di Sura Bizzarri
NEL REPARTO di medicina dell’ospedale c’era una calma idilliaca. La luce filtrava dalle grosse vetrate come un miracolo, un miracolo di vita, ogni giorno. Gli infermieri non avevano fretta di spostare i degenti, li voltavano con calma, assecondavano pazientemente i loro movimenti stanchi, antichi. Su tutto regnava quella luce onnipotente, la luce che varcava i secoli, che trapassava le tende leggere senza irritare quelle fessure sottili tra le pieghe della pelle che erano gli occhi dei pazienti. Nel reparto, fra lenzuola, asciugamani, detergenti, traverse, vecchi occhiali, dentiere e bastoni viveva un angelo, ignorato da chiunque, libero come la luce del sole. Era un angelo buono, un angelo giovane, ancora sincero, puro, oscuro alle gelosie, alle cattiverie, al rancore, alle bruttezze della vita. L’angelo non poteva fare a meno di vedere in ognuno di quei volti sdentati, ossuti, di quelle teste canute, di quei corpi consunti e provati un bimbo cresciuto. Innegabilmente ognuno di quei corpi consumati dalla vita doveva esser stato un bimbo e l’angelo sentiva di doverli proteggere, così come avrebbe fatto la loro madre, se solo fosse stata vicina. Ogni sera, dopo che tutti erano andati a letto, l’angelo passava camera per camera a soffiare la vita dentro le bocche semiaperte dei pazienti quasi addormentati.
L’angelo infondeva in quei corpi corrosi il suo alito di vita, allontanando l’ultimo respiro, scongiurando la morte. Durante il giorno vegliava sulle loro attività trascinate piano attraverso il pomeriggio, sui loro passi incerti guidati da braccia sane, sicure. L’angelo, chissà perché, si era trovato in quel posto e lì viveva con gioia il suo mestiere di aiutare, di aiutare a sopravvivere a tutto, persino alla tristezza, persino alla malattia, persino all’età. Un giorno si soffermò incuriosito nella sala delle attività. Uomini e donne dai volti inespressivi mescolavano le carte, riempivano di colori tremanti vecchie tavole predipinte, lavoravano a calza, giocavano a scacchi e a tombola. Con una punta di stupore, l’angelo colse il movimento di una signora un po’ appannata che allungava il bastone sul pavimento all’arrivo di una collega di malattia quasi cieca che, a tastoni, cercava di raggiungere una sedia vicina. Lo scopo di tale congettura era evidente; la signora cercava goffamente di far cadere la compagna. Quella sera l’angelo passò oltre la camera della paziente infingarda, senza soffermarvisi, senza farle dono di quell’alito miracoloso, di quell’alito di vita. E il giorno successivo quella camera era vuota, il letto rifatto con lenzuola pulite e tutti i mobili svuotati e disinfettati. In un momento pigro del tramonto l’angelo, passeggiando nel cortile, vide un vecchio con mani tremanti, ma decise, che stringevano un lombrico grassoccio fra le dita fino a farne poltiglia, fino a infradiciare la maglia fresca di bucato. L’angelo aggrottò le sopracciglia, si avvicinò ancora per scorgere i denti, pardon, la dentiera digrignata in una smorfia feroce. Naturalmente, la sera stessa l’angelo non ebbe dubbi quando, percorrendo il corridoio, intravide una luce flebile nella camera del vecchio. Passò oltre per entrare nella successiva. Nei giorni seguenti l’angelo si soffermò sempre più spesso sulla mimica facciale, sui piccoli gesti nascosti, su ogni discussione o semplice scambio verbale degli ospiti del reparto di medicina. Scoprì così un uomo che picchiettava continuamente la vicina per farla tacere. Scoprì una donna che ogni giorno, durante il pranzo, cogliendo i momenti di disattenzione del personale, piantava la forchetta lucente nella carne della mano di un disabile. Notò una donna che ne offendeva metodicamente un’altra, sibilandole nell’orecchio parole al veleno e, sbirciando dietro un divano appartato, notò la punta di un bastone che si conficcava nel piede molle e insensibile di una ragazza ormai vecchia, ormai quasi estranea alla vita. Ognuno di questi poveri individui assunse un significato diverso agli occhi dell’angelo, non gli apparvero più bimbi da proteggere, ma adulti cattivi, che non guardavano in faccia a nessuno, che non rispettavano la vita altrui, che mettevano sé stessi avanti a tutto. Ognuno di questi ospiti cessò di ricevere la visita serale dell’angelo, ognuno di questi ospiti pose fine alla sua malattia. Ma l’angelo non riusciva a fermarsi, ormai aveva aperto gli occhi, ormai aveva imparato a cogliere ogni gesto, ogni accenno che preludeva alla cattiveria. Passando attraverso la cucina intravide l’aiuto cuoco sputare con ferocia nel piatto di un uomo che solitamente non gradiva il menu. Dal ciglio della porta di una camera vide un’infermiera liberarsi con forza dalla stretta di una signora che temeva di cadere e affibbiarle un ceffone sonoro sulla guancia, tanto nessuno era nelle vicinanze. L’angelo, per la prima volta, si sentì spinto, quasi obbligato a lasciare il settore di medicina per seguire i dipendenti che aveva colto in fallo fino ai loro appartamenti e, nel cuore della notte, durante il sonno, rubare loro l’alito di vita, quello che probabilmente li avrebbe condotti alla vecchiaia, al reparto di medicina di qualche anonimo ospedale. La vita non può durare in eterno, l’angelo aveva solo individuato un metodo di valutazione per porre un limite alla vita. Aveva scatenato il giudizio universale. (disegno: MDM)