PISTOIA. Anche un testo tanto ricco e impegnativo come quello di Stephen King passa, elegantemente, in cavalleria, oltre ogni più lucida e ricercata interpretazione; anche l’inconfutabile bravura di Aldo Ottobrino, che nei panni, malconci, terrorizzati e increduli dello scrittore Paul Sheldon, trova la forza e il coraggio di sopravvivere alle cure, psicopatiche, della sua acerrima prima ammiratrice, Annie Wilkes. E anche il capolavoro cinematografico, Misery non deve morire, che William Goldman volle mandare sul grande schermo confidando in James Caan e Kathy Bates, rischia, seriamente, di essere dimenticato. Anzi, interamente assorbito da Arianna Scommegna, un vero e proprio evento atmosferico teatrale, incruento, certo, ma comunque dolorosissimo, assai, forse, ancor più maestoso delle piogge che battono morte, disperazione, vendetta e cassa sulle campagne non più accudite dalla cura umana, ma sopraffatte da quella avida dell’edilizia e dell’ortovivaismo, che collegano le province di Pistoia, Prato e Firenze. Cerchiamo di restare a Teatro, usato con l’iniziale maiuscola perché, ribadiamo, Arianna Scommegna incarna, esemplarmente, molto di quello che a Teatro si può e si deve chiedere e vedere, molto di quello che si può esigere per esserne esauditi. Un talento, quello dell’attrice milanese che sabato prossimo (11 novembre) festeggerà cinquant’anni, messo nelle condizioni ideali (ma ne esistono di poco inclini al suo camaleontismo?) da un testo, curato nella regia da Filippo Dini, dove chi più ne ha, più ne metta. E lei, in queste condizioni, teme, davvero, poche rivali. Perché se riesce a incarnare, minuziosamente, la devozione, quasi religiosa, della pia donna, per poi spogliarsi e vestire, con estrema disinvoltura, gli abiti di una sgualdrina, nei panni di una psicolabile supera, davvero, il muro del suono. Ma restiamo in platea, quella del Teatro Manzoni di Pistoia, dove ieri sera e oggi, domenica 5 novembre, alle 16, nell’augurio che il maltempo dia tregua e che il tetto dell’edificio di corso Gramsci si asciughi e non richieda, inderogabilmente, un urgente intervento di manutenzione, va in scena Misery, uno spettacolo di spettacolo nello spettacolo. Al testo, geniale, di Stephen King, risponde, nello specifico, oltre alla sconfinata bravura della protagonista, messa nelle condizioni ideali da Filippo Dini che le ha voluto cucire intorno lo scrittore impaurito e resiliente e il caparbio sceriffo Carlo Orlando (che assiste Dini in regia), il sottotesto filosofico dell’immortalità delle opere d’arte e lo sciagurato protagonismo dei suoi autori e una scenografia (Laura Benzi) che accresce, con esasperante tensione, l’intera architettura della rappresentazione. La casa roteante, in aperta campagna, lontana da qualsiasi voce, amica e indiscreta, coperta dalla solitudine della protagonista, che ha finito per sopravvivere e vivere grazie soltanto alle parole dei libri scritti dal suo autore preferito e del quale ne rivendica, tanto morbosamente, quanto perfettamente e spaventosamente, il ruolo di prima, indiscussa, pedissequa seguace, sono un corollario, straordinario, alla crescente deformazione dei sentimenti di Annie Wilkes, attorno alla cui deformazione culturale, seppur minata da una claudicante immaginazione esistenziale, si potrebbero aprire innumerevoli scenari didattici e apocalittici studi psichiatrici. Resta, senza rischiare voli di improba destinazione che potrebbero condurci in zone nelle quali non sapremmo muoverci con la dovuta, indispensabile, familiarità, incancellabile, l’ennesima straordinaria prova sul palcoscenico di un’attrice che continua a mietere indiscutibili oceanici successi figli di maestose esibizioni con la grazia, meravigliosa, di chi sembra chiedere, costantemente, permesso in un mondo che potrebbe e dovrebbe eleggerla tra le predestinate.