di Alessandro Giovannelli
PISTOIA. I mesi che abbiamo alle spalle sono stati di solitudine profonda. Li abbiamo vissuti chiusi nelle nostre case, lontano dagli altri, dai luoghi nei quali ciascuno era solito trascorrere le proprie serate in cerca di varie forme di nutrimento. Il nutrimento, innanzitutto, dell'anima. Privi, per mesi, di quei momenti di interazione, quasi rituale, che la musica dal vivo incarna. Sabato sera, nella bellissima cornice di Piazza della Sapienza, con la scenografia monumentale del loggiato della Biblioteca Forteguerriana alle loro spalle, Lorenzo Del Pero e Maurizio Geri non hanno rappresentato soltanto una sorta di ripartenza. Il loro è stato, per certi versi, un ben tornati, o un ben ritrovati, rivolto ad amici e conoscenti, o anche soltanto a chi aveva da saziare la propria fame di musica. Un ideale abbraccio, in un tempo ancora caratterizzato dal distanziamento sociale, a rompere definitivamente il giogo della solitudine. Maurizio e Lorenzo non sono stati soltanto i cerimonieri di questo rito. Nei mesi della surreale sospensione che tutti abbiamo vissuto, loro hanno scritto musica. Per noi, sicuramente; forse anche per loro stessi. Sarebbe già stata una risposta formidabile al senso di vuoto che ha pervaso il mondo in quei giorni, sia quello fisico, il luogo nel quale viviamo, che quello interiore di chi affrontava con sgomento una condizione che – diciamocelo, a distanza di alcune settimane dalla conclusione del lockdown – nascondeva più insidie che opportunità.
Non si sono limitati a dar vita a nuove canzoni, hanno fatto di più: hanno avuto la forza di osservare, ciascuno dal proprio punto di vista, quanto stava accadendo al mondo. E ne hanno parlato. Anzi, lo hanno cantato. Ci hanno detto che forse non stava andando proprio tutto bene. Ci hanno raccontato la solitudine, ci hanno raccontato di un uomo incapace di capire l'uomo; ci hanno detto che dovevamo delle scuse – e quante ancora ne dovremo! - a madre natura; ma anche che i muri e i confini, divenuti allora almeno apparentemente invalicabili, non avrebbero impedito di riconoscere che esiste una unità che si può toccare, vedere – ascoltare, soprattutto - che si manifesta nelle differenti tinte che possono rendere bellissimo il mondo là fuori; nella ricchezza delle sfumature, nei tanti dialetti, ad esempio, che sono un patrimonio inestimabile di cultura popolare. Tutto questo, e molto altro, sono state – e continueranno ad essere - Vola il corvo di Lorenzo Del Pero (insieme a Marco Olivotto) e Lettere dall'Italia di Maurizio Geri (con 21 altri artisti da tutto il Paese). Ma torniamo a sabato. Alla Festa della Musica di un'estate innaturalmente silenziosa. Di amori e d'ombre, recitava il titolo della serata, quella centrale di una tre giorni che ha popolato di note vari luoghi della nostra città, sotto la supervisione di Blues’In. Era la prima volta, insieme sullo stesso palco, per Maurizio Geri e Lorenzo Del Pero. Due musicisti molto differenti, ma che parlano la stessa lingua. Non solo per quel che dicevo sopra, ma anche perché le loro sono voci che sanno raccontare. A creare il definitivo senso di amalgama ci ha pensato poi una band di grande valore, perfetta nel tenere vivo il filo rosso della narrazione, con Michele Marini al clarinetto e sax, Riccardo Landi ad hammond e fisarmonica, Nicola Vernuccio al contrabbasso e Alessandro Pieri alla batteria. I fiati in particolare hanno saputo mirabilmente viaggiare tra le suggestioni degli universi musicali di Lorenzo e Maurizio, contribuendo in maniera incisiva alla costruzione di una continuità non solo formale tra i due repertori. Lorenzo ci ha accompagnati attraverso il suo ultimo disco, Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio. Un percorso doloroso, ma di una bellezza straordinaria, che parla di cicatrici, di carne, del rapporto con Dio; che parla di fragilità: quella dell’uomo al cospetto di se stesso e nel confronto intimo col prossimo; di innocenza, di sofferenze che riconducono all’essenza, della natura menzognera del potere. Ogni potere. Ci ha regalato, come un inaspettato intermezzo tra i brani di sua scrittura, un gioiello davvero prezioso: una versione personalissima, di enorme impatto emotivo, del Bob Dylan di It’s All Over Now, Baby Blue. Maurizio ha cantato delle perle del nostro Appennino, della via del ghiaccio, ma anche di un Gigi Pipa da Maresca qualunque – o forse nient'affatto qualunque; ci ha parlato della figura del clown bianco, che cantò a suo tempo insieme a Gianmaria Testa, e attraverso citazioni di Dalla e Roversi, ci ha condotti fino alla chiusura limerick, su ritmi afro-beat. Una menzione a parte la merita Sancho, un ritratto poetico della figura di Sancho Panza, i cui versi conclusivi resta l'idea d'un cavaliere errante che ci liberi un giorno dai soprusi, insieme a Sancho, insieme al ronzinante, a difendere la schiera degli esclusi, dialogano con grande potenza con l’immagine di signori del potere, delegati a governare, che ingrassano con i sogni di chi sogna di mangiare salvifica della pioggia che laverà via le colpe, come recita il singolo tratto dal disco di Lorenzo, Verrà la pioggia. Da qui si riparte. Dalla poesia che dialoga con la musica; dall’intesa tra due anime affini e il loro pubblico; da quell’alchimia che scaturisce dalla musica perfetta nel momento giusto. Di questo, più di ogni altra cosa, avevamo e abbiamo bisogno.