FIRENZE. La consecutio temporum di Ascanio Celestini – e non ci riferiamo alla regola, ferrea, dei congiuntivi e dei condizionali, ma a quella dei suoi tempi teatrali – è qualcosa di stupefacente. Certe volte è addirittura difficile seguirlo senza perdere, nei passaggi e nelle concatenazioni che sfodera a distanze siderali l’un dall’altra, il senso e la trama; immaginiamo cosa possa voler dire memorizzare l’intero intreccio semantico senza mai perdere il filo con l’apparente distacco che contraddistingue quasi tutti i suoi comizi. Quasi, perché non sono tutti così politicamente feroci come lo è, insindacabilmente, Rumba, in scena al Puccini di Firenze. Il viaggio, stavolta, dopo quello fatto in compagnia di Pier Paolo Pasolini, decide di immaginarlo con san Francesco (la s minuscola è la santa accezione laica) e una sua reincarnazione a otto secoli di distanza. Una santità, quella del predicatore umbro scalzo, che si presta a concussioni politiche anche senza volerlo; figuriamoci cosa se ne può tirar fuori quando a rileggerlo e volerlo resuscitare è Ascanio Celestini: una vera e propria istigazione a rivoluzionare, più che a delinquere, con qualche eccesso che il suo pubblico, presente, massiccio, solidale, è puntualmente disposto a perdonargli. La trasposizione storica, sociale e teatrale, in questa circostanza, è davvero mirabile; si parte da una semplice, banale, disquisizione astrologica: Quante sono le stelle nel cielo? Così tante che non si possono contare. Quante sono le stelle nel cielo? Comincia a contarle. Una, due, tre. Arrivi a cento, centocinquanta. Poi perdi il conto. Non si possono contare perché sono tante e stanno tutte sparpagliate. Anche in basso, però, sulla Terra, ce ne sono moltissime e anche quaggiù non è facilissimo contarle, ma con loro si può interagire e aiutarle a essere meno opache. Così ha fatto san Francesco della propria esistenza e così ha sempre fatto Celestini con le sue opere, un narratore di teatro che non riesce, perché non sa e non vuole, distinguere il dilettevole dall’utile. Anche con Rumba succede la stessa identica cosa, su un palco spoglio da ogni orpello se non da pochi dettagli: una sedia, un piccolo fondale di immagini dipinte da Franco Biagioni rievocanti le gesta del santo e per la presenza, da complice musicista, di Gianluca Casadei, al piano e alla fisarmonica e dalla voce registrata di Agata Celestini. E la sua voce, pseudonasale, senza alcuna variazione di tonalità, come se leggesse un menù di una trattoria fuoriporta, che offre gli stessi identici piatti ormai da una vita. La parte della ghigliottina, che quando viene liberata dalle funi che la tengono sospesa come spada di Damocle cade velocemente verso terra tranciando di netto tutto ciò che trova, teste comprese, naturalmente, la fanno le parole, usate con lucida sentenza, ma senza venir mai appesantite o edulcorate da variazioni del diaframma o particolari gestualità corporee. Nelle sue condanne, senza appelli, trovano albergo tutte le contraddizioni che caratterizzano la società contemporanea a cavallo tra il secondo e il terzo millennio, quelle che esaltano l’intero Occidente – come scriverebbe Rémi De Vos -. Ma vengono snocciolate con un impressionante rigore temporale, intervallato da lunghissime parentesi che sembrano non avere mai alcuna relazione con il tema della rappresentazione. E invece. E invece Giobbe, il magazziniere analfabeta, Joseph, il trasportatore nord africano, lo zingaro adolescente che fuma al bar invece di andare a scuola come tutti i suoi coetanei, la puttana che è riuscita a ricomprarsi la propria libertà, il figlio malato di sclerosi che è il migliore della classe ma che procede come se la sua vita fosse a rallentatore, sono tutti a servizio della sua causa teatrale, che è, inesorabilmente, causa civile, politica, storica. La richiesta di soccorso a Pasolini non si fa attendere nemmeno in questa circostanza; lo fa a Greccio, il piccolissimo comune dell’alto reatino, alle porte con l’Umbria, dove nel 1223, esattamente otto secoli fa, San Francesco (stavolta la S non può non essere maiuscola) istituì il primo presepe, senza maddona, giuseppe e bambin gesù, ma solo con una mangiatoia, un bue e un asinello, quell’uomo che in tempo di guerre sante e dunque giuste provò a parlare con i contendenti chiedendo loro di evitare il ricorso alle armi e alle contese, di fare un passo indietro e dove Ascanio Celestini, commissionato proprio dal Comitato Nazionale del piccolo borgo laziale, ha svolto uno studio parecchio meticoloso sulle origini, povere, di quel borgo divenuto, nei secoli, simbolo, ignorato perché fastidioso, di vita francescana, titolandolo poi, come se fosse una cantilena adolescenziale, Rumba. Due ore abbondanti di nomi, date, parentele, denunce, satire, fantasmagoriche, trasposizioni temporali, agghiaccianti considerazioni, specifiche accuse politiche, con qualche discutibile assoluzione e qualche perdonabile scivolone demagogico, ma in un involucro teatrale di assoluta, rara, efficacia.

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