di Olimpia Capitano
SEMBRA DI SENTIRE l’odore acre di quei vicoli che affacciano sul caotico scantinato dove vive la famiglia Kim. Un groviglio di corridoi intricati e mobilia accatastata, tra cui farsi spazio e inerpicarsi fino all’angolino in alto a sinistra sopra un cesso malandato per allacciarsi al wi-fi di qualche altro disgraziato, un po’ più ingenuo, del quartiere. È uno spazio fuori dal mondo contemporaneo e postmoderno, che lo insegue rimanendo sempre indietro, sovrastato da un’intera città che sembra soverchiare quel seminterrato: un catasto di avanzi e sopravvivenza che sta ai piedi del mondo e cerca di non essere schiacciato. Così la vita scorre, tra un cartone di pizza da ripiegare e l’altro, come automi per raccapezzare uno stipendio di cui a malapena campare, e di fronte allo sciogliersi di scene quotidiane che sporcano momenti di raccattata serenità conviviale con il piscio di ubriachi disperati in mezzo a cumuli di spazzatura che premono contro le finestre del seminterrato. Parasite è una black comedy scritta e diretta dal regista sud coreano Bong Joon-Ho, che quest’anno ha vinto moltissimi premi, dall’Oscar per il miglior film, alla Palma d’oro a Cannes, al David di Donatello per il miglior film straniero e molti altri ancora. Il film esplora indubbiamente alcuni aspetti della cultura sud coreana, passando dai registri iper formali per rivolgersi a coloro che appartengono a classi più agiate, sino all’uso ossessivo dei defumigatori e degli umidificatori, a causa della paranoia psicotica locale, in parte giustificata, riguardo a polveri sottili e pessima qualità dell’aria.
Parasite è il primo film non in inglese a vincere il premio cinematografico più importante al livello globale e questa è senz’altro una svolta per il cinema mondiale e per la cultura sudcoreana che è centrale nel film. Tuttavia il fulcro di tutta la vicenda non è localistico, se non per il fatto che il film resta molto legato alla cinematografia della Corea del Sud, in cui è stato pensato, prodotto e girato. Ciò che effettivamente rende così forte e di impatto globale il film è il prodotto di ragioni storiche, sociali, politiche e culturali. In sostanza il film mostra una condizione particolare e locale, inserita in un contesto dove certamente il divario economico e sociale appare più forte che altrove, ma che rappresenta una realtà comune e diffusa, ossia la difficoltà della coabitazione tra persone di classi diverse. La narrazione si articola attraverso le vicende della famiglia protagonista, padre, madre, due figli giovani: il marito Kim Ki-taek (Song Kang-ho), sua moglie Gook Moon-gwang (Lee Jungeun) e i loro due figli, il diciottenne Kim Ki-woo (Choi Woo-shik) e la ventenne Kim Ki-jung (Park So-dam), che trascorrono le proprie giornate all’insegna della povertà più estrema. Il padre ha sbagliato investimenti, i due ragazzi non sono riusciti a proseguire gli studi e non perché non si fossero preparati; è andata così e del resto non avrebbero avuto nemmeno i soldi per studiare. Un giorno un amico più ricco del figlio gli chiede di occuparsi di una sua allieva di inglese, sostituendolo per le ripetizioni. Il ragazzo si inserisce così in un ambiente quasi surreale. Cammina inerpicandosi tra i dislivelli della città sino ad arrivare alle sue vette più alte dove, non a caso, si situano le maestose ville dell’alta borghesia. Qui, in una maestosa casa di design minimal e di gusto europeo vive la famiglia Park: un padre dal fare tradizionalmente occidentale del sofisticato uomo di affari e di mondo, prodotto della società del capitale; una donna giovane e bella, un poco ingenua e relegata alla vita domestica, signora e prigioniera delle lussuose mura che la definiscono, deprivandola di qualsiasi altra dimensione identitaria soggettiva che possa andare oltre a ciò che deriva dallo status symbol che la caratterizza e dal suo preservamento ad ogni costo, in preda alla psicosi del parere altrui in un universo dell’apparire; due figli, una ragazza semplice, con qualche problema di apprendimento rispetto alle lingue straniere, ma con una vita tipica di qualsiasi altra adolescente del cosiddetto primo mondo (inteso in tal caso non tanto con accezione geografica, quanto come prodotto geopolitico ed economico rispetto al dominio del capitale finanziario), e un bambino iperattivo, con qualche problema di controllo e, nonostante la giovane età, un recente passato che diverrà elemento congiunturale per lo svolgersi della trama. Viviamo così la classica contrapposizione tra un mondo di sopra e un mondo di sotto, la cui distanza viene scenicamente enfatizzata da lontananza e verticalità che separano le due abitazioni ma anche le due condizioni sociali antitetiche: infinito e impervio sembra il percorso per giungere ai piani alti e sognanti della città e della classe sociale. Quando per i Kim si presenta l’occasione di risalire da un inferno sottoproletario per osservare e sfiorare da vicino quanto accade nell’Olimpo dell’aristocrazia, la trama prende una piega avvincente: il regista ci mostra attraverso le macchinazioni prima di Ki-Woo e poi di tutta la famiglia, un’inaspettata intelligenza machiavellica. Che sia abilità strategica, acume, o prodotto di estenuamento e sindrome di sopravvivenza, i poveri riescono dunque a insidiarsi nel mondo dei ricchi. Come? Escogitando stratagemmi per sostituire la servitù dei Park, coloro cui la famiglia aveva delegato il disbrigo di tutte quelle faccende che esulano dall’archetipo del perfetto stile di vita altolocato. Quindi i figli Kim si troveranno a fare lezioni private, la madre diverrà cameriera e il padre autista. Già in questa prima fase del film si nota chiaramente la dirompente dose di cinismo che colora il tutto, surclassando anche l’aspetto più nobile e accattivante della capacità strategico-parassitaria dei Kim. Tuttavia ancora viene naturale nutrire un sentimento solidale nei confronti di un povero sottoproletariato che riesce a ingannare il mondo di sopra e a infiltrarvisi. Ma ciò non toglie che per avviare questa scalata la famiglia non solo frega i ricchi Park, ma si dimostra non curante sotto più punti divista: anzitutto causeranno il licenziamento di altrettanti lavoratori, in secondo luogo, anche se può apparire meno importante, la stessa amicizia viene calpestata quando Kim-woo si innamora della ragazza che l’amico partito all’estero avrebbe voluto sposare una volta tornato a Seul. Eppure l’idea di inserirsi in un contesto del genere, non solo economicamente e lavorativamente, ma anche stabilendo forti legami emotivi, costituisce un’attrattiva troppo forte e conferisce un diverso senso di sicurezza rispetto alla posizione acquisita. È un ingranaggio parassitario che sembra dare i suoi frutti: conta solo il nucleo familiare ed esso si attacca a tutto per succhiare nuova linfa vitale per sé. Lotta di classe? Lotta interclasse? In vero è probabile che in Parasite non emerga niente di tutto ciò, nonostante l’evidenza delle distinzioni di condizione sociale e il disagio di cui erano foriere. Se inizialmente domina un certo senso di soddisfazione da revanche anti borghese, d’improvviso giungerà la vecchia governante a scoprire il vaso di Pandora. Essa rivela la presenza di un bunker dove per oltre quattro anni (e all’insaputa dei Park) suo marito Geun-se vive nascosto come un topo, costretto all’oblio forzato dalle pressioni di alcuni creditori. Cosa segue questo colpo di scena? Una lotta tra poveri. Ed ecco che si annulla la dimensione di classe del conflitto, ricordata solo dalle miserevoli condizioni che materialmente la fanno sussistere e reiterarsi nel tempo, ma tutto è cambiato e questa lettura dà il senso di ciò che il contemporaneo è per il postmoderno sottoproletariato, e Bong-Joon ho lo ha colto e saputo rappresentare. Nessuna solidarietà tra poveri, nessun odio manifesto nei confronti dei ricchi, verso cui piuttosto Geun-se nutre uno psicotico culto reverenziale: l’importante è sopravvivere e in una dimensione estesa al coinvolgimento esclusivo dei componenti familiare; l’importante è e resta solo l’individuo nel suo più piccolo microcosmo. Il proletariato ha smarrito la propria coscienza di classe, inghiottita dalla violenza del neoliberalismo iperindividualista e dall’ambizione arrivista tipica della concorrenzialità capitalistica. Una visione di mercato della vita, che non lascia spazio ad altro che a un machiavellismo che pur rimanendo indice di grande arguzia, viene assorbito all’interno di un gioco di immagini, rivolto a una autorappresentazione di sé cui si ambisce: si inseguono in ogni modo possibile stile di vita e costumi dei ricchi, piuttosto che cooperare per rivalersi su chi sta sopra. La scoperta della stanza segreta è il preludio al dispiegarsi della violenza inter-proletaria: prende atto una lotta intestina tra morti di fame che tentano di annientarsi reciprocamente con ogni mezzo e a ogni costo. È una corsa contro tempo e destino, un tentativo di rivalsa che se dapprima appare possibile, porterà a una fine tragica che viene anticipata da una scena che conduce verso l’ultimo atto e che con quasi sarcastico disincanto sembra voler ricordare la rigidità della divisione classista in una società del capitale che mentre si proclama ricca, libera e soprattutto socialmente mobile, ancora ogni attore al ruolo che riveste, perché il povero serve e non meno del ricco: quando i Kim, sotto una pioggia torrenziale compiono una lunga corsa in discesa, inabissandosi nuovamente nel loro personale inferno domestico, trovano il seminterrato completamente allagato e i loro pochi averi galleggiano in un mare di melma putrida. Proprio in quel momento, Ki-jung sale sulla tazza del wc e accende una sigaretta, quasi a simboleggiare l’accettazione, la rassegnazione compiuta rispetto a una condizione invalicabile, che non lascia spazio ad alcun desiderio di avanzamento sociale, inghiottito tra i flutti delle fogne. L’atto finale conferma tutto questo senza nessun affrancante riemergere di qualche solidarietà di spirito di classe: una lotta di tutti contro tutti, che ha l’odore del sangue, e di un ravanello vecchio o di uno straccio bollito, quello stesso aroma che si sente spesso nella metropolitana, il puzzo della working class, che si insinua tra le crepe di un muro di fittizia accettazione e di una facciata di immagine, spessa quanto confini invalicabili: I Park non sono ricchi, ma gentili; sono gentili perché sono ricchi.