PRATO. In assenza di nuovi agognati sussulti, tutti i grandi vecchi del teatro si sentono in diritto/dovere di dare ancora il loro contributo alla causa delle Produzioni e alle casse dei botteghini. Compreso Alessandro Benvenuti, in scena, in questi giorni, al Metastasio di Prato (si replica oggi, due volte, alle 16 e alle 19,30 e domani, domenica 21 aprile, alle 16,30) con Lieto fine. Sulla surrealtà e sul nonsenso, il 74enne fiorentino ha fondato tutta la propria biografia: teatrale, televisiva, letteraria e cinematografica, ritagliandosi, già dai tempi dei Giancattivi, un prestigioso lembo di notorietà, che lo hanno sempre visto caracollare tra Samuel Beckett e Woody Allen. E nulla e nessuno potrà, anche qualora volesse, inficiarne o solo sminuirne il prestigio. Dall’alto della sua parecchio britannica vis comica, però, non può consentirsi tutto, come allestire un palcoscenico dall’aria di un Ritorno al futuro granducale, vestirsi da esploratore ambientalista e sciorinare, per poco più di un’ora, un’infinità di luoghi, memorie, voci plurifoniche, mesti e pii ricordi, togliersi qualche sassolino dai mocassini, specchiarsi orgogliosamente nelle sue battute anche se nessuno ride più e gongolarsi su un’infallibile memoria fotografica e didascalica che non teme rivali, con l’aggravante, non certo modesta, di dire complessivamente e praticamente nulla. Un saggio di gramelot, una padronanza sintattica, anche se vernacolare, maestosa, impreziosite dall’assenza, totale, di leggii, gobbi mimetizzati e pause riassuntive. Un esercizio personale e collettivo (soprattutto per chi ha ancora il coraggio di avvicinarsi al mestiere d’attore) letteralmente svuotato da qualsiasi contenuto. Mario, Marzio, Mara, gli amici, i rivali, l’amore (perduto), il bilancio di una vita, gli opportunismi e le cattiverie, i rimorsi e i rimpianti, per fortuna alleviati dalle problematiche quotidiane. In un’atmosfera a volte dark, sovente hollywoodpartyana, anche brancaleonica, però, dove sibilano rumori agghiaccianti, che fanno il paio con lampadine intermittenti care al Benigni de L’altra domenica. Tutta la frutta che conoscete e della quale avete solo sentito parlare messa in un frullatore e, una volta pappa, versata in una coppa e degustata, fingendo, goffamente, di riconoscerne i singoli aromi, le terre originarie, l’esposizione al sole, le stagioni delle maturazioni. Silenzio liturgico, in platea, così come si conviene e si dovrebbe convenire, ma più per capire il momento topico della rappresentazione e correlarlo a tutte le informazioni che lo precedono e verranno dopo. E invece, su e giù per le montagne russe, cercando di spiazzare così abilmente lo spettatore e indurlo, al termine del sontuoso monologo, a un inevitabile, ma inconsapevole e incomprensibile, applauso.

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