di Sura Bizzarri

MAMMA, davvero dobbiamo morire tutti? Io voglio che tu non muoia mai. A Compiobbi, fra il ‘300 e il ‘400, viveva una piccola comunità di frati. Al di là delle alte mura del convento, che custodivano la vita, le speranze e la morte di quei frati attraverso una cappella, alloggi sicuri e silenziosi, orti ben coltivati e un piccolo cimitero, c’era un albero carico di frutti. Notoriamente gli alberi fioriscono in primavera e fruttificano in estate, ma quello era un albero anomalo. Nel tardo autunno, quando le foglie ormai ingiallite cominciavano a cadere lasciando nudi e inermi i rami nodosi, quando attraverso le fessure delle mura si intravedevano le piccole celle che parevano grotte ricavate nella nebbia, proprio allora il colore dei suoi frutti raggiungeva l’apice d’intensità e spaccava il grigiore circostante. Era un paradosso, un gioco di contrasti che gli occhi di chiunque passasse non potevano ignorare. A quei tempi, Elia, non si scattavano foto, altrimenti resteresti meravigliato dall’immagine dei grossi rami di quel possente albero straordinariamente aperti e ornati di frutti succosi, belli da vedere e buoni da mangiare. Immagina, Elia, il grigiore di un convento medievale costruito coi sassi del fiume e l’esplosione creativa dei rami tesi, come braccia nude, a dispensare colore nel cortile di pietra. E i piccoli frati racchiusi in umili sai marroni, persi nei loro mille, centomila passi operosi. Quell’albero era l’immagine stessa del convento e in quanto tale veniva custodito e venerato al pari di un prezioso crocifisso. Intorno a questo si svolgeva la vita di quella comunità capace di autosostenersi col lavoro di raccolta e con la fabbricazione di medicamenti terapeutici.

Fu nel primo pomeriggio di una giornata estremamente limpida, nel momento in cui il sole tracciava una linea obliqua ben dritta a dividere nettamente la facciata del convento in due triangoli opposti, uno completamente abbagliato dalla luce, l’altro già in ombra. Fu in quell’ora che i passi di un uomo, certamente un sant’uomo, si fermarono davanti al cancello. Non ci fu bisogno di scuotere il campanaccio, già i frati avevano alzato la testa e, senza rumore, senza proferir parola, senza infrangere il silenzio che da sempre era loro imposto, si eran diretti verso la pesante briglia di ferro che li divideva dal mondo circostante. Gli occhi di quell’uomo erano chiari e sicuri, le labbra appena atteggiate a un sorriso austero. Si presentò come un frate maggiore che conosceva le proprietà di piante ed erbe e chiese alloggio, senza spiegazioni ulteriori. Aveva in mano una lettera scritta fitta fitta che portava una firma autorevole, sebbene non fosse chiaro chi l’avesse apposta. Ognuno di quei frati, così come ognuno di noi, eran prima di tutto persone. Sebbene rinchiusi nell’isolamento e nella preghiera, sebbene ignari di cosa potesse essere la vita al di fuori del loro micro mondo, ignari dei piaceri ai quali normalmente la gente aspira, ognuno di quei frati custodiva speranze, sogni, ambizioni, ma anche sentimenti ed emozioni semplici, quali la gioia di vivere, la curiosità, il bisogno tutto umano di conoscere e sperimentare. L’arrivo del sant’uomo fu un forte stimolo, per ognuno di loro. I loro occhi frugavano sovente fra le mani indaffarate di quell’uomo, spiavano ogni suo comportamento, il modo in cui mangiava, i suoi lenti passi negli orti, i suoi gesti pacati ma estremamente sicuri. E lentamente, molto lentamente, anche da parte sua sorse una sorta di interesse nei confronti dei fraticelli, che coinvolse nei suoi esperimenti su piante ed erbe varie. Ogni pomeriggio, dopo il lavoro e prima del vespro serale, l’uomo e i frati sostavano nel cortile, raccolti intorno al grande albero la cui fioritura sembrava non avere mai fine. Quello, forse, era il vero miracolo di quella terra toscana e su di esso si addensava l’interesse del sant’uomo. E durante i giorni di pioggia tutto si addensava fra gli alambicchi. Quella pioggia non era un semplice evento atmosferico; fra le gocce prepotenti che non riuscivano a distanziarsi l’una dall’altra, che picchiavano forte sulle superfici infrangendo il silenzio del convento, stava un messaggio che andava oltre il suono in sé. La pioggia, miracolosamente, bagnava il grande albero e portava in esso un messaggio nuovo, un codice che i frati non riuscivano a decifrare, ma che stava gonfiando un concetto, stava gonfiando la vita. Fra i corridoi austeri, battuti dal ticchettio che scandiva il tempo ben più di un orologio, che arrivava ovunque, nelle celle, nella cappella, sulle lapidi annerite e colorate dai muschi, stava un progetto. Quello stesso che si intravedeva negli occhi chiari del sant’uomo. Egli stesso era diventato una figura surreale, più che una persona. Lo studio spasmodico aveva preso tutto il suo tempo; egli spesso evitava di mangiare. E dormiva poco, era l’ultimo a ritirarsi nella cella e il primo a riprendere il lavoro. La sua sostanza stessa, quella di cui era composto, era incerta e misteriosa, agli occhi dei frati. Tanto che molti di loro lo consideravano un essere soprannaturale. Stava nei fatti, stava nella natura dei più audaci, il bisogno di avvicinarsi sempre più all’uomo dell’avvenire, a colui che aveva instillato il seme dell’avvenimento. Nei suoi occhi stava il futuro, quello che sarebbe dovuto accadere. E l’attesa vibrava in ogni intenzione, lo sforzo di portarsi avanti ed essere i primi a partecipare al grande evento creava malcelato entusiasmo e una sorta di nervosismo. L’attesa dei frati era come quella dei genitori che aspettano la nascita del figlio. Ma mai, non una volta, il silenzio del loro voto era stato infranto. Gli occhi febbrili, le mani bisognose di movimento, i passi veloci dall’orto agli alambicchi, da essi al grande albero, dalle celle al grande laboratorio sotterraneo, mai erano accompagnati da parole, da un qualsiasi suono pronunciato per sbaglio. Nel convento si era risvegliato il bisogno di vita, di partecipare, di essere autori del cambiamento che si intravedeva, qualunque esso fosse. E quando l’uomo distillò finalmente il suo liquido miracoloso furono in tanti, sempre i più audaci, a volerne assaggiare il sapore, a voler sperimentare su loro stessi il miracolo che faceva del sant’uomo un essere superiore. Come se il medicamento misterioso fosse capace di avvicinarli a Dio, essi, i fraticelli vivevano di un’estasi spirituale che li spingeva a sedersi a quella mensa del Signore che avrebbe svelato ogni loro dubbio, che avrebbe consegnato alle loro coscienze il segreto della vita eterna. Sempre con la testa bassa, senza proferir parola, con gli occhi incendiati da un’emozione che mai avevano conosciuto, si consegnavano al sant’uomo per poter sfamarsi del segreto di Dio. Come sposi che si congiungono per la prima volta alla loro donna, i più giovani avanzavano con desiderio quasi carnale. Per i più anziani il segreto che li attendeva era paragonabile alla possibilità di apprendere il senso di loro stessi, di poter arricchire i doni di cui il Signore aveva fatto loro dono e poter con essi affrontare i momenti del dubbio, quando la natura umana poneva loro bisogni che non erano capaci di addomesticare. Per le alte gerarchie del convento, coloro che avevano il compito di guidare il gregge e rendere l’opera del convento un valore per l’intera società civile, quella era l’occasione per accedere all’illuminazione che avrebbe reso immortale l’intera attività del convento. Pensa, Elia, quando non riesci a svolgere i tuoi compiti, quando resti indietro in una corsa e il tuo respiro non è sufficiente per arrivare al traguardo, quando un amico che credevi solidale ti deride davanti agli altri. Pensa come sarebbe impareggiabile possedere il segreto, l’alchimia, la formula che ti permetta di poter arrivare dove vuoi, di poter superare gli ostacoli, di arrivare a una vittoria che altrimenti ti sarebbe stata preclusa. Prova a trasporre queste tue sensazioni in un mondo oscuro, dominato dalla superstizione, da leggi incerte di cui non si conosce l’origine. Il mistero da sempre ha il fascino del proibito, dell’insuperabile, dell’irraggiungibile. Quella comunità stava percorrendo la strada dell’ignoto, guidata da una suggestione globale che era più forte di ogni conoscenza, di ogni legge o superstizione. Non c’era malvagità in quel comportamento collettivo, se non forse nella mira di qualche anziano. Si trattava piuttosto della spinta verso la vita che anima ognuno di noi. Così, nel bel mezzo dell’inverno, a Compiobbi scoppiò la primavera, quella che infuocava gli animi. I frati si sentivano forti, invincibili, immortali e il grande albero continuava a fiorire e produrre frutti, ininterrottamente, superando gli ostacoli metereologici e scavalcando i tempi biologici. Nel convento non esisteva più un momento per dormire. Ogni coscienza, ogni pensiero, ogni azione erano dedicati agli effetti del nuovo medicinale e alla preghiera. I corridoi erano pieni di vita silenziosa; nessuno era più capace di reggere l’entusiasmo, alimentato dalla straordinaria forza e vigore che il medicinale accelerava giorno dopo giorno. Il silenzio era un supplizio, in quel momento di particolare euforia. I frati quasi erano mortificati dall’impossibilità di rivolgersi l’uno all’altro, di non poter condividere con le parole lo strepitoso ringiovanimento che avveniva nei loro corpi. I desideri si accendevano, ma subito si lasciavano sfiorire da nuovi sentimenti e suggestioni dimenticate. Il processo di rinnovamento era così rapido da lasciare sbalorditi quegli uomini che tornavano a sentirsi ragazzi. E i ragazzi che tornavano bimbi. Naturalmente il lavoro officinale aveva perso il suo interesse. La produzione del nuovo composto era l’unica attività del convento. I villani che venivano a ritirare i prodotti dell’orto, le uova, i rimedi abituali, rimanevano delusi e spiazzati dalla vacuità dei frati solitamente laboriosi, tanto che la voce si sparse nei villaggi adiacenti e persino nelle città più vicine. Da Firenze il vescovo inviò un drappello di prelati per indagare e verificare che il convento non avesse adottato comportamenti dissoluti e contrari alle leggi del Signore. Nei conventi sparsi su tutta la Toscana, che a quei tempi erano molti, trapelavano notizie accattivanti circa una sorta di dichiarazione d’indipendenza dei fratelli di Compiobbi. I frati più anziani deploravano l’iniziativa, ma quelli giovani divagavano nelle notti fredde dai loro pensieri pii ed erano tentati dalla fuga verso il libero convento di Compiobbi. Chi aveva visitato il luogo non poteva non aver notato lo straordinario albero ancora ricco di frutti sempre nuovi e le voci, rimbalzando da una casa all’altra, da una bottega a un viandante, dal paese a quello successivo, aveva viaggiato oltre i confini della Toscana, tanto che il borgo era appellato dalla gente come la terra dell’eterna primavera. A quel tempo, Elia, le notizie non avevano la forza e la velocità di quelle odierne. Non esistevano i telefoni, la televisione, qualunque forma odierna di comunicazione era impensabile. Ma la gente, seppure lentamente, con mezzi di trasporto improbabili, si muoveva nei territori per i commerci. E le notizie succulenti avevano il potere delle fiabe, venivano raccontate e trasmesse nelle veglie serali, per riscaldare il cuore e gli animi della gente. E la gente sognava, si accalorava, divulgava i fatti appresi spesso trascendendoli e piegandoli ai propri desideri. Pratica che sopravvive nelle società di ogni tempo. Le persone vicine al convento erano tutte corse a visitare i prodigi dell’albero, ma anche tanti viandanti che percorrevano le vie di Toscana deviavano i loro percorsi per essere partecipi del miracolo di Compiobbi, tanto che pian piano si alimentò un vero pellegrinaggio verso il santo luogo. Ma nessuno poteva entrare oltre le mura di recinzione del monastero. I ragazzini ne percorrevano il periplo alla ricerca di falle nel grosso muro per poter spiare i movimenti dei frati, ma poco riuscivano a vedere. Così la curiosità montava e nuovi strabilianti racconti per lo più inventati da fantasie particolarmente prolifiche si rincorrevano l’uno dopo l’altro. Intanto, all’interno di quel santo territorio, la libertà era diventata incuria. I frati non si occupavano più degli animali che scorrazzavano liberi per procurarsi cibo, le colture erano abbandonate e nessuno aveva più visto un’ombra uscire dal grosso cancello. L’unica forma di vita che ancora si poteva contemplare era l’albero dell’eterna fioritura. Oltre quello, solo silenzio o grida forti di bambini. Il mistero si faceva bruciante e si lasciava legare dalla bocca dei villani a storie di fantasmi, di strane alchimie, di streghe e malefici contro il Signore. Il frate contabile non rispondeva alle missive inviategli da quello maggiore e la situazione stava diventando esplosiva per la sua capacità di raggiungere e infuocare la gente. Si temeva una rivoluzione dei poveri, stanchi del duro lavoro e della vita misera. Bisognava porre rimedio. Quando il drappello di prelati raggiunse Compiobbi fu necessario ingaggiare diversi artigiani locali per abbattere il cancello. Era una giornata desolata di sole invernale, ma nel cortile le api succhiavano il nettare dai frutti dell’albero maestoso. In quel territorio sussisteva una bolla climatica eccezionale che riusciva a mantenersi invariata nonostante le intemperie stagionali. Prima gli artigiani, abituati al lavoro e impermeabili al pericolo, poi i prelati, si introdussero nel monastero. I loro passi risuonavano nuovi dentro i corridoi abbandonati. Le stanze erano in disordine, lasciate in confusione. Le celle aperte, vuote, abbandonate. Nel sotterraneo, l’alambicco sobbolliva le sostanze alimentato da un tiepido fuoco e vari mazzi di erbe, foglie, frutti erano sparsi sulle spesse tavole invecchiate. Nell’angolo più buio solo il sant’uomo era intento a bilanciare polveri ed elementi, intento a migliorare e produrre il medicinale che avrebbe rivoluzionato la vita. Ma fu immediatamente catturato per essere rinchiuso nelle patrie galere. E il segreto che avrebbe potuto risarcire tanti dolori, guarire corpi malati, riparare vite distrutte, fu ignorato e dimenticato per sempre. Fuori, una flotta di bimbi urlanti, intenti a giocare con la nuova vita che era stata loro regalata.

Pin It