ERI COSI’, quando t’ho conosciuto, trent’anni fa, poco più, poco meno, al Camarillo, a Prato, dove si suonava e beveva molto, per fortuna. Sembravi un vecchio con il suo mare. E invece eri più giovane di me. Ma il mare, dentro, ce l’avevi eccome, altrimenti, quella voce antica, come la tua chitarra e la tua musica, da dove ti sarebbero potute uscire fuori? Ora che te ne sei andato, chissàddove, stanotte, io e tutti gli altri, che sono tanti, e lo sai, Leo Boni, bluesman, ma non solo, ti teniamo così, stretto stretto ai nostri ricordi, ai nostri sogni, alle nostre illusioni. Perché la musica a questo serve: sognare, ricordare, illudere. E tu, Leo, riuscivi perfettamente a incarnare e incarnarti nella figura del traghettatore di anime, con i capelli che ti coprivano puntualmente gli occhi, mai l’anima. Era da poco uscito il tuo terzo album da solita, The ring: l’anello. Perché qui dentro, nonostante la pandemia avesse inibito parte della tua energia (senza live non sapevi stare), avevi voluto mettere dentro tutto quello che ti apparteneva: il Blues, prima di ogni altra cosa, ma anche il jazz e perché no, lo swing, con i quali avevi imparato a convivere con la stessa disincantata irriverente energia, con la medesima ironica e onirica distruzione di luoghi comuni, non solo musicali. Mi fermo qui, Leo e scusami, ma il resto sarebbe pieno di date, posti, musicisti, collaborazioni e soprattutto retorica e a te, se non ricordo male, le cerimonie davano parecchio fastidio: questo pezzo avrebbe dovuto invece scriverlo uno di quelli con i quali hai diviso e condiviso una miriade di volte il palco, per farci rivivere, seppur con il filtro del racconto, l'alcolica adrenalina di notti infinite. Non certo io, che ho solo avuto la fortuna di ascoltarti, guardarti e applaudirti. L’autopsia ci dirà di cosa te ne sei andato, e già ci manchi, ma la musica ci ha anche già detto, e non certo oggi, che resterai con noi. Vero?