di Alagia Scardigli

NEL SEQUEL di Blade Runner l’anno è il 2049 e ci sono macchine volanti, pubblicità sotto forma di ologrammi ciclopici e il mondo appare come un’enorme industria abbandonata. Gli uomini che lo abitano sono così piccoli rispetto a questa macchina gigante che li governa; non si vedono nemmeno: sono annebbiati dalle piogge acide, non c’è sole che possa illuminare le loro vite. Ecco, ma dove sono, questi umani? Chi sono gli umani? La nostra identità è basata sulla memoria. Da 1984 a Fahrenheit 451 sappiamo che la distopia si realizza quando l’uomo cessa di ricordare, se smette di ripensare alle sue origini. Ma se in questo cyber-futuro la memoria fosse data anche a chi non ha vissuto? Cosa accade se generi ricordi in chi non ha un’infanzia, in chi non ha un’anima? Un replicante può provare emozioni, anche se inculcate? Può porsi dubbi esattamente come fa l’uomo filosofico? Allora cosa distingue i nati dai creati? La linea che separa umano da replicante è così sottile da metterci in confusione per tutta la durata della pellicola.

Noi che conduciamo ogni giorno le nostre vite per inerzia, noi che lavoriamo fino a dimenticare chi siamo, noi che abbiamo scordato come erano gli alberi e il calore del sole, noi che preferiamo un corpo virtuale alla pura carne, siamo reali o la macchina ci sta tecnologizzando, lobotomizzando? Avevamo costruito i replicanti per servircene, ma ora sembra siano loro a prendere il controllo delle nostre vite. E torna in mente un detto latino, che già aveva intuito le potenzialità degli strumenti fuori dal sé: Habere non haberi. Il film scorre, lento, come se andasse al di là del tempo, lontano dalla vita frenetica che conducono gli altri abitanti del mondo, durante un silenzio inquietantissimo, coperto solo dalla meravigliosa musica di Hans Zimmer. Gli scenari, questi spazi sterminati, che ricordano le opere allucinate di Zdzisław Beksiński, ci trasmettono ancora di più l’idea del vuoto, dell’assenza, del dimenticato. E’ tutta una storia su quello che è reale e quello che non è reale. E il criterio di giudizio non può più essere la nostra memoria, né i nostri sentimenti. Perché anche questi sono trasmessi dall’alto, non sono nostri, personali. Non abbiamo più corpo né anima perché siamo inquinati dai voleri della macchina, dell’alto: serviamo solo come forze lavoro. Non abbiamo nemmeno bisogno di un nome. I replicanti sono fini a loro stessi. Almeno sembra. Ma se invece si potessero riprodurre? E perché possono riprodursi? Perché il cyber-amore può generare vita? Può nascere un nato da ciò che è creato? La forza di dare vita, l’amore, è il vero will zum leben (la volontà di vivere schopenhaueriana), il principio di individuazione dei replicanti? Una risposta non è ancora possibile nel 2049 e risulta evidente che ci sia bisogno di un futuro ancora più lontano, di un sequel del sequel, per conoscere, forse, la verità. La storia dell’umano, come quella del replicante, è una continua ricerca dell’identità e del senso della vita. Siamo passati dal filosofeggiare sotto a un albero a porci dubbi esistenziali in ambienti gigeriani, ma non possiamo smettere di porci sempre le stesse domande. L’artista, quando crea, non può non mettere parte della sua storia, come dicono nel film: questa stessa pellicola ne è la dimostrazione. Perché in Blade Runner 2049 gli esseri umani che hanno generato i replicanti sono invisibili così come a noi, al di fuori del cinema, è negato conoscere e vedere il principio primo di tutto (Dio?). Questa non è la storia dei replicanti, ma il cammino dell’uomo alla scoperta di se stesso.

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