di Letizia Lupino
SESTO FIORENTINO (FI). Allucinazione: a) stato morboso in cui ciò che è pura immaginazione viene percepito come realtà; b) errore di valutazione, abbaglio. L'indecisione è palese, gli occhi passano dall'una all'altra frase come un incontro di tennis senza esclusione di colpi. Poi, la pallina cade, come lo sguardo, esattamente al centro, nel vuoto. Ciò che è chiaro è che le due frasi non possono vivere l'una senza l'altra, così com'è chiaro che quello che è andato in scena al Teatro della Limonaia a Sesto Fiorentino sia stata una lucente, limpida, perfetta allucinazione. Uno stato morboso che Dimitri Milopulos è riuscito a farci arrivare con sottile ferocia. Una stagione all'inferno appunto; un tempo che senza orologio e senza coprifuoco non avrebbe avuto confini. Un tendone da circo, il palcoscenico della vita, un velo che cade e che mostra l'uomo, la battaglia, la caduta rovinosa di un angelo. Il colpo è stato forte, i detriti sparsi sul proscenio lo mostrano. Le ali perse, le ferite, il sangue; già così sarebbe un'eloquente fotografia della catastrofe che avremmo vissuto. Arthur Rimbaud parla (nel 1873, 150 anni dopo) attraverso Dimitri Milopulos, usa il suo corpo e la sua tensione per mostrarci lo smarrimento e l'abbaglio, ma allo stesso tempo, la volontà effimera di redimersi, rialzarsi.
Quel braccio teso verso l'alto che chiede di nuovo di (ri)appartenere; lo sguardo supplichevole della durata di un battito di ciglia e poi una consapevolezza che trapassa da parte a parte; l'atmosfera creata, le luci che come una magica essenza sottolineano la crisi esistenziale dell'uomo, quasi lo doppiano: Amedeo Borelli (responsabile tecnico) sa. È una discesa negli inferi del nostro tempo, turbamento magistralmente orchestrato. Uno scontro aperto e l'ineluttabilità del destino da seguire, perché, in fin dei conti, non esiste libertà senza sofferenza, non esiste libertà senza salvezza.