GLI OCCHI ti si illuminavano oramai raramente e succedeva sempre e soltanto quando qualcuno, incontrandoti a spasso, ricordava di quella volta che, a pochi minuti dalla fine della partita, su punizione dal limite dell’area, piazzasti, con il tuo mancino delicato, chirurgicamente, la palla in fondo al sacco, togliendo la ragnatela dall’incrocio dei pali. I ricordi del calcio erano la pace della tua memoria, era la quiete che domava e addomesticava il tuo dolore, sordo e muto, erano l’unica cosa, della tua vita, di cui ne andavi fiero. Perché da quando la fortuna e le sue possibilità decisero di voltarti le spalle, Gianluca, sul rettangolo non sei più riuscito a entrare, di partite non ne hai più giocate. Qualcuno ha anche provato a chiamarti ancora, a convocarti, ma non ti allenavi più, da tempo, avevi perso la velocità con la quale stordivi gli avversari e poi, anche volendo, non avresti potuto giocare, perché non avevi più con te gli scarpini. Spero davvero che, chissà dove ti metteranno a trascorrere l’eternità, la gente continui a sorriderti e a ricordarti le tue gesta calcistiche e che le banconote che ti sei disegnato in casa siano ufficialmente coniate e abbiano il loro giusto valore, quello che ti consentirà di comprarti, finalmente, la felicità.