L’unica cosa che ci accomuna sono i lacrimogeni fumanti presi con precauzione tra le mani munite di guanti e rilanciati alle forze dell’ordine. Lo abbiamo fatto in stagioni diverse, probabilmente, ma dalla stessa parte della barricata e il gesto, i rischi e la disillusione sono gli stessi. Sono sempre stato un irrequieto, un chiacchierone, un caciarone; sono cresciuto a Roma: mio padre non è dovuto partire per gli Stati Uniti per inseguire e realizzare un sogno; mia madre lo ha aspettato e visto arrivare tutti i giorni, a pranzo e mia sorella non è stata facile, men che mai fortunata. E poi, il nome della ragazzina che mi ha battezzato al desiderio, all’amore, quella del primo bacio, seppur di puro avesse ben poco e mani men che mai vellutate, non l’ho e non potrei mai dimenticarlo. Ma I pesci non chiudono gli occhi (Feltrinelli) è uno di quei libri che ti restano appiccicati sulla pelle e nonostante con Erri De Luca, l’autore, i punti di contatto si fermino alla soglia del minimo sindacale, ho avuto la sensazione, netta, di esserne il protagonista.

Perché non ci si può non sentire impelagati fino al collo, leggendolo, come del resto succede puntualmente quando ci si imbatte nei libri di Erri De Luca: un napoletano che adora il silenzio, un montanaro che non può fare a meno delle proprie radici partenopee e inorgoglirsene, a cominciare da alcune espressioni dialettali, che rendono perfettamente il senso delle cose, delle azioni, degli stati d’animo. I pesci non chiudono gli occhi sono il ricordo, meticoloso, del compimento dei dieci anni dell’autore; a Napoli, prima media (un anno avanti), con matematica da riparare a settembre. L’estate al mare, a leggere all’ombra dell’ombrellone e a nuotare, meglio e più veloce di chiunque altro tra i suoi coetanei, anche dei tre mocciosi che gli renderanno l’estate impossibile, solo e soltanto perché la ragazzina meravigliosa dello stabilimento ha attenzioni solo per lui, lui che non è ancora un ometto e non fa nulla per provare a diventarlo. È la ragazzina che gli insegna il linguaggio degli animali, ma che non sa che i pesci, gli occhi, non li chiudono mai, nemmeno quando si baciano. Una poesia scandita lungo i bassi e il porto di Napoli, irrobustita dalle sentenze dell’autore, che le snocciola con una frequenza imbarazzante, praticamente ad ogni proposizione. È un ermetico prolisso, Erri De Luca, uno che si tiene a distanza di sicurezza, se non lontano, dalle verità assolute, ma che poi ne incalza a iosa con prolifica generosità e disarmante leggerezza, facendole scivolare lungo il racconto, che tiene sospeso chiunque ci si imbatta, non solo quelli che hanno la fortuna o la disgrazia di stare sulla sua stessa riva o dallo stesso versante. La regole del mare, della pesca, con Erri De Luca somigliano maledettamente quelle che dettano i tempi della vita ad alta quota, così come la legge della convivenza e della sopravvivenza; trapela, continuamente, un senso di giustizia superiore, regolata, prima o poi, dagli accadimenti, dalle vicissitudini, un laicismo osservato con scrupolo religioso. Sono passati cinquant’anni (il libro è del 2011) dall’incontro con la ragazzina; Erri De Luca non crede di averla mia più incontrata. La stanza tra le barche fu schiarita dalla luna salita sulla prua di fronte. Ci staccammo, le labbra intorpidite. La via verso le case fu alla cieca, perdendola affiancati. A un bivio ci separammo, sciogliendoci le mani senza necessità di altro saluto. Eva e lo sposo suo, usciti dal giardino, avevano già avuto tutto il bene del mondo. La vita aggiunta dopo, lontano da quel posto, è stata una divagazione.

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