NON È FACILISSIMO conservare l’obiettività. Nel bene e nel male. Quando sento il nome di Erri De Luca penso, immediatamente, per associazione di idee, al mare e alla sua profondità; alle montagne e alla loro inaccessibilità. Il contrario di uno (Feltrinelli) però, a mio presuntuoso avviso, sta un gradino sotto altre sue pubblicazioni. Un po’ troppo politicizzato; smarrisce qualche lembo di poesia, nei racconti brevi che compongono il libro, rispolverando l’acredine, spesso tragicomico, degli anni gloriosi, quelli subito successivi allo spartiacque generazionale: il 1968. Dei diciannove racconti, ai poderosi e indispensabili livelli che mi ha meravigliosamente abituato l'autore, ce ne sono solo un paio. Ma sarà capitato anche a voi - quando il termine scaricare significava, ad esempio, liberare il bagagliaio della macchina dalla spesa - comprare un Lp solo per poterne gustare un brano. Non so se l’esempio renda l’idea, ma Il contrario di uno è da acquistare non foss’altro per avere, sempre a portata di mano, in casa, la poesia che precede i racconti, l’ode di prefazione.

Mamm’Emilia.

In te sono stato albume, uovo, pesce,

le ere sconfinate della terra

ho attraversato nella tua placenta,

fuori di te sono contato a giorni.

In te sono passato da cellula a scheletro

un milione di volte mi sono ingrandito,

fuori di te l’accrescimento è stato immensamente meno.

Sono sgusciato dalla tua pienezza

senza lasciarti vuota perché il vuoto

l’ho portato con me.

Sono venuto nudo, mi hai coperto

così ho imparato nudità e pudore

il latte e la sua assenza.

Mi hai messo in bocca tutte le parole

a cucchiaini, tranne una: mamma.

Quella l’inventa il figlio sbattendo le due labbra

quella l’insegna il figlio.

Da te ho preso le voci del mio luogo,

le canzoni, le ingiurie, gli scongiuri,

da te ho ascoltato il primo libro

dietro la febbre della scarlattina.

Ti ho dato aiuto a vomitare, a friggere le pizze,

a scrivere una lettera, ad accendere un fuoco,

a finire le parole crociate, ti ho versato il vino

e ho macchiato la tavola,

non ti ho messo un nipote sulle gambe

non ti ho fatto bussare a una prigione

non ancora,

da te ho imparato il lutto e l’ora di finirlo,

a tuo padre somiglio, a tuo fratello,

non sono stato figlio.

Da te ho preso gli occhi chiari

non il loro peso

a te ho nascosta tutto.

Ho promesso di bruciare il tuo corpo

di non darlo alla terra. Ti darò al fuoco

fratello del vulcano che ci orientava il sonno.

Ti spargerò nell’aria dopo l’acquazzone

all’ora dell’arcobaleno

che ti faceva spalancare gli occhi.

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