di Marta De Sandre
SAN VITO DI CADORE (BL). Nove ottobre: data scolpita nella memoria di tutti noi. Cinquantotto anni fa, una frana di enormi proporzioni precipitò nella diga del Vajont. L’azione scellerata di chi decise di costruire un’infrastruttura di questo tipo a valle di un monte chiamato Toc (che il dialetto significa pezzo, non esattamente il nome che si darebbe a una montagna granitica) provocò duemila vittime. Il 9 ottobre 2021 un’altra frana, di modeste dimensioni, ha cambiato il profilo del monte Marcora privandolo di una delle sue guglie. Nulla di eccezionale dal punto di vista geologico se non fosse che, con la complicità di una magnifica giornata autunnale, tale distacco ha provocato una nuvola che si è depositata sull’intero paese imbiancando tutto di dolomia polverizzata, come la rappresentazione teatrale del disastro di Pompei. Attendendo che la polvere si diradi, tutti gli occhi restano fissi sulla montagna, cercando il punto esatto del distacco, cercando di valutare che danni possa aver provocato, sperando che non sia il preludio di un distacco più imponente. Le Dolomiti sono fragili: le guglie, le fessure, le pareti frastagliate che rendono le foto dei turisti così belle sono il risultato di tante frane.
Queste montagne hanno duecentocinquanta milioni di anni: custodiscono orme di dinosauri, fossili di organismi marini a perenne memoria di quando erano barriera corallina, trasformata in catena montuosa da una collisione tra placche tettoniche. L’azione dell’uomo non può nulla, né nel bene, né nel male. L’effetto serra provoca modificazioni climatiche che possono accelerare il processo di distruzione delle montagne di qualche centinaio di anni che corrispondono al tempo montagna di un mezzo sbadiglio. Le infrastrutture da milioni di euro che costruiamo per proteggerci dalle frane possono venire distrutte in pochi secondi. L’uomo è del tutto ininfluente, un semplice microrganismo, piccola insignificante parte di una creazione superba. Le Dolomiti sono destinate a trasformarsi in polvere, ma sopravvivranno a tutti noi, probabilmente anche all’esistenza dell’uomo su questo pianeta. Le donne e gli uomini di montagna segnano le vette con delle croci che hanno perso, se mai l’hanno avuto, ogni significato religioso. Sono simboli di rispetto per la montagna, dove la presenza dell’uomo si fa discreta, sono la memoria delle tante vite spezzate tra quelle rocce, sono piccoli oggetti scaramantici che non si sa mai. Nessun se ma solo quando il prossimo crollo, quale tra queste montagne deciderà di perdere qualche pezzo e, con il nostro perenne fatalismo, sappiamo che non ci è nemmeno dato sperare che risparmi delle vite umane. Nel frattempo continuiamo a guardare incantati lo spettro di colori che la dolomia assume al tramonto, la silhouette di queste montagne sul cielo scuro: guglia più, guglia meno.