IL PUNTO interrogativo non vuol essere blasfemo. È solo quello che mi succede quando assisto a onoranze funebri di persone che non sarebbero dovute morire. Così. Così presto. Mi è successo con mia madre, mio padre, mio cugino Antonio ed è successo anche oggi pomeriggio, quando nella chiesa di Capostrada, a Pistoia, ho assistito, in disparte, alla messa d’addio a Gianluca, morto improvvisamente una decina di giorni fa per cause che l’esame autoptico dichiarerà ufficialmente tra qualche mese. Non sono voluto mancare all’ultimo saluto al caro Gianluca non certo per provare a mettere in discussione il mio laicismo, ma solo e soltanto in onore della fraterna amicizia che mi lega a uno dei suoi fratelli, Tony, seduto sui banchi della prima fila con quel che rimane del resto della famiglia. Gianluca lo conoscevo così, come lo conoscevano in tanti, da quando i demoni si erano impadroniti del suo mondo nel quale è riuscito a vivere e convivere solo grazie al torpore di sostanze farmaceutiche che gli sono state distillate quotidianamente da quando aveva deciso di non voler più stare ufficialmente alle regole. Non ho fatto caso alle solite litanie eucaristiche della messa, ma mi sono concentrato sul Vangelo; avrei scommesso, in onore dell’invisibilità di Gianluca, che il prete che ha officiato la celebrazione, scegliesse, per l’occasione, il Vangelo secondo Matteo, quello della Parabola dei lavoratori della vigna. Non è stato così, ma non cambia nulla. Tutti quelli che l’hanno conosciuto, non solo quelli che oggi non sono voluti mancare al suo addio, lo ricorderanno così, fantastico mancino sui campi di calcio in gioventù e poi paggio surreale, infaticabile passeggiatore, con tascate di banconote disegnate sui fogli di carta e firmate dal governatore Pittelli sempre a caccia, discreta, sorniona, divertente, enigmatica e mai, mai invadente, di due euro con i quali totalizzarne dieci. Per tutta la famiglia ha parlato una nipote, con la voce rotta dall’emozione, dal pianto, da ricordi struggenti e aneddoti divertenti e da una pacata tristezza, quella che non abbandonerà nessuno di quelli che l’hanno conosciuto ogni volta che ci tornerà alla mente. Sulla bara, insieme a tanti fiori, anche una maglia da calcio, con il suo nome scritto sulle spalle e il numero 11; era un mancino imperdonabile, è vero, ma gli piaceva stare a centrocampo, da dove osservava tutto il campo, per capire da quale parte sarebbe stato utile provare a infilzare le difese degli avversari. Per Gianluca e per tutti quelli che se ne sono andati in punta dei piedi, togliendo quasi il diturbo, mi auguro davvero che gli ultimi, altrove, siano i primi.

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