di Sura Bizzarri
MIA NONNA era nata in Ucraina, all’inizio del secolo scorso. Da sempre la sua famiglia si occupava di cibo; una cucina e una stanza abbastanza grande con tavoli, sedie e finestre grossolane di tende ricamate. Un orto ben coltivato suddiviso in solchi e quadri che delimitavano le diverse colture, galline e conigli. Cucinavano per la gente, per lo più per i lavoratori delle miniere; piatti poveri ricavati dai prodotti del loro appezzamento. Lei era ancora giovane quando scoppiò la guerra. E quando i tedeschi occuparono il suo ristorante obbligandola a cucinare per loro, lei e l’intera famiglia furono additati come collaborazionisti. Olga, con il giovane marito partito per la guerra, si addentrò nella foresta con la figlia fra le braccia per non fare più ritorno. Quante volte ho ascoltato la sua storia nella cucina nella quale lei si muoveva ancora sicura di sé, sebbene appesantita dall’età. E ogni volta saltava fuori un particolare in più a ricostruire un romanzo che mai era stato scritto. Le sue mani nodose accarezzavano la mia testa mentre con i grossi incisivi addentavo il pane imburrato che lei mi aveva preparato. Il sapore del pane mi pareva antico, come se le sue mani avessero impastato il grano proveniente dalle steppe ucraine. Ero piccola, la mia immaginazione si addentrava nei boschi muschiosi e freddi di cui lei mi parlava, gli occhi della mente percorrevano distese di betulle argentate per scorgere anfratti protetti nei quali la nonna e sua figlia avrebbero trascorso la notte. Era ancora bella, mia nonna, gli occhi chiari aperti come una piazza sul mare, il viso pallido senza rughe, i capelli raccolti in un ricordo di femminilità. Per un bimbo tutto è facile, la sua fiducia nelle parole degli adulti è completa e incondizionata. La fuga della nonna mi pareva un gioco fatto di belle passeggiate nei boschi e rifugi improvvisati sotto foglie morbide, sotto le stelle.
La nonna camminò tanto, fino a raggiungere la Polonia. E in quel periodo sospeso nel quale la sua esistenza si improvvisava giorno dopo giorno, lei incontrò un uomo. Tutti noi siamo naturalmente portati a vedere negli altri ciò che cerchiamo, ciò che abbiamo bisogno di trovare. Mia nonna sapeva vedere nella gente solo cose belle, le era difficile ed estraneo individuare i difetti, le brutture e gli eccessi. Per di più, nei timori di una vita nomade e inventata con una bimba piccola sempre legata al petto, lei aveva bisogno di trovare un appoggio, di condividere con qualcuno la sua diaspora. Nonna Olga vide in quell’uomo che conosceva appena l’uomo della sua vita. E a lui si appoggiò, senza mai pesare troppo, che questo aveva imparato dall’educazione ricevuta, con lui continuò il viaggio alla ricerca di una casa e di un lavoro. Insieme a lui sopportò il freddo delle notti trascorse in capanne, in rifugi di fortuna e fu lui che sposò in una chiesa di campagna ancora prima di giungere a Cracovia. I suoi bisogni erano tanti, la paura di non riuscire ad allevare la figlia la attanagliava. Non stette a farsi troppe domande quando in un sabato balenante di sole, fra le stoppie bruciate delle campagne, coi vestiti pesanti addosso e la bimba sempre stretta al petto in una fascia ormai logora e sdrucita, disse sì all’uomo che sarebbe diventato mio nonno. Una giovane coppia e una bimba arrivarono in città, fra le mani non avevano niente, neanche abiti per cambiarsi, ma erano disposti a fare qualsiasi cosa. Nonna cominciò a lavorare in un ristorante e nonno, carattere forte e irascibile, passò da un’occupazione all’altra prima di aprire con la moglie un piccolo ristorante subito fuori Cracovia. Acquistarono pagando in tante piccole rate un appezzamento di terreno con baracca annessa e lì aprirono il loro piccolo locale, misero, semplice, una cucina vecchia e logora che produceva ottimi piatti contadini, un locale chiaro e caldo dove mangiare era un piacere antico. Olga lavorava sodo; accudiva gli animali, aveva le mucche da mungere ogni mattina e ogni sera. Lei cucinava, puliva, lavava al fiume, raccoglieva le verdure e amministrava la sua azienda. Perché quel ristorante, alla fin fine, era solo suo. Sua ogni incombenza, ogni problema, sua la responsabilità di onorare le rate che scadevano ogni mese. Il nonno era l’uomo, il capo famiglia, il padrone di sua moglie e dei figli che continuava a farle partorire. Col tempo arrivarono ad averne otto; quelli più grandi facevano i genitori ai piccoli, mentre la nonna lavorava, scendeva al fiume e rincasava col fiatone, perché il pranzo doveva essere pronto, abbondante e ben servito, non un minuto di ritardo altrimenti il marito avrebbe preso la catena delle mucche e con questa le avrebbe sferzato le gambe, il busto, le braccia. Lei si rifugiava nella forza prepotente della sua vita, aiutata da un vigore fisico senza uguali. E mentre le sue braccia lavoravano senza sosta, la mente immaginava il futuro dei figli, a Cracovia, nella città della grande bellezza e il suo lavoro non era mai abbastanza per assicurare loro l’istruzione, abiti dignitosi e un amore carico di attenzioni per controbilanciare la grettezza del marito, la cui violenza si caricava dell’alcool trangugiato durante tutta la giornata. Il sorriso di lei mai era una maschera, ma l’immagine concreta dell’istinto innato di voler trasformare la realtà. I suoi gesti non erano violenti, il suo corpo morbido era lo scudo che proteggeva i figli, perché le botte c’erano anche per loro. Jude, il cane di mio nonno, era diventato il suo alleato, perché era Olga che riconosceva come capobranco e da lei si rifugiava quando la violenza degli scarponi del nonno si abbatteva sulle sue zampe indebolite e tremanti. I gesti di nonna non erano forzati e la dedizione in ogni gesto, anche i più semplici, quelli di ogni giorno, erano la prova della volontà di cambiare la vita dei figli. Senza abbassare mai la guardia. Ognuno ha il suo modo di reagire agli avvenimenti, ognuno ha una personale scala di valori e in nome di questi è disposto a lottare, fin quasi a soccombere. D’altronde la vita è un continuo esperimento, ogni fase superata preclude a quella successiva. I dolori più grandi di nonna Olga non erano le botte, ma la malinconia dei suoi figli, le umiliazioni che subivano per ogni nonnulla, l’insicurezza che li bloccava ogni volta che il babbo rientrava. I loro sguardi rivolti alla mamma erano richieste di aiuto e lei li guidava con gli occhi, con i sorrisi di approvazione o con l’invito a scappare, comunicato col linguaggio del corpo e dei segni. Ormai madre e figli erano organi di uno stesso corpo, correlati e collegati fino a formare una macchina di precisione, dotata di allarmi e segnali in codice. Così lei gestiva l’errore di aver sposato un uomo che non conosceva, di essersi aggrappata alla prima scialuppa ed esserne salita a bordo senza conoscere l’equipaggio, la direzione, la meta definitiva. Ma Olga non era una perdente e, soprattutto, era disposta a tutto perché i suoi figli non diventassero tali. Intanto la città cresceva e la prima figlia, ormai grande, lì si era trasferita non appena era riuscita a trovare un lavoro. Nonna stava invecchiando, ma ancora riusciva a gestire il suo locale, che senza quello la vita sarebbe stata esclusivamente di proprietà del marito. E il marito continuava a bere e a invecchiare a ritmo veloce. Il suo corpo si era screpolato, la pancia prominente di chi abusa dell’alcool, i denti sciupati, l’irascibilità sempre più livida contro un mondo nel quale non era mai riuscito a entrare veramente, troppo concentrato sulla rabbia contro la vita, dalla quale prendeva sempre più le distanze. Lei si era organizzata seguendo i ritmi dell’uomo che mai le era stato accanto; concentrava i momenti per i figli, per concedersi un attimo di tregua, per guardarsi intorno e riprendere fiato quando lui dormiva, nel primo pomeriggio e la sera presto, che la giornata di lui si concludeva subito dopo la cena. Certo, il calvario di convivere con un nemico era devastante ma, al contempo, le aveva insegnato il valore delle piccole cose, la gioia della normalità. Olga aveva imparato ad assaporare con un piacere speciale, di liberazione, i momenti che erano solo suoi. Ricordo quando il sabato mattina la nonna e io salivamo sull’autobus per andare in città. Lei era fiera di avermi al suo fianco, ben vestita, le trecce inframezzate da un nastro rosso; la nostra gita seguiva riti ben precisi, il cappuccino e una pasta rigonfia di crema sempre nella stessa drogheria e ogni volta, immancabilmente, andavamo nel negozio di scampoli. Pile di stoffe arrotolate su loro stesse e scale semovibili per raggiungere gli scaffali più alti. Quelle stoffe erano il suo vizio, la sua conquista, l’esplosione liberatoria di esprimere la sua creatività, di pensare e progettare un’attività completamente sua. Quel mondo incantato era diventato anche il mio. L’odore dei tessuti inamidati, i colori, le fantasie di ghirigori contorti ripetuti all’infinito, un territorio totalmente femminile e curato nei particolari. Quello era un mondo buono, non c’erano oggetti pericolosi, ferri, catene, lo sterco delle stalle e la fatica sempre dipinta sul volto sudato di nonna. Era un porto franco, un’isola di gentilezze femminili che non eravamo abituate a ricevere. Ci concedevamo quella gita, quel momento solo nostro prima di rientrare nel livore di quell’uomo che non parlava mai, che entrava pesantemente e con ruvidità cattiva usava gli oggetti, per poi lanciarli contro il muro, che intorbidava l’aria, la stessa che eravamo costretti a condividere. Fu in una tarda mattinata di festa, la nonna e io occupate con le nostre stoffe. Lei non si fermava mai, non riuscivo a convincerla a starsene seduta. Mi preoccupavo, la vedevo stanca. Avevo superato la fanciullezza e cominciavo ad aver paura della vita. Diverse persone che ruotavano intorno alla nostra famiglia erano morte. Alcune per vecchiaia, altre erano morte nonostante fossero ancora giovani, nonostante avessero figli da accudire, lavori da portare avanti, progetti appena iniziati. Il racconto della vita che scorreva nella mia testa aveva subìto un disguido, c’era una evidente anomalia, un cortocircuito che andava oltre la mia comprensione e creava un disagio che mai avevo avvertito, ancora più penetrante della violenza del nonno. Sentivo sempre più forte il bisogno di proteggere mia nonna, di regalarle quella spensieratezza che solo con me era tangibile, che le spianava le rughe sulla fronte. Odiavo mio nonno, finalmente avevo trovato il coraggio di ammetterlo dentro me stessa. E odiavo anche i suoi figli, quelli che come lui avevano cominciato a bere e ad assumere atteggiamenti violenti, scurrili, inconcepibili per una bimba in bilico fra la fanciullezza e l’adolescenza. Quei figli appartenevano solo a lui; mia nonna li aveva solo incubati ed espulsi. Non avevano con lei alcuna correlazione. Quel giorno stavo porgendo a nonna Olga le tende da appendere alla finestra. Lei era in bilico sulla scala, protesa verso i vetri, abbagliata dal sole estivo, dai suoi potenti raggi obliqui. Lui entrò con la violenza di sempre, aprendo la porta con un movimento esagerato, tutto era amplificato dalla sua incoerenza, dalla ferocia della sua infelicità, un tale comportamento non poteva esser dettato che da quello. Il suo odore, già in un attimo, aveva saturato la stanza. Il sentimento che provavo era un’intima nausea, l’incapacità di ribellarmi, di proteggere la persona che più amavo dalla smania cieca di un animale affamato. Entrambe eravamo sulle difensive, smettevamo di parlare, di sorridere; ogni nostra forma espressiva era da lui interpretata come un affronto. Nella sua mentalità estrema ed estremista eravamo di sua proprietà e solo lui poteva concederci la facoltà di parlare, di ridere, di dedicarci l’una all’altra. Non ricordo quale fu il motivo scatenante, quale nostro comportamento, sguardo di intesa, o semplicemente gesto di gentilezza dell’una verso l’altra a scatenare il suo livore. Già aveva bevuto, il nonno, nonostante il mattino fosse tutto da trascorrere. E già la sua mente contorta aveva individuato un nostro fallo, una nostra intenzione, il bagliore di un pensiero. Sorpassò con noncuranza il cane che era entrato prima di lui, poi il suo passo pesante andò pericolosamente verso la scala e un calcio prepotente troncò le assi inferiori facendola barcollare. La nonna cadde dall’alto, ancora non aveva fatto in tempo a posare la stoffa e scendere di qualche gradino. Rovinò sulle mezzane dure. Ricordo la mia rabbia, l’urlo che mi uscì dalla gola, il desiderio prepotente di scagliarmi contro di lui, di cancellarlo per sempre dalla nostra vita. Invece corsi da lei, ferma fra il tavolo e l’acquaio, incapace di muoversi e paralizzata dalla paura. La coprii col mio corpo, le baciai il viso e respirai il suo respiro concitato. Attendemmo in terra, ferme, in silenzio, finché lui non si chiuse in camera. Solo all’arrivo di mia madre riuscimmo a muovere la nonna e chiamare aiuto. Correndo fuori avrei voluto bruciare tutto, dimenticare quella casa che pure amavo, allontanarne mia nonna per sempre. Tirai dietro la porta, intimai Jude a rimanere dentro, di guardia davanti alla porta di camera dove il nonno riposava. Quello era il suo giaciglio abituale, serviva a lui per piantonare il nonno e a noi per essere avvisate della sua presenza. Ma sbattere la porta non era abbastanza, dovevo porre una barriera fra lui e noi, dovevo isolare il nonno, renderlo inoffensivo. Chiusi a chiave dall’esterno e puntai un palo sotto la maniglia. In casa quella settimana non ci sarebbe stato nessuno; i figli fuori per lavoro o a studiare. Nella mia mente stava nascendo un impulso che mai avevo conosciuto. La parte primordiale del cervello, quella più in ombra, si stava gonfiando di rabbia cattiva. La piccola Angelika si stava trasformando in un’eroina ribelle. La piccola Angelika avrebbe voluto ucciderlo, quel nonno che tanto dolore aveva portato nella sua vita. Perché lui aveva paralizzato ogni desiderio, ogni speranza, anche quella semplicissima di poter vivere una vita dignitosa. Corsi forte, per raggiungere mia madre e dentro martellava un solo pensiero, così prepotente da sembrare reale, la stessa immagine si parava davanti ai miei occhi a ogni battito del cuore. I piedi picchiavano forte sul terreno, il corpo risuonava di quell’onda pesante che dal suolo si ripercuoteva alle gambe e su, fino al petto, fino al cervello in fiamme. Avevo mal di gola, tanto il respiro era affannoso e sparato fuori e risucchiato dentro. L’aria sembrava non essere sufficiente e la distanza pareva non finire mai. E dentro la mia testa vedevo solo il volto paonazzo di mio nonno che scoppiava, colpito da un grosso bastone o dalla vanga che aveva nel tempo curvato la bella schiena dritta della nonna. Ogni respiro, un grido e la gola pulsava e si infiammava e gonfiava. Gli occhi colmi di lacrime quasi non vedevano più la strada e il naso colava fino sulle labbra, dentro la bocca socchiusa, sui vestiti scomposti dalla corsa convulsa. Caddi diverse volte, le mie ginocchia di bimba cresciuta erano piene di ghiaino che pizzicava sulla pelle scoperta, macinata dalla terra e aperta in diversi punti. Ero un piccolo mostro urlante che si barcamenava fra il desiderio di vendetta verso l’uomo che aveva condizionato la nostra esistenza e le preghiere perché la vita della nonna fosse risparmiata. Non appena atterrai nel cortile di casa, come un uccello caduto in volo, mia madre mi abbracciò e mi baciò forte sui capelli, cercava di calmarmi, ma le mie braccia quasi la picchiavano per svincolarsi da quella stretta e raggiungere l’ambulanza ancora ferma dove Olga taceva. Fu un’infermiera a sorridermi e dalla nebbia di una rabbia che somigliava alla pazzia, capii che la nonna non era in pericolo. Saltai sul mezzo ancora fermo e le strinsi la mano. E lei mi lesse dentro. Càpitano talvolta momenti di lucidità estrema nei quali la comunicazione fra due persone molto vicine è una realtà che non ha bisogno di parole. O almeno, non è necessario pronunciarle. Io e mia nonna in quella mattina di inizio estate ci dicemmo tutto in un attimo. Anni di sentimenti trattenuti, forse addirittura inconsapevoli erano diventati improvvisamente un disegno ben preciso. Quelli che seguirono furono giorni di riscatto, giorni nei quali io e lei, in silenzio, cominciammo a progettare una nuova esistenza, come se fosse possibile ripartire da una pagina bianca. I momenti straordinari sono sospesi e, in conseguenza di questo, forieri del nuovo che sta dopo di essi. Quante aspettative stavano dentro la nostra stretta di mano! Solo quel gesto ci sembrava capace di innescare il cambiamento verso la normalità. In fondo, solo a questa aspiravamo e forse era giunto il momento di provare ad assaporarla. Dalla nostra parte c’era l’ospedale, c’erano le forze dell’ordine e il racconto di tutto l’orrore che era stato, fino a quel momento. Ma c’era anche di più. C’era una intima consapevolezza che brillava nei miei occhi e in quelli di nonna Olga, ogni volta che si incontravano. Avevamo capito che la nostra forza, solo se sommata, aveva il potere di moltiplicarsi. Che l’intransigenza del nonno avrebbe dovuto scontrarsi con la nostra intransigenza, uguale se non superiore alla sua. E sentivamo qualcosa che non sapevamo esprimere. Ma che sicuramente era patrimonio di entrambe. Ci sono cose inspiegabili, ma tangibili, come i sassi lungo la strada, come la coda dei gatti, come l’esistenza delle montagne, delle distese di alberi, delle onde formidabili del mare che sbattono e deflagrano contro gli scogli. Il nodo che ci aveva trattenute dalla ribellione si stava sciogliendo. Quello che per tanto era stato taciuto, seppure patrimonio dell’intero villaggio, soffiato dalle donne al mercato, spiato attraverso le tende di casa, ascoltato attraverso le pareti, era venuto a galla in modo irrimediabile. E questo giocava a nostro favore. Al punto da farci dimenticare che il nonno era ancora chiuso in casa. Non avevamo sporto denuncia; il ricovero in ospedale che aveva reso pubblica la nostra situazione era già di per sé un deterrente, l’idea che le violenze subite circolassero ormai liberamente sulla bocca di tutti ci faceva sentire più forti e lui, sempre più debole, chiuso in casa e in sé stesso, solo e invecchiato prima del tempo. Ma qualcosa di superiore, alla stregua di un giudizio divino, della forza livellatrice della natura, era il sentimento che ci legava, che ci rendeva uniche in mezzo agli altri, perché partecipi dello stesso stato d’animo, della stessa certezza interiore. C’era uno stato di grazia particolare, fra me e lei, superiore a quello che da sempre ci aveva unite. E questa particolare condizione era visibile, perché ci illuminava, fortificava e saziava. Una serenità immotivata era scesa su di noi. E ci rendeva persino più belle. Avendo toccato il punto più basso delle nostre relative esistenze, davanti a noi si parava un deserto tutto da riempire. Senza aspettative particolari, se non quelle dei bisogni minimali. E la forza livellatrice della natura, quella che ogni giorno sentivamo sempre più tangibile, stava lavorando effettivamente per i fatti suoi ma, indirettamente, anche nel nostro interesse. È brutto da dirsi, è uno scempio dell’anima ammettere che il male altrui possa non solo restarci indifferente, ma addirittura gratificarci. Qualche giorno dopo l’incidente, la mamma andò a casa di nonna Olga. Doveva prendere alcuni suoi oggetti perché alle dimissioni ospedaliere lei era venuta ad abitare momentaneamente da noi. La porta era chiusa e dentro Jude mugolava tristemente. Un’onda forte di calore paralizzò la mano di mamma sulla maniglia. Il cane si agitava, guaiva, era rimasto prigioniero col nonno. E la porta non si apriva, qualcosa di pesante ostruiva dall’interno lo spazio sul pavimento. Mia madre era una donna intelligente e non nuova agli atti dissoluti del nonno. Pensò che lui potesse essersi ubriacato ed essere caduto davanti alla porta. Cominciò a chiamarlo: Babu babu. Ma il silenzio era riempito solo dalle unghie di Jude, che grattavano ferocemente la porta. Ci vollero tanta forza e un piede di porco a contrasto nella fessura che non voleva allargarsi. Ma già da essa si vedeva tanto sangue e l’occhio del nonno fermo, opaco, velato. Indubitabilmente un occhio senza vita. Ci vollero due uomini per scardinare l’infisso e spingere e liberare l’accesso. Ci volle tanta forza per poter passare e constatare che nonno era morto da tempo. E per capire che Jude, involontariamente, nel tentativo di liberarsi da quella prigione maleodorante aveva raspato, graffiato, scavato per giorni. Sul legno antico e resistente della porta e sul corpo che lì davanti stava disteso, grosso e pesante, ma non più forte e cattivo. Jude era una maschera di sangue e il nonno era un impasto macilento scavato dalle unghie del cane e dalla sua testarda violenta intransigenza. Fu con compostezza che mia madre aiutò gli uomini, lavò e ricompose il corpo di suo padre, ripulì Jude e calmò la sua paura. Lo portò a casa nostra ed evitando la retorica ci comunicò che il nonno era morto e la mattina successiva sarebbe andata in comune per i documenti necessari alla sepoltura. Nessuno pianse, solo la malinconia degli appuntamenti con la vita, e la morte. Nonna e io ci stringemmo e avvinghiammo ancora più tenacemente allo stato d’animo che ci aveva tenute vive, avviate verso un futuro che sarebbe stato diverso. Per tutti. Ci raccogliemmo in salotto, sul divanetto verde, il cane disteso sul tappeto tondeggiante a bearsi dei nostri sguardi senza paura. Non ci furono particolari circa la morte del nonno. Semplicemente, lui non esisteva più. Solo una volta diventata grande, mia madre mi raccontò la precisa dinamica dell’incidente. E anche allora, ingollai la notizia, senza una parola. Ognuna di esse, semmai le avessi pronunciate, sarebbe stata di troppo. Preferii stringermi a nonna Olga, alle sue dita nodose, ma ancora calde e buone e, mentre mi addormentavo, in quel momento in cui il presente comincia a svanire e a intrecciarsi con le immagini della mente, pronunciai poche parole: Oggi ho imparato a volare! Quella era la sensazione di leggerezza che provavo e che neanche la morte riusciva a incrinare. Da quel giorno nessuno ha mai più pensato di picchiare me, o la nonna, che la nostra forza e il coraggio che avevamo acquisito eran più solidi di una montagna. I suoi figli, gli uomini che ho incontrato, chiunque abbia provato rabbia nei miei confronti, mai si è permesso di alzare le mani su di me. Non glielo avrei permesso. Si legge nei miei occhi.