di Chiara Buratti

ASTI. L’ansia da attrice teatrale non so se l’avete mai provata. È una voce. Una vocina gracchiante che ti soffoca l’orecchio. Ti parla in continuazione, ti fa nascere almeno sette o otto dubbi in contemporanea, ti ripete che in fondo gli altri attori sono più bravi di te, più felici di te, mangiano più sano di te, ricordano tutte le battute a memoria, fanno meglio l’amore e hanno molti più contatti di te, perché in qualsiasi ambiente di lavoro ti trovi, sono i contatti che contano. Nel frattempo questa vocina si diverte a rallentarti la digestione, accelerare i battiti del cuore e farti uscire sulle guance pustole infiammate la mattina in cui credi di avere il provino della vita (che poi capita almeno due/tre volte al mese). L’ansia da attrice teatrale ti prende sia quando non hai lavoro, che quando ne hai troppo. La odi, ma non riesci a farne a meno perché sei talmente abituata alla sua compagnia, che ti sentiresti spogliata, defraudata di una parte di te, se scomparisse. Ebbene sì. Io sono un’attrice ansiosa. Non sono una persona ansiosa. Divento ansiosa solo quando si tratta del mio lavoro. Perché è una scommessa giornaliera, un gioco bellissimo dove spesso non vinci, un mondo dove l’arte e la poesia camminano in parallelo a mille dinamiche diverse e poco artistiche.

Nonostante questo, non potrei fare a meno della polvere e del profumo di quelle assi di legno che possono a volte farmi inciampare, ma che non tradiscono mai. Sono lì che ti aspettano ogni sera, come la prima volta. Nove marzo: Asti, la terra in cui vivo da quattordici anni, diventa zona rossa. È una delle prime zone rosse d’Italia. Saltano i due debutti di marzo. Quelli a cui io e la mia quasi amica ansia (c’era stato un riavvicinamento) ci preparavamo da mesi. È tutto fermo. Paralizzato. Sono frastornata. Tante negazioni: non fare, non toccare, non abbracciare. L’unica certezza è un’altra negazione: non uscire. Dobbiamo stare in casa. Per quanto tempo? Non si sa. Non lo sa nessuno. Nemmeno gli scienziati, nemmeno chi governa. Ossignore. Come Fabrizio De André che diceva Senza che gli altri ne sappiano niente, dimmi senza un programma, dimmi come ci si sente. Vado a dormire. Mi alzo tardi. Resto in attesa. Stessa cosa la sera dopo. Poi domani. Domani. E domani. Che la vita non sia davvero un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si agita sul palcoscenico per il tempo a lui assegnato, e poi nulla più s’ode? Le parole di William Shakespeare mi tormentano. Poi mi capita tra le mani un libro che racconta di una corrispondenza talmente affascinante tra il poeta Khalil Gibran e la donna che amava e che viveva lontano da lui, una certa Mary, che ho trovato in poche pagine, tutto il suo mondo interiore. Che in parte era anche il mio. Durante tutti questi giorni di attesa non ho fatto altro che mettere in ordine la casa. Sto riordinando i mobili, ma insieme, sto ripulendo le cose antiche del mio cuore e dei miei pensieri, liberandoli da vecchie ombre che non devono esserci più. Forse l’allontanamento che siamo costretti ad accettare durante questi giorni è stato benefico: le cose molto grandi si possono vedere solo a distanza. […] Il silenzio è doloroso. Ma è nel silenzio che le cose prendono forma. Ci sono momenti nelle nostre vite in cui l’unica cosa che dobbiamo fare è attendere. In ciascuno di noi, nel più profondo del nostro essere, c’è una forza che vede e sente quello che non possiamo ancora percepire. Tutto ciò che siamo oggi è nato dal silenzio di ieri. Sto in silenzio da un po’. Respiro. E comincio a starci bene in questo silenzio. La tregua dal mondo. La finestra aperta in salone. I sensi di colpa che se ne vanno. Tondelli e Pessoa sul comodino. Il pensiero del cosa mi sto perdendo là fuori che non c’è più. Respiro. E sorrido. Di gusto. Mangiando una brioche con marmellata di albicocche. Che adesso digerisco benissimo.

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