di Marcello Bugiani

Intenso, bello e spettacolare il Mel Gibson guerriero nel Pacifico, anche grazie al suo alter ego sullo schermo, quell'Andrew Garfield sicuramente più convincente in questo ruolo che in quello di padre Rodrigues nel Silence di Scorsese. Il merito più grande di Gibson sta forse nell'aver confezionato una pellicola, La battaglia di Hacksaw Ridge, che non dimentica niente (ma proprio niente!) dell'iconografia cinematografica a stelle e strisce in fatto di guerra, che si tratti di Vietnam, Giappone o sbarco in Normandia. Eppure, seppur trattandosi di un nobile collage di tanti già visto, il film ha una sua forza visiva che sbaraglia molta della concorrenza sul genere. Protagonista assoluto Desmond Doss, giovane testimone della Chiesa Avventista che sente forte il desiderio di aiutare la Patria dopo il disastro di Pearl Harbor, offrendosi come volontario nell'esercito americano;

ma Desmond è obiettore di coscienza, ha giurato di non toccare mai un'arma in vita sua, come potrà far parte di un battaglione d'assalto? Sarà arruolato come Medico al seguito, non ucciderà Giapponesi, ma salverà tante vite americane, il piatto della bilancia resterà comunque in pari, anzi. Ma non tutto è così semplice, il Nostro ha un padre alcolizzato, reduce della Grande Guerra. Il vecchio, sul fronte francese, ha visto morire tanti compagni di trincea, sulle loro tombe, quotidianamente, scola bottiglie di whisky e non può certo benedire la scelta del figlio di gettarsi, disarmato, in battaglia. Ma Desmond non molla, perché la violenza l'ha vista e subita in casa ogni sera al rientro del padre, perché ha deciso di far valere le ragioni della sua fede contro l'assurdità delle guerre: l'unica arma che possiede è una Bibbia, la sistema nel taschino a proteggere il cuore e si trasforma in eroe immortale, salvando la vita a ben 75 compagni abbandonati feriti sulla cima maledetta di Okinawa. Come già detto, non manca niente del genere hollywoodiano legato alla narrazione di guerra: c’è la bella che sposa il protagonista e attende fiduciosa il ritorno dal fronte; c’è l’addestramento duro con tanto di sergente spietato con i deboli del battaglione (figuriamoci con un obiettore di coscienza); c’è il compagno di camerata stronzo e quello bravo e buono. Poi si parte, si arriva al fronte e sfilano davanti agli occhi dei nuovi arrivati i cadaveri gettati sui carri come bestie macellate, nelle tende da campo risuonano le grida e le maledizioni dei feriti, dei mutilati, di coloro che non sai bene se ritenere fortunati perché rimasti in vita o pregare per loro perché il Signore faccia finire quelle indicibili sofferenze. Poi ci sono i Giapponesi, e si chiarisce subito che di umano hanno ben poco, quello che potranno farti di terribile te lo faranno, si faranno saltare in aria pur di uccidere uno yankee; e andrà così, ma i Giapponesi moriranno tutti, perché il Dio vero sta dalla parte dei bianchi, non può essere altrimenti. Come gli Indiani d’America nei vecchi western, anche i Musi gialli non hanno speranza, muoiono a grappoli: unica concessione all’anima giapponese (e vai con la retorica!) il seppuku praticato dal samurai ormai cosciente dell’inevitabile tracollo. Quindi, perché il film è piaciuto? Gibson restituisce tutta questa salsa americana con impareggiabile crudeltà di immagini; la camera è sempre dentro l’azione: gli spari, le bombe, i morti suonano e danzano intorno allo spettatore senza attimi di tregua; la tenacia delle inquadrature vale quanto l’incrollabile fede di Desmond che trascina infaticabile i compagni feriti verso la salvezza. A Gibson in fin dei conti interessa poco delle ragioni degli americani o di quelle dei giapponesi, il suo sforzo da regista è tutto lì, in quella Bibbia nascosta nel taschino che trasforma un povero ragazzo della Virginia in un supereroe destinato a fare la storia d’America. Come successo a un illustre predecessore, ovvero Clint Eastwood, Mel Gibson vale cento volte di più come regista che come attore; il computer oggi facilita molto le scene di guerra con i corpi che volano, ma non basta a dare sostanza ai film; il resto viene da dentro, che sia nella testa o nel cuore: chiamatela Fede, se vi va.

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