PESCIA (PT). Resta uno dei mestieri più difficili, quello dei genitori; in particolare, la mamma, perché checché ne dicano le nuove irritanti antologie, i figli son cosa loro, non foss’altro per quei primi interminabili, silenziosi, solitari e magici nove mesi di grembo. I padri arrivano sempre e soltanto dopo, senza tra l’altro avere la minima certezza di esser loro quelli della componente Alfa, quando i figli, ormai, seppur minuscoli, ma esseri umani al completo, nascono e, spesso, fan solo disastri. Florian Zeller, nonostante la giovane età (teatrale), sulla famiglia ha già portato a compimento la trilogia e con La madre, ieri, al Teatro Pacini di Pescia, ha chiuso il circolo triangolare, affidando ad Anna, alla pugliese Lunetta Savino, oneri e onori materni. Che sono prestigiosi e impeccabili fino a quando la situazione non mostra l’inesorabile naufragio; con le prime schermaglie coniugali, infatti, quelle intraprese con il marito (Andrea Renzi) impegnato in convegni e in tutto ciò che lo possa tenere lontano da casa, i suoi cenni di cedimento nervoso prendono la giusta piega umoristica, satiricamente cinici quando descrivono un amore decisamente meno sconfinato che nutre per Sara, la figlia, che non arriva mai in scena. Poi, però, sembra quasi preferire non lasciarsi risucchiare del tutto dal lancinante, ma immotivato, dolore causato dall’inevitabile, perché chimico, distacco di Nicola, il figlio (Niccolò Ferrero), proteso a vivere la sua vita in compagnia di Elodie (Chiarastella Sorrentino), la bella fidanzata. L’afona scenografia chirurgica, illuminata da luci al neon da guerre stellari, che si avvale di un tavolino, tre sedie, un frigorifero, un microfono che esce, a richiesta, da una botola posta sul palco e una serie di varchi senza porte, rende perfettamente l’idea che Marcello Cotugno, il regista, vuole imprimere allo scoccare temporale delle immagini, sulle quali volteggia, inesorabile, lo sdoppiamento realtà/illusione, con le scene e i dialoghi che vengono, talvolta, ripetuti in modo ossessivo, per differire, l’un dall’altro, per soli pochi, piccoli, insignificanti dettagli, che sono poi quelli che innescheranno, in Anna, il germe della follia, alla quale, però, la storia concede una grande opportunità: addomesticarsi all’idea che i figli (che il figlio maschio) crescano e facciano la propria vita. Succede nella stanza dell’ospedale, dove è stata ricoverata perché ha ingerito una quantità spropositata di sonniferi abbinandoli all’alcol; la visita e la vista di Nicola, che le porta un vistosissimo fiore rosso, rosso come il vestito che si è comprata per provare a uscire dalla monotonia, casomai ringiovanendo, casomai uscendo a cena proprio con il figlio, l’unico maschio di casa in grado di sostituire l’assenza del marito, con il quale ha perso da tempo qualsiasi tipo di speranza di poterlo riavere accanto almeno come uomo, visto che il padre non è mai riuscito a farlo, la induce infatti a tentare, almeno, di risollevarsi dal torpore nel quale ha deciso di lasciarsi cadere, alzandosi dal letto e andando, sorridendo, incontro al figlio. Il barlume ottimistico che si intravede sul fondale della rappresentazione non muta, di un solo atomo, l’inesorabile – e forse anche per questo ancor più irritante, ingratitudine nei confronti delle donne nutrita, con sconcertante assiduità nel tempo, cadenzato con chirurgica precisione, tanto dai mariti quanto dai figli, un lento compulsivo oblio che le donne sembrano essere condannate, più che destinate, a subire, perdendo, con il trascorrere del tempo, lo scettro femminile nei confronti dei mariti e quello dell’Amore non più corrisposto dai figli, come ha cantato Fiorella Mannoia, con quel meraviglioso manifesto dedicato alla forza, sorda e cieca, di Quello che le donne non dicono.