di Catia Zanella
UNA MORBIDA criniera che al rallentatore appare ancora più vaporosa, due occhioni irrequieti di cavallo in libertà e gli zoccoli che scalpitano dilatandosi nel tempo rallentato, scorrono, all’inizio del film (The rider, di Chloé Zhao, con Brady Jandreau, Tim Jandreau, Lilly Jandreau), in sogno al giovane protagonista, Brady Jandreau, di etnia Oglala Lakota Sioux, che vive nella riserva con il padre e la sorella (ai quali, assieme agli amici, è stata affidata la loro stessa storia da raccontare). Il ragazzo si è fatto male in una brutta caduta in un rodeo, che gli è costata una profonda ferita alla testa e la sporadica perdita di prensilità da una mano. Per chi, come lui, ambisce a fare il cowboy e i rodei può essere decretata come la fine di un sogno. Quando il padre lo rimprovera dell’accaduto, l’adolescenza risponde Ho fatto quello che dovevo fare, in un riverente richiamo ancestrale. Ogni tanto Brady riguarda malinconicamente le immagini di vittoriosi rodei mentre omaggia la tomba della madre e redarguisce il padre per non fare il proprio dovere e sperperare tutto alle slot machine, coccola e cura la sorellina affetta da un lieve handicap e placa il proprietario della loro casa mobile risarcendogli con lavoretti occasionali mesi arretrati d’affitto.
Quindi, si reca regolarmente in ospedale a far visita ad un caro amico, anch’egli astro nascente delle arene, ora su una sedia a rotelle in seguito a uno scontro in arena. Come se non bastasse, anche gli amici lo spingono verso una ripresa dell’attività di combattimento senza rispettare i giusti tempi di convalescenza, richiamando certi temi delle valorose origini etniche dicendogli Noi lo cavalchiamo il dolore. A questo disastroso spaccato adolescenziale, la regista intermezza il rapporto che Brady riesce ad instaurare con qualsiasi cavallo abbia a che fare. Ha ereditato dal padre e dalla madre - che a loro volta la ereditarono dai genitori - l’arte di domare entrando in intima interazione con l’animale, rapporto il cui valore trapassa dallo schermo. Le praterie sconfinate e selvagge, i tramonti rosa e gli orizzonti solo cielo/terra rimandano a una natura gloriosa e salvifica coprotagonista di questo lungometraggio fra il documentario e la fiction. Forse è un omaggio a un popolo ancora vivido e combattivo (vedi nel 2007 lo stralcio degli accordi con Washington) che trasversalmente la regista aveva trattato con il suo primo film presentato al Sundance e alla Quinzaine de realisateir di Cannes, come Rider, a cui vanno aggiunti per quest’ultimo anche quattro candidature agli Indipendentisti Spirit Awards. Non abbandonare i tuoi sogni è il monito dell’amico in sedia a rotelle per un film molto interessante che chiude con la dedica della regista a tutti i corridori che vivono le loro vite 8 secondi alla volta (otto secondi sono la durata di una competizione al rodeo).