PISTOIA. Stavolta, recensire, più che una volontà professionale, è un inevitabile dovere. Perché ad assistere a Fumatrici di pecore, gemma straziante e delicata di poesia, ci siamo trovati di fronte a qualcosa senza capo, senza coda, senza tempo, senza ritmo, senza trama, senza pace. Riassumere è impossibile; e allora, via a tutte le emozioni ricevute, che sono state una cascata delicatamente fragorosa, a volte devastante. Antonella Bertoni, coreografa di fama internazionale, ha deciso di farsi collaborare da Patrizia Birolo, che di internazionale ha l’anima e dunque, non ha bisogno di parole. Come per i lungometraggi muti di Charlie Chaplin; vero, ci sono i sottotitoli, ma nessuno li legge, si capisce benissimo l’oggetto delle conversazioni tra Charlot e i suoi interlocutori: basta guardarli negli occhi. Ieri sera, al Funaro di Pistoia, è successa la stessa identica cosa; il pubblico osserva le due protagoniste, mamma e figlia, docente e discente, vittima e carnefice, a ruoli sistematicamente invertiti, senza prestare attenzione, ma nemmeno ascolto, a quel che dicono. Si sono sorrette, dall’inizio alla fine, in questo incontro con il pubblico, regalandogli momenti di imbarazzante pudore, debordante tenerezza, luttuosa allegria. E due grandi abilità: scontata, la prima; inimmaginabile, la seconda. Ma, mai, durante la rappresentazione, che una abbia potuto fare a meno dell’altra. E non perché lo spettacolo, altrimenti, non avrebbe avuto senso, ma perché è proprio così. Scalze, con una sottana nera, coperta a sua volta, da uno spolverino, anch’esso nero, quello che si vede abitualmente indosso alle custodi degli istituti scolastici. L’intero palco è coperto da un telone bianco e sull’estrema sinistra, a ridosso della prima fila di spettatori, un tavolino, dove verranno appoggiate, via via, tutte le pecore (bianche) che animeranno la scena, comprese le due destinate a essere aspirate; all’unica, nera, che rimarrà fuori, consentiranno (chissà) di arrivare a stare con il resto del gregge grazie a un asse di legno inclinato sul quale potrà raggiungere il resto del pascolo. Non chiedeteci di cosa parli Fumatrici di pecore perché non lo sappiamo e non sapremmo descrivervelo nemmeno domani, per fortuna. Però ci siamo portati via, con il fumo delle candele, quella carica commovente di gentilezza e compassione, eleganza e simpatia, tenerezza e sensualità e non siamo disposti a condividerla con nessuno, perché con il trascorrere del tempo, degli altri, siamo sempre più propensi a non fidarci. Vorremmo infatti poter suggerire la visione dello spettacolo solo alle persone che riteniamo vicine alla nostra lunghezza d’onda; ci dispiacerebbe che animi non disposti alla leggerezza, all’amore, alla trasmissione di caratteri, potessero avere il lusso di assistere a un lavoro così profondo e apparentemente casuale, a cappella (O forse è proprio a questi ultimi che dovremmo raccomandarne la visione. Chissà). Dietro invece, oltre all’immancabile Michele Abbondanza, c’è un concerto di organi, fiati, violini e tamburi e anche Tiziano Ferro e tutto quello che appare è figlio, legittimo e riconosciuto, di una meticolosa, ma allegra, condivisione laboratoriale, attoriale, umana. Un’ora, abbondante (qualche segmento potrebbe essere tagliato) di uno scambio infinito di emozioni e suggerimenti, fatalità e ostinazioni, vittorie e sconfitte, interrogazioni finite a tarallucci e vino, dove la (con)fusione rende credibile l’inverosimile e lo storico, con una linea così sottile di demarcazione che sembra voler giocare a non farsi trovare, dove le perfette movenze ginniche di Antonella sono lo specchio, fedele e pulito, nel quale Patrizia può e deve rifrangersi. E non certo perché un domani qualsiasi Patrizia assumerà il candore elegiaco di Antonella; non succederà, né potrà succedere. La vera scommessa, sulla quale si cimenta lo spettacolo, è che Antonella riesca, senza perdere un atomo di professionalità, a confondersi e a cibarsi della dabbenaggine atletica di Patrizia, che la vita ha deputato a insegnare senza che lei se ne sia potuta minimamente rendere conto. Le felicità delle due protagoniste, al termine della rappresentazione e dopo la doccia, si somigliano maledettamente; Patrizia, senza Antonella, non avrebbe mai scoperto di essere un’artista e Antonella, senza Patrizia, lo sarebbe, seppur di una sola unghia, forse, meno. Del resto, lo spettacolo, termina sulla scia della preghiera, laica e apocrifa, che le due protagoniste fanno, inginocchiate, al cospetto del tavolino dove invece della capanna di Betlemme, ci sono, seppur manchino Gesù, Giuseppe, Maria, il bue, l'asinello e i Re Magi, pecore, e in grande quantità.

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