hanno già offerto le loro proiezioni ortogonali sull’improbabilità dell’amore e sulla sua (s)convenienza. Al trittico, mancava l’arrendevolezza, l’inesorabilità, la stanchezza. Così come Cirano trascorre una vita per cercare di entrare, senza riuscirci, nell’orbita della cugina Rossana ed esserne l’unico gradito abitante, anche noi, nei nostri piccoli, grandi microcosmi, viviamo pazzamente la tensione di un amore, che spesso non ci viene ricambiato. E allora, per non impazzire, per riuscire comunque a sopravvivere e poterla raccontare, la nostra vita, finiamo per declinare le nostre energie altrove, accontentandoci di un partner che avremmo voluto fosse altro. Ma se la vita ci concede di invecchiare, ci convinciamo che tutto sommato sia andata bene così; che canuti, indifesi, doloranti, siamo il giusto rovescio della medaglia della persona che non ci ha scelto, così come abbiamo fatto noi, ma che ha finito per trovarcisi bene. E se l’amore è quel miraggio impossibile che non può consumarsi nel corpo di una sola altra persona e che, per coerenza, alla fine di una giornata qualunque dovremmo avere il coraggio di lasciarla quella donna, quell’uomo, con la quale fingiamo di essere felici; e che se l’amore instaura le proprie fondamenta sulla bellezza di un profilo, sulla veemenza di una muscolatura, sulla fragranza di un seno, sulla malleabilità di un culo, su uno sguardo dal taglio felino che però necessitano di parole dette e comprate da altri, per sentirsi appagato, fino al punto di essere disposto a mercanteggiarle, non ci resta che limitare le nostre pretese e le nostre aspettative laddove il nostro orizzonte sia contemplabile e trasformare quel che vediamo, tocchiamo e assaporiamo nella delizia più fragrante del mondo. È il verdetto emesso dalla Cassazione del Teatro dell’Era, dal giudice Michele Santeramo, che nonostante sappia che dopo di lui nessun altro giudizio potrà cambiare la storia e la sorte dei suoi protagonisti, decide di proferirlo sottovoce, senza la tragicità dell’incontrovertibile, speranzoso, più che consapevole, che almeno dal teatro si esca cambiati. Almeno un po’.