di Tindaro Granata (e Cirano Testai)
MILANO. Semmai foste lettori occasionali e vi foste imbattuti in questo articolo grazie all’incomprensibile logica di un algoritmo virtuale, vi chiedo la gentilezza di leggere le parole che seguono, non per piacer mio che sono uno dei tanti attori disgraziati e dimenticati dai più (eh sì, molti credono che la Cultura, qualora fosse cultura quella che producono i teatranti, non sia un bene di prima necessità e quindi noi teatranti: dimenticabili), ma per amor tuo, che immagino essere una persona che si nutre di storie, lettura, emozioni e ragionamenti. Col mio lavoro di attore e drammaturgo nel corso degli anni ho incontrato tante persone che porto nel mio cuore, e anche se sembra impossibile che ci riesca, li ricordo uno per uno; ognuno di loro è la testimonianza di una vita. È una vita piena di tante vite. All’inizio di questa quarantena scrissi, come di mia consuetudine, la lettera mensile ai miei amici/amanti del Teatro (li chiamo così, un po’ perché sono amici veri, un po’ perché mi piace avere amanti) e Cirano Testai, un toscanaccio di nascita e di cuore, mi rispose così:
Carissimo Tindaro,
Grazie per la tua mail, con i ricordi di un po' del nostro grande cinema e del nostro grande teatro, i tuoi pensieri e le tue emozioni.
Questi giorni, con i lutti, la sofferenza, le restrizioni, mi hanno riportato alla memoria un'esperienza del 1944, quando avevo otto anni e mezzo. Con parte della mia famiglia (mia madre, due sorelle e due fratelli tutti maggiori di me) ero sfollato ad Agnano Pisano, in una casa messa a disposizione dalla mia nonna materna; un giorno, mentre mi trovavo nella latteria del paesino, è iniziato il bombardamento perché tra gli ulivi sotto al paese c'era un accampamento di truppe tedesche. Non ricordo quanto è durato; a me sembrava un'eternità. All'uscita dalla latteria la prima cosa che ho visto è stato un SS steso per terra con il cranio aperto da una grossa scheggia: era quello che fino al giorno prima si divertiva a sbalordire noi bambini infilandosi uno spillone sormontato da un teschio nella guancia sinistra, e poi lo faceva dondolare con la lingua. Sono corso verso la nostra casa, che era in una piccola coorte in piazza della chiesa, ma c'era solo la chiesa. La mia famiglia era fuggita più in alto sul monte; mi sono avviato per cercarli e ho incrociato un uomo che portava in braccio la figlia morta. Più tardi ho incontrato i miei e ci siamo incamminati ancora più in alto per allontanarci dal campo militare. Quella sera abbiamo strappato delle frasche dai castagni e abbiamo preparato un riparo per la notte; prima di andare a dormire mia madre ha diviso per noi cinque il pezzetto di pane che aveva con sé e ha preso un po' d'acqua dal canale che passava vicino. Lei non aveva fame. Per i successivi quarantacinque giorni, fino alla metà di un ottobre che non conosceva ancora i guai combinati dal riscaldamento terrestre, ci siamo rifugiati, insieme ad altre quaranta persone, in una grotta naturale stretta e lunga dove d'estate si mettevano a rinfrescare i cocomeri, e non abbiamo più visto un pezzo di pane: il piatto principale era la crusca fino ad allora destinata agli ex animali da cortile, impastata con acqua e cotta sopra un pezzo di lamiera; più rari i preziosi fagioli, cotti con acqua appena bastante a fuoco lento, nell'unica pentola d'alluminio che era volata fuori dalla finestra durante il bombardamento, insieme a tre coperchi che fungevano da piatti. In questo caso avevamo una regola: essendo in sei, i primi tre mangiavano i fagioli, senza olio né sale, e passavano i piatti agli altri tre che avevano il diritto, dopo mangiato, di leccarli. Al pasto successivo il turno veniva invertito così che il denso, prezioso liquido di cottura fosse equamente distribuito. Vicino al canale c'era un orticello abbandonato con due misere piante di pomodoro, divorati non appena il verde intenso manifestò l'intenzione di passare al rosa. Ricordo il grande piacere nel mangiare qualche frutto che mio fratello Renzo, che aveva cinque anni più di me, era riuscito a procurarsi rischiando la vita per le mitragliate dei tedeschi contro i gruppetti che strisciavano nelle fosse per raggiungere i frutteti. Dove li hai trovati? Nei campi. Ma li hai comprati? chiedevo. No, li ho presi. Allora li hai rubati! No, li ho presi. Ricordo il timore e la speranza quando, qualche giorno dopo che furono cessati i colpi di cannone che portarono via il braccio sinistro a mio zio Altidoro, vidi la prima jeep con tre soldati afroamericani che saliva in perlustrazione; la Quinta Armata si era finalmente decisa ad attraversare l’Arno.
Eccomi nuovamente, caro/a amico/a, sono nuovamente io, il teatrante.
Il mio cuore ha continuato a battere fortemente a ogni frase e a ogni ricordo, e quando Cirano scrive della madre: Lei non aveva fame, né io e né il mio cuore abbiamo avuto modo di sfuggire ai lucciconi. Leggendo le parole di Cirano è ritornato a trovarmi il mio amato nonno e i suoi racconti. All’inizio della quarantena ho pensato spesso alle sue parole, a quelle storie che mi raccontava quando ero bambino e anche da adulto (i racconti erano rimasti bambini, non erano cresciuti) e il suo ricordo mi ha aiutato ad avere un po’ di conforto perché ho pensato che quello che avrei passato non sarebbe stato difficile come lo era stato per mio nonno e per tutti quelli del suo tempo; e questo è vero, come, però, è anche vero che non siamo più le persone di quel tempo, l’abbiamo cambiato il mondo e con lui noi stessi. Non so se siamo peggiori o migliori, sicuramente abbiamo dimenticato l’educazione all’ ascolto, al passaggio di esperienza che avveniva, naturalmente, durante una cena o una passeggiata, abbiamo perso l'abitudine di dedicarci ai nostri vecchi che si raccontavano per insegnarci a vivere e noi attenti ad ascoltare come imparare a sbagliare nel migliore dei modi. Scusa amico/a sono uno di quelli che fanno spesso varie associazioni a ogni racconto che ascolto e chissà cosa accadde a Cirano dopo l’arrivo della Quinta Armata.
Tornammo a Pisa, mi ammalai di tifo e quando dal letto sentivo il rumore di un colpo, sobbalzavo terrorizzato; era qualcuno che spostava il grosso coperchio di marmo con manico di ottone che avevamo nella toilette: aveva un sedile di marmo con il buco e il tappo provocava il rimbombo. Ho pisciato a letto fin verso i vent'anni. Dopo, è rinato tutto, o quasi. Nella mia città c'erano sette teatri, e ora ce n'è uno solo. Ma ogni giorno di sole è un inno alla vita. La solidarietà mi commuove. Ogni tanto vado all'assalto dei mulini a vento. Mi rattristano l'ignoranza, la volgarità, l'arroganza, ma poi penso che il mondo cammina lentamente, con le scarpe degli uomini. Spero di vivere abbastanza da veder crescere i miei due nipoti e rivedere qualche tuo spettacolo: quello che ho visto alla Normale ancora mi fa respirare. Lunga vita e buona salute, per te e le persone che ami. Cirano
Buona salute a te e buona vita a te, caro amico/amante Cirano. I tuoi nipoti saranno fieri del loro nonno, sono sicuro che ti porteranno per sempre nei loro cuori, e forse un giorno racconteranno con gioioso sorriso del loro nonno, perché loro sono parte di te come tu sei parte di loro e a chi li ascolterà auguro di avere il privilegio che ho avuto io: di sentirsi un tuo nipote speciale. Buona vita a te, mia/o cara/o che ti sei fermata/o a leggerci, sicuramente ti porterai nel cuore la storia di Cirano; porta anche, se puoi, il pensiero che noi teatranti abbiamo bisogno di gente come te, gente che ama la vita. Attualmente il nostro Ministero non ci tutela, non ci ascolta. Ci siamo uniti in un grande gruppo che si chiama Attrici e Attori Uniti e in altri gruppi di varie categorie del mondo dello spettacolo per cercare di avere il diritto di esistere.
Cara/o amica/o se sei arrivata/o a leggere fin qui ti ringrazio di cuore e col cuore ti chiedo di lottare con noi affinché questo Governo e questo Ministro della Cultura di nome Franceschini ti tratti da persona che ha il diritto di pensare e di scegliere la propria vita anche attraverso l'arte, non solo come un consumatore, privo di intelletto (come già sta facendo)! Grazie.