PISTOIA. Credevo valesse la pena tornare a vederlo, Museo Pasolini. Alla prima, al Teatro Puccini, a Firenze, rimasi così impressionato, che ho ritenuto opportuno bissarne la visione (e la recensione), seppur in un’altra atmosfera, non solo longitudinale. Alla prima era inverno pieno; il teatro fiorentino era esaurito in ogni ordine di posti. Tra gli spettatori, oltre agli affezionati storici di Ascanio Celestini, artista stratosferico, militante indefesso, tanti miei colleghi e parecchie autorità politiche; di sinistra, naturalmente, quelle che con Pier Paolo Pasolini dovrebbero farci i conti una vita intera. Dovrebbero. Ieri sera, a Pistoia, alla Fortezza Santa Barbara, ancora caldo, non più torrido, ma piacevole. La metà delle seggioline blu disposte dall’Atp restano vuote; solo un paio di giornalisti e nessuno, tra politici e amministratori sconfitti (e siamo solo all’inizio: questa sinistra ne deve prendere ancora tante, di legnate, che nemmeno se lo sogna), di quelli che dovrebbero esserci. Non è cambiato nulla, dalla scenografia, minimale, scarsamente funzionale (del resto, il cantastorie Celestini, di scenografie non ha mai avuto bisogno), alla poetica potenza del testo. Lui, è decisamente più rilassato, anche se, dopo un mare di repliche, visibilmente stanco. Appena inizia a snocciolare nomi, cognomi, soprannomi, casati, giorni, mesi, anni, Frazioni, Comuni, Province, Regioni, indispensabili per la connotazione e la contestualizzazione del pensiero del Genio incomprensibile nato proprio nell’anno zero dell’Era Fascista, per poi continuare a portarci con lui, dalla finestra della sua abitazione a scorgere la fermata del 109, fino alla salita del Quadraro, le baracche del Mandrione, quelle della Pineta di Cinecittà, la stazione Termini, l’idroscalo di Ostia e quell’omicidio, facilmente e clinicamente derubricabile e derubricato a una meschina storiaccia di sesso perverso tra maniaci, malati, depravati e poveracci, illustre come le stragi prima e varie esecuzioni dopo, mi tornano alla mente e nello stomaco le stesse identiche sensazioni della prima e allora mi rilasso parecchio anch’io, intuendo, prima ancora di vedere il resto della lunghissima maratona teatrale solitaria e direttissima (proprio come piaceva a Walter Bonatti), che quello che avevo scorto, digerito magnificato e poi scritto dopo Firenze, erano esattamente le cose che l’Artista aveva voglia di lasciare in dono a spettatori e critici. E a me.