di Simona Priami

INIZIA IN media res questa delicata storia. È già tutto successo o sta succedendo. Quell’equilibrio, quella perfetta sintonia con la terra, costante da generazioni, si sta frantumando. Alcarràs è un paesino della Catalogna dove, nella lentezza e ritualità, vivono i Solé, una famiglia unita e patriarcale, persone semplici e felici; i loro gesti sembrano lontani, i loro sguardi sembrano ignorare il presente globalizzato e tecnologico; il lavoro dei campi e il loro frutteto determinano i tempi e i ritmi della loro esistenza; il rapporto con la terra rappresenta perciò la loro vita: abbandonarlo sarebbe morire. Un universo arcaico, un villaggio statico, atemporale, lontano dalla nostra realtà, un mondo autosufficiente che sembra non aver bisogno di nulla. La famiglia non si risparmia in giornate allegre e spensierate, pranzi e scherzi nella rudimentale piscina, come in ore dedicate ai lavori domestici, forse inutili e comunque agli antipodi rispetto alla frenesia dei tempi moderni. Il rapporto intenso con la natura si percepisce in modo particolare nei bambini, spensierati che vivono e giocano con oggetti rudimentali o elementi del paesaggio, si tratta comunque di un panismo a cui partecipano tutti. I Solé sono una famiglia patriarcale, sicuramente, ma le donne sono attive, brillanti, vivaci, partecipano al lavoro, sicuramente non sono succubi, né sottomesse.

Lo spettatore così riesce dolcemente a entrare in questo mondo agreste, a sentirne i ritmi. Si tratta sicuramente di un film originale, perché in un cinema dominato dagli effetti speciali, qui si intravede solo un video di una TV. Per il resto spadroneggiano campi soleggiati, filari, pèsche, il lavoro descritto con estrema attenzione. Forti, espressive e realistiche le immagini esterne, belle le colline inquadrate dall’alto, brulle e assolate, originale la scena della bambina che esegue rituali per il coniglio morto; di grande spessore anche le riprese interne, in casa mentre i bambini giocano, la nonna taglia i capelli al nonno, altri discutono. Il frutteto e le terre non sono in realtà di proprietà dei Solé, ma sono stati lasciati loro in usufrutto dalla ricca famiglia Pinyol per ricambiare un gesto eroico durante la guerra civile. Non esiste perciò nessun documento che attesti questo gesto; il passaggio di proprietà, per la precisione l’usufrutto, era stato suggellato da una stretta di mano. Prima si faceva così. L’equilibrio si rompe quando la famiglia proprietaria decide di vendere il terreno; servirà per le energie rinnovabili. Per la precisione verranno installati pannelli solari, esteticamente brutti, ma utili per il progresso sostenibile. Verrà proposto ai Solé di lavorare ai pannelli solari, si lavora meno e si guadagna di più, ma il padre si rifiuta: sono un agricoltore, risponde, alterato. Nella realistica scena dei vecchi che giocano a carte nel bar di altri tempi, partita a cui partecipa il nonno dei Solé e il proprietario delle terre, durante il gesto quotidiano e sicuramente non spettacolare, si viene a sapere che le terre sono state vendute a delle persone, quelle stanno comprando tutto, si dice in giro, e la speranza sembra perduta, lo dice il silenzio che cala, la non risposta. Lavorano nelle terre anche i lavoratori clandestini a giornata, il problema è accennato e fa da sfondo alle vicende dei Solé che dominano la scena per tutta la durata. Un film che è quasi documentario, uno scontro tra tradizione e modernità; una storia narrata con lentezza, schiettezza, eleganza, dolcezza e delicatezza, molti spunti autobiografici della regista; per la maggior parte gli attori non sono professionisti, così da rendere ancor più viva la realtà descritta, tecnica direttamente esportata dal neorealismo; molti i primi piani, dai volti rugosi dei vecchi, agli occhi dei bambini. Un film per addetti ai lavori, una testimonianza ben descritta, un’immersione in un mondo che, nonostante tutti i suoi sforzi, sta scomparendo, verrà sconfitto, inglobato nella modernità.

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