di Simona Priami

ALL’ARTE si deve la vita una frase incisiva che la protagonista di questo originale e femminile lungometraggio, ripete spesso. Si tratta di un lavoro diviso in poetiche sequenze dai titoli enigmatici, ma profondi, capaci di ritmare una trama che si sviluppa soprattutto attraverso le immagini, lo spettatore si immerge nel fantastico mondo onirico di questa toccante storia dalle sfumature fiabesche. Siamo in estate in un quartiere asettico e poco frequentato. Una madre (Alba Rohrwacher), mimo e artista di strada, vive con la figlia (Maayane Conti) e il cane Marcel. Per quest’ultimo la mamma ha un amore eccessivo, un rapporto quasi idilliaco, l’attrice viene inquadrata in primo piano mentre accudisce al cucciolo come se fosse un neonato; la figlia invece viene totalmente trascurata, ne soffre, cerca di attirare le attenzioni su di sé, anche suonando il sassofono, ma inutilmente. Una madre totalmente anaffetiva verso la bambina, una donna centrata su di sé e sul suo lavoro, sofferente, spesso triste, depressa, che esegue rituali magici, in cerca di arcani misteri, rivelazioni profonde, risposte che nessuno le ha mai dato. In casa sembra sia la piccola ad occuparsi di tutto, ma anche lei stessa assume a volte aspetti quasi demoniaci, una Coraline che non sorride mai, raramente esterna le sue sofferenze, non riesce a entrare in sintonia, né ad avere un dialogo con i coetanei; eccede solo in un gesto ribelle, violento, estremo e vendicativo che cambierà il corso delle vicende. Madre e figlia partiranno verso il festival degli artisti di strada.

La mamma porta con sé solo una valigia dal contenuto - poi si capirà - inquietante e grottesco, inizialmente non voleva neanche essere accompagnata dalla bambina; durante il percorso si fermano, a notte fonda, nella casa della infida cugina, il viandante arriva alla locanda, la locanda brucia. Qui infatti trovano un ambiente allucinatorio e ostile. La protagonista continua a mutare aspetto; da mimo truccato, mascherato e colorato, qui diventa la strega con pendolo, fino a un finale simbolico verso il mare dove, con le ceneri in mano del cane, si immerge nelle onde, quasi fosse una sirena; nel cielo volano i colorati aquiloni, forse messaggio di una possibile speranza di riscatto e serenità. Un lavoro accurato che è anche un’immersione in una realtà simbolica e gioco di immagini, la regista eccelle negli interni chiusi con luci basse e semioscurità che si alternano ad esterni, come il quartiere simmetrico e senza nome. Come senza nome sono tutti i personaggi, escluso il cane Marcel, che viene però più volte nominato; gli attori diventano così quasi fantasmi, presenze, ricordi che arrivano dall’inconscio o marionette del teatro della vita. La regista mette in mostra e comunica attraverso il corpo flessibile di Alba Rohrwacher, magrissima e quasi plastica, attrice che conferma le sue grandi capacità anche con questa recitazione fisica. Ogni tanto ci sono dei forti cambi di stile come il deserto luna park, triste e felliniano, oppure i balli di gruppo degli anziani; scene che interrompono un flusso narrativo delicato e silenzioso, mostrando aspetti grotteschi e ironici. Tra gli altri personaggi, la nonna (Giovanna Ralli) che vive circondata da oggetti vintage, nei ricordi di un passato sicuramente più vivace e il nonno (Umberto Orsini) che recita con lo sguardo. Sicuramente non è un film d’azione, i dialoghi sono pochi e non articolati, lento il ritmo narrativo, gli attori si prendono tutto il loro tempo; è un film dove tutto ha un secondo significato, l’oggetto nasconde un messaggio, gli stessi cinghiali citati a casa della cugina rappresentano il caos nella mitologia indiana e da un magmatico e profondo caos sembra generata questa storia fiabesca.  Un modo di comunicare che ricorda il mondo del maestro Federico Fellini, ma anche Marcel Marceau, il grande mimo, da lui il titolo e il nome del cane; inoltre Charlie Chaplin e Abbas Kiarostami. La regista riesce comunque a interiorizzare la lezione dei grandi e dare al suo primo lavoro un taglio personale e originale.

Pin It