FIRENZE. Il rischio di svelare attorno a cosa ruoti il paradossale gioco al massacro tra la vittima (Francesco Montanari) e il carnefice (Lino Guanciale) è oggettivamente altissimo. Perché sin da subito è chiaro che se L’uomo più crudele del mondo fosse Paul Veres, irritante, spocchioso, onnipotente proprietario di una delle aziende più forti d’armi d’Europa, il ruolo del giornalista, sfruttato e dunque malpagato collaboratore di un quotidiano di provincia, convocato proprio dal magnate di guerra per farsi intervistare in esclusiva, sarebbe oltremodo succedaneo, marginale, irrilevante. Al posto der libanese, tanto per intenderci, Davide Sacco, scrittore e regista del thriller prodotto dalla Fondazione Teatro di Napoli, Teatro Bellini e Teatro Manini di Narni in scena, fino a domenica 5 novembre, alla Pergola di Firenze, avrebbe potuto chiamare sul palco uno di noi tanti illusi aspiranti redattori e ottenere, probabilmente, un successo comunque confortante. Ma non è l’intervista l’oggetto del contendere. Dietro un colloquio decisamente insolito tra il giornalista e l’intervistato che dovrebbe semplicemente spiegare e giustificare come si senta un uomo a diventare ricco in modo spropositato vendendo materiale che servirà unicamente per massacrare uomini, donne e soprattutto bambini e vecchi, cosa voglia dire, per lui, insomma, sapere di essere L’uomo più crudele del mondo, c’è, inderogabilmente, altro, che sfugge a chiunque, anche allo spettatore più attento e che si svelerà in tutta la sua macabra crudeltà solo all’ultima battuta della rappresentazione, una confessione che consentirà di ripercorrere, a tragica velocità supersonica, tutte le insinuazioni che l’imprenditore bellico fa al suo addetto alle confessioni. Perché l’intervista, che consentirebbe al ricco imprenditore senza scrupoli di provare a umanizzarsi e all’anonimo giornalista di diventare finalmente famoso, prende subito una piega altamente inaspettata; non sarà una confessione, anche se arricchita da sconcertanti dichiarazioni, ma un vero e proprio duello, nel quale, in ballo, oltre che la vita, ci sono anche una montagna di soldi distrattamente custoditi in un anonimo borsone. Una proposta indecente senza un compromesso, una monetizzazione della morte per giustificare una vita tra due uomini che sembrano, entrambi, cercare qualcosa che possa dar loro una vera e proprio svolta esistenziale. Ma perché questo avvenga, è indispensabile che vivo ne resti uno solo. Ma chi, dei due, ha paura di vivere, e chi, invece, ha paura di morire? Un’ora di dubbi, incredulità, sbigottimento, disgusto, in un’altalena di parteggiamenti per i due contendenti, entrambi alla caccia della verità, della giustizia. Due persone ufficiosamente perbene che sembrano nascondere, tra le pieghe della loro apparente trasparenza e fragilità, una scomodissima verità. E perché, sin da subito, il tema della guerra, delle guerre tutte, e delle armi che ne alimentano il bisogno, la necessità e la realizzazione, passa, seppur tema dell’incontro, in secondo piano fino a scomparire? I due pugili, su un ring degno di definirsi tale, spoglio, sgombro, con due soli angoli ai quali, i due boxeur, si ristorano tra un gancio e un appercut, dopo le brevi schermaglie tattiche iniziali, perderanno, entrambi, la voglia di difendersi e proveranno, cercandosi, amandosi, come sintomo da Sindrome di Stoccolma, a sopraffare l’avversario. Un’ora di altissima adrenalina, di inspiegabile suspence, della quale non si riesce a capacitarsi se non sui titoli di coda, quando la snervante e macabra premessa che poggia la sua incomprensibile violenza sull’apparente sadismo di Lino Guanciale e il goffo imbarazzo di Francesco Montanari, acquista il suo peso specifico e rende, l’epilogo, un’inevitabile soluzione, spianando e glorificando la strada della vendetta.