PISTOIA. I napoletani, si sa, si trovano ovunque si vada; è un popolo errante, senza pace, ma nessuno di loro, allontanandosi, anche per sempre, recide le radici. Anzi. E anche ieri sera, a Pistoia, al Funaro (per l'ultimo appuntamento stagionale, curato, come i precedenti, da Lisa Cantini), ad assistere a L’ammore nun’è ammore, spettacolo interamente recitato in partenopeo, anche se con il supporto musicale, dunque globale, senza frontiere, di Marco Vidino, qualcuno, tra il pubblico, perché napoletano trapiantato altrove, ha potuto seguire e capire, letteralmente, le meravigliose, soprattutto perché audaci, traduzioni e tradimenti che Dario Jacobelli, anni or sono, fece di trenta sonetti di William Shakespeare. Paradosso, esaltante, teatrale ha voluto però che a godere, massimamente, della magistrale rappresentazione di Lino Musella, napoletano doc, che si trapianta ovunque lo chiami il lavoro, ma che dalla sua Napoli non si muove, sia stata quella fetta di pubblico, la più nutrita, tra l’altro, che il napoletano non lo sa e dunque non lo capisce. A fare da traduttore, da simultaneo, da interprete poliglotta, anche stavolta, come succede sistematicamente quando occorre, ci ha pensato il Teatro, che è quel filtro magico, mastodontico e invisibile, poderoso e leggero, acquistabile, ma non trattabile, solo attraverso studi matti e disperatissimi, che hanno, tra le banconote e i documenti nei loro portafogli, tutti gli attori che possano definirsi tali. E siccome Lino Musella è uno di quei fortunati possessori, ecco che il suo spettacolo, un monologo sapiente tra cappelli, parrucche, accappatoi, Ceres e sigaretta, ma fatta con tabacco, cartina e filtrino, che si avvicina al pubblico, per poi violarlo nella sua intimità, non solo perché bendato chiede a qualcuno di loro di sorreggerlo con le mani, né perché attraverso un tubo flessibile, racconta, privatamente, un suo pensiero nel cono auricolare del fortunato destinatario, in quello slang che è musica e teatro, poesia e morte, ammore che nun’è ammore, diventa un’onda meravigliosa di sensazioni, una flebile, ma vigorosa, orazione, una serie innumerevole di carezze e schiaffi dati e distribuite su entrambe le guance, fino al punto di non riuscire a capire, né decifrare, quale sia la parte offesa e quella adorata. Ma non basta. Non basta la bravura professionale di Lino Musella; per arrivare fin nei meandri dello stomaco senza passare dalla bocca, dalla triturazione dentale, dall’amalgama salivale, bisogna servirsi di qualcosa che non necessiti di alcun supporto. Ci vuole la lingua napoletana, che non è soltanto un dialetto alla stregua delle decine e decine di altri che colorano e diversificano l’Italia, ma è, chimicamente, uno stato avanzato della comunicazione verbale-non verbale; in parole povere, è il linguaggio teatrale. Mentre scriviamo ci rendiamo immediatamente conto, e per questo chiediamo scusa – sapendo comunque che non ce ne vorrebbero – a Gilberto Govi, Macario, Aldo Fabrizi, Gigi Proietti e a pochi altri menestrelli fuoriclasse che hanno avuto la sfortuna di nascere e crescere altrove; la vis poetica, drammaturgica, musicale del dialetto napoletano non ha eguali sulla faccia delle terra. Su questo dato indiscutibile e incontrovertibile si può poi impiantare un discorso, anche senza fine, per arrivare alla conclusione, inconfutabile, come la premessa non ammetta repliche. Ma non basta, non basta la fiorente congenita fortuna della lingua napoletana, l'esperanto teatrale, a fare Teatro; se così fosse, in quel lembo di terra benedetto/maledetto, non ci sarebbero musicisti, pescivendoli, fiorai, meccanici, impiegati, camorristi e tutta una serie di figure più o meno professionali che non occorre che si snocciolino: tutti farebbero gli attori. E invece, per diventare un Lino Musella qualunque, oltre che essere napoletano, occorre studiare, studiare, studiare, studiare, studiare…