di Federico Di Pietro
ROMA. Succede che un uomo e una donna si vedono, si conoscono e si piacciono. Forse si innamorano, forse solo lui ama lei o solo lei ama lui. O forse si vogliono bene e basta. Insomma, non lo sappiamo. Si può capire, si può intuire. Forse il sentimento è reciproco, forse no. Succede che lei è sedotta, coinvolta, circondata. Succede che lei è appena andata sotto scacco. Game over. Gioco finito. Lei è sotto assedio e i rinforzi non sono in vista, non arriveranno. Lui è entrato in gioco fin dalla prima battuta, dalla prima espressione. Forse si capisce già che piega prenderà il loro rapporto. Tre aggettivi: morboso, aggressivo, tossico. Per lui. Tre aggettivi: sola, ingenua, fiduciosa. Per lei. E infine, i dialoghi, le parole, che sono la Polvere. Lui contro di lei, lui sopra di lei, lui addosso a lei. In realtà non sono dialoghi, ma un lento, costante, incessante interrogatorio. Chi hai avuto prima di me? Raccontami nuovamente del fatto, dicevi, stavi fumando alle 3 di notte da sola e un ragazzo ti ha trascinata nel vicolo … continua per favore. Ci sei stata insieme a I.D? Perché non mi hai raccontato di I.D? Pensavi mi incazzassi? Tanto lo sapevo, sei inaffidabile. Le parole sono polvere, piccoli granelli che si accumulano, scena dopo scena, domanda dopo domanda, dubbio dopo dubbio. Lei inizialmente li lascia depositare sopra la loro relazione. Il peso è relativo. Ma i granelli, le richieste, le insinuazioni, aumentano minuto dopo minuto. I granelli iniziano a essere più pesanti del loro rapporto.
Lei però è già sommersa. Granello, dopo granello, deserto su deserto. I luoghi: una casa e, una strada, la scena iniziale, un preludio alla fine. La fotografia: un lento declinare di colori. Possiamo affermare che la fotografia segue letteralmente i dialoghi, che diventano sempre più angoscianti, tormentati. I colori passano da quelli reali a un bianco e nero che caratterizza almeno gli ultimi dieci minuti del lungometraggio. Polvere è questo. Trovo difficile discutere del primo lavoro del giovane regista Antonio Romagnoli. Uscito dalla sala del Nuovo Cinema Aquila, a Roma, mi sono sforzato di capire più a fondo cosa avessi visto. Tecnicamente è un insieme di episodi, piccoli, quotidiani, caratterizzati tutti da un estremo livello di violenza. Non è una violenza fisica, anche se questo passaggio verrà raggiunto in due diversi punti precisi del film, ma una violenza più sottile, che si incancrenisce più facilmente. La violenza psicologica che lui (Saverio La Ruina) applica sapientemente a lei (Roberta Mattei) è sottile, ma visibile, concreta. Lui le costruisce una gabbia fatta di espressioni quotidiane, riprendendola se non lo chiama amore, chiamandola spasmodicamente in tutte le fasce orarie della giornata. La sua, di lui, è un’insicurezza persistente che si schianta e violenta psicologicamente chi gli sta accanto, ovvero lei. C’è, in realtà, un momento di crasi nel film. E coincide con un ticchettio nervoso e patologicamente costante delle dita di lui su un tavolo di vetro. Lui le sta chiedendo il perché avesse spostato una sedia; lei, ovviamente, non ricorda. La scena è specificatamente paradossale in quanto tutta la violenza verbale di lui, che si fonde a un’apparente gentilezza accomodante, si basa su una sedia spostata. Soluzione: una sedia spostata oggi, significa un uomo tradito domani. Logicità perversa. Un altro elemento è di fondamentale importanza: l’instabilità psicologica del protagonista. Il suo comportamento, ossessivo, non è naturale, ma indotto. O meglio, è causa e allo stesso tempo conseguenza di un disturbo psicologico. Un disturbo psicologico che ha anche natura culturale, quella che proietta l’uomo come carattere dominante della società e quindi anche nella coppia. Questi comportamenti non sono causati da gelosia o paura. Gelosia e paura, presenti in qualsiasi relazione, qualsiasi, sono mitigati dalla fiducia nella persona che si ha accanto. Gelosia e paura sono sentimenti spontanei, naturali, controllabili. In Polvere, il protagonista, lui, studia la sua vittima, lei, la controlla, la ghermisce in ogni discorso, la fa sentire in colpa se indossa un abito arancione perché, secondo l’uomo, evidenzia un desiderio della donna di mettersi in mostra. E quindi di sostituirlo. Forse, più profondamente, una delle cause del disturbo del protagonista è la paura di rimanere solo. Di perdere la sua creatura. Di perderne il controllo. In Polvere, Romagnoli costruisce una gabbia anche attorno al telespettatore, che si ritrova gettato all’interno di una serie di dinamiche relazionali sempre più tese, ossessive, come se fosse al centro di una ragnatela. Saverio La Ruina interpreta con estrema capacità un uomo malato e pericoloso. Attenzione, la pericolosità, è data dall’estrema attualità del lungometraggio. La nostra società è continuamente attentata dalla violenza di genere. Not all men, è vero, ma, casualmente, nella maggioranza dei casi è l’uomo che aggredisce. Roberta Mattei invece, che in alcuni primi piani intensi ricorda Shelley Duvall in Shining, costruisce la sua performance sulle risposte che il suo aguzzino le formula, spesso più volte. Anche qui si stabilisce il rapporto gerarchico tra chi offende (lui che continuamente esige risposte) e chi subisce (lei che risponde che sempre maggiore difficoltà). La sua figura ricorda quella di un pugile incassatore, circondato, colpito, forse pronto a reagire. Forse no. Dense sono le risposte che la Mattei dà nella chiamata che conclude il lungometraggio, densi i suoi silenzi e anche le sue lacrime. I granelli di polvere sono diventati tempesta.