di Catia Zanella

Louis, un famoso scrittore trentaquattrenne omosessuale, decide di far visita, dopo 12 anni di assenza, ai suoi familiari. Vuole salutarli. Quello sarà il suo ultimo ritorno a casa perché è condannato a morire prematuramente. Per comunicare la notizia dovrà aspettare il momento giusto, confida al suo amore al telefono. Inizia, quindi, sia per lui che per lo spettatore, l’attesa di quello che si preannuncia un solenne momento. La sua famiglia, ancora ignara, gli si compatta attorno al suo arrivo. Ognuno si prepara a modo suo a quella inaspettata visita e ognuno intratterrà con lui una propria maldestra, o quantomeno inadeguata, relazione, a cui Louis sottace.

La cognata preferisce raccontare l’ordinario, il fratello resuscita vecchie incomprensioni e livori, la sorella piange della loro lunga assenza e la madre riassume tutto il suo amore, ma anche lo sconcerto di tante cose ancora troppo sconosciute che ora emergono dirompenti. Questa storia di ineluttabile verità è il plot di È solo la fine del mondo, l’ultimo, ma solo in ordine di tempo, speriamo, capolavoro del giovanissimo regista cinematografico canadese Xavier Dolan, 28 anni,  che si è ispirato all’omonima rappresentazione teatrale di Jean Luc Lagarce, con alle spalle già cinque opere prime di micidiale spessore. Stavolta, gli abiti dei suoi personaggi, ha voluto farli indossare a Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Léa Seydoux, Vincent Cassel e Marion Cotillard, che hanno aggiunto la loro professionalità ad un dramma semplicemente stordente. Louis sembra sempre sul punto di disvelare il motivo del suo ritorno a casa, ma si trova sempre bloccato da qualcuno che cerca spiegazioni, oppure un recupero di tempo, o comprensione. Nella costrizione della dinamica familiare irrisolta e pressato dalla urgenza della sua fine, trionfa lo straordinario: in questa attesa di comunicare la propria imminente fine e quindi in questa attesa della morte, non c’è panico per il dolore, ne’ pathos dell’ineluttabile. Louis è fisicamente sempre più sofferente; sembra delicato e fragile, ma in realtà è compatto e solido. La sua è una attesa matematicamente equilibrata, è la vita stessa. E allora ci si chiede: come si fa a rimanere così monumentalmente leggeri davanti alla morte? È questo che rende la pellicola straordinaria, la possibile risposta è il suo legame con la letteratura, con la cultura a cui sì ha deciso di dedicare la vita, seppur breve, e la vicinanza alle proprie scelte (essere partito giovane in cerca di se stesso e l’apertura della sua omosessualità). Un film sulla morte, che costringe lo spettatore a pensare alla propria, ma con una tale leggerezza che sembra di intraprendere un viaggio straordinario con l’interprete.

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