di Sura Bizzarri
LE COSE BELLE, quelle veramente belle, non hanno bisogno di mediazioni. Ti entrano dentro, ti bucano, ti trapassano. Sorpassano il clamore, le grida e gli eccessi della volgarità. Dallo schiamazzo di un bazaar orientale ti ritrovi nella pace mistica di un riad, nel quale giungono solo, da direzioni diverse, i canti dei muezzin che richiamano alla preghiera. Le cose veramente belle sono sostanzialmente sporadiche; una musica, una melodia che raggiunge l’apoteosi, diventa un cliché se ripetuta continuamente. Il tripudio del pubblico, così trascinante nel momento di gioia e commozione collettiva, si lascia impoverire e banalizzare dalla ripetizione costante, fino a diventare tedio. Sono le note giunte inaspettatamente all’orecchio, le pitture con le quali ci incontriamo, o scontriamo, casualmente, le parole concatenate e pronunciate con tono pacato ad assumere un valore assoluto, irraggiungibile, invalicabile. Poiché abbiamo coscienza che da quel momento non saranno più sulle nostre labbra, che sono l’istante irriproducibile di collegamento con la nostra coscienza. E in quella consapevolezza tutti i sensi convergono per rendere l’attimo irripetibile. Una sorta di orgasmo dell’anima. Clara da molto tempo vive nel silenzio. Non ha bisogno del clamore, della folla, della gente. Lei abita il suo mondo pallido in modo da poterlo colorare attraverso sé stessa. Perché da diverso tempo ha imparato a vivere di sé, a contare solo sulla forza della sua stessa forza. Era un mattino d’inverno, presto presto, quando la morte venne a trovarla.
Si era appena svegliata per preparare i vestiti, la colazione, per attizzare il fuoco nella stanza delle sue bimbe in modo che potessero svegliarsi in un ambiente caldo, prima di andare a scuola. Rimase sorpresa nel vedere quella signora anziana, evidentemente buona, davanti alla sua porta. Corse subito ad aprirle, come se fosse il gesto più naturale del mondo, sebbene fosse sicura di non aver mai visto quella donna. Lei entrò con un sorriso pacato e sereno, con gentilezza, con il timore di dare fastidio tipico di un estraneo che si introduce all’interno di una famiglia che non conosce. C’era un’attrazione misteriosa fra Clara e l’anziana signora. Il bisogno di fare domande, il bisogno di avere risposte, la consapevolezza che quel momento fosse straordinario e irriproducibile, proprio come la melodia ascoltata per caso e subito sfuggita dal campo sonoro, persa per sempre. Senza parole le due donne sedettero l’una accanto all’altra, vicine fino a toccarsi. La morte cinse le spalle di Clara presentandosi per quello che era. E in quell’abbraccio c’era un calore particolare, quello che scalda da dentro, che induce una sorta di trance ultraterrena. Le parole che aveva da dire non erano facili, ma lei sapeva come spiegare i concetti inimmaginabili, sapeva comunicare l’emozione. E, soprattutto, sapeva insegnare a controllarla, a renderla digeribile, meno offensiva, per quanto fosse possibile farlo. Insomma… sei venuta a prendermi. La morte sorrideva di un sorriso buono, rassicurante, misericordioso. Non era un nemico, ma una madre. E Clara pendeva dalle sue labbra, l’ascoltava senza battere ciglio, imprimendo dentro sé la sua voce morbida, provando conforto dalle mani di lei che stringevano le sue, amorevolmente. Io sono una madre, sono sola, a chi lascerò le mie figlie? No, Clara, non sono venuta a prenderti. Non te! Il volto della donna si illuminava, si distendeva in una dimensione magica man mano che l’argomento si addentrava nel suo significato nascosto. Man mano che il velo si sollevava lasciando nudo l’oggetto della visita. Così che Clara non sentisse freddo, così che il mistero non finisse per ucciderla, per soffocarla. Poiché la realtà è quello che è, nessuno può modificarla, nemmeno la morte. Il sole cominciava a tingere le forme indefinite dell’alba mentre le mani della morte massaggiavano tiepidamente, con movimenti circolari, quelle della giovane donna alla quale era venuta a far visita. Spiegami, morte, non puoi prendere mia madre o mio padre perché sono già morti, io sono sola, forse hai bussato alla porta sbagliata. Si era alzato il vento, un vento impetuoso che muoveva i rami nudi degli alberi e il suo suono era un rumore di sottofondo basso e continuo, come nelle giornate di tempesta, quando nevica forte e il rumore dell’aria che si sposta è un muglio senza interruzioni. La morte procedeva piano, i suoi occhi parlavano per lei, mentre il massaggio alle dita di Clara si intensificava con evidente scopo anestetico. Non sei sola, Clara, l’hai detto tu stessa. Hai le tue bimbe che ancora dormono nel letto. Gli occhi della giovane donna si erano fatti grandi, le pupille dilatate nello sforzo di capire. Le mie bimbe hanno solo me, non capisco, cosa c’entrano loro? Il momento era giunto; l’abbraccio, la stretta forte, il sorriso triste della morte erano l’unico suo antidoto per soffocare il grido virtuale che si leggeva sul volto di Clara. Dimmi cosa devo fare, morte, non puoi prenderti loro. Non sono qui per contrattare, non ne ho il potere. Sto cercando di aiutarti a capire, sto provando a sollevare il tuo dolore. Devi sopravvivere a tutto questo e capire che non c’è modo di sottrarsi. Ma quando, come. Cosa posso fare? Oggi terrò le bimbe chiuse in casa, non le accompagnerò a scuola, non andrò al lavoro, le sorveglierò io stessa, senza mai togliere gli occhi da loro. Non servirebbe a niente. Sono qui per farti capire, non hai colpe, non hai niente di cui pentirti, questa non è una pena commisurata a qualche tuo fallo. Il vento si intensificava; il rumore di sottofondo era un brusio molesto che quasi distorceva la voce della morte. Eppure i rami degli alberi erano quasi fermi. Non c’era corresponsione fra il suono e la realtà. Nel contempo le mani della morte erano sempre più calde e il suo abbraccio era un rifugio tranquillo, nel quale Clara nascondeva il viso. La sera precedente, le sue bimbe erano andate a letto sorridendo, giocando fra loro ai mestieri degli adulti, immaginando il loro futuro come maestre, parrucchiere, infermiere. La sera precedente lei aveva misurato l’altezza delle sue bimbe facendo la tacca sul muro con la matita e si era complimentata con loro per quanto fossero cresciute. Presto ci sarebbero stati da comprare vestiti nuovi. Che i bimbi indossano poco i loro abiti per quanto crescono in fretta. Clara raccontava tutto questo alla morte, ma era come se parlasse con sé stessa. Sentiva, sentiva profondamente quanto le sue parole fossero poca cosa, quanto non avessero il potere di cambiare le cose, di influire sul futuro delle proprie figlie. Quelle parole che venivano coperte e confuse dal suono del vento, in esso si perdevano, disperatamente. E non esisteva modo di renderle più incisive, di commuovere la morte che, pure, piangeva insieme a lei. Morte, prendine una sola. Lasciane una a me! Il respiro della morte, l’ansare del suo petto era regolare. Nessuna parola, nessun brivido di Clara erano capaci di incepparne l’andamento, intensificarlo o rallentarlo. Ma non tardava a rispondere, sempre senza inflessioni, con la calma di chi sa perfettamente cosa deve dire, con la pietà ormai impressa da anni nei suoi gesti e nella sua pacatezza. Non sono qui per contrattare, ma per farti comprendere quello che dovrai affrontare. Le braccia nude di Clara si afferravano al corpo forte della morte, si aggrappavano a lei in modo che la forza della conoscenza potesse sostenere la sua debolezza umana. Tu sai che le mie figlie non hanno padre, sai che l’uomo che le ha generate mi prese con la forza, sai quanto io mi sia ribellata e quanto il suo gesto sia stato per la mia intera vita un dolore intollerabile, ripagato solo dalla loro presenza. Perché non ti prendi lui, in modo che sia fatta giustizia sulla mia famiglia e sull’intero genere umano? Perché non compi un gesto generoso che dia ragione alla vita e ricacci la violenza? La morte ora la guardava con intensità, troppo forti, troppo vere erano le sue parole. Ma proprio questo doveva farle capire. Non esiste una giustizia superiore, la vita va e viene seguendo un algoritmo che non è calcolabile. E in questo sta la sua grandezza. Nell’imprevedibilità, nella insicurezza in virtù della quale ogni giorno potrebbe essere l’ultimo o, viceversa, solo un piccolo cerchio della catena infinita di azioni e pensieri che consumano corpi destinati a decadere in vecchiaie interminabili. Il sole si era alzato, ma i suoi raggi erano filtrati dalla turbolenza dell’aria e la luce appariva opaca, come filtrata attraverso una tenda. In quell’atmosfera irreale, Clara cercava di capacitarsi e districarsi attraverso il dolore per provare a giocare ancora qualche carta. Tentava di confondere la morte, di farla ragionare così come tentano di farlo gli umani. Era un avvocato che portava prove, testimonianze, che cercava di difendere le due imputate evidentemente innocenti. D’altronde, davanti a sé, non stava un giudice imparziale, ma una madre che cullava la figlia nel tentativo di poter sollevare il suo dolore. Lei e la morte non erano avversarie, ma testimoni comuni della storia che la vita le invitava a percorrere. Clara provava a toccare il viso della morte, accarezzava le sue guance pallide, spianate da ogni ruga, cercava nei suoi occhi profondi il significato della vita, di quello che le stava accadendo. La morte la lasciava fare, la invitava a trovare conforto nel suo abbraccio, a tuffare il volto sul suo petto e a consumare quel tempo maledetto che pure doveva percorrere, non esisteva altra soluzione. Ogni volta che Clara alzava la testa per trovare un segnale di corrispondenza, la vecchia signora incoraggiava la sua forza e la affiancava nel percorso che le era toccato di vivere. Prendi anche me, morte. Voglio stare con te, nella tua misericordia. Lei taceva, senza mai smettere di accarezzare i suoi capelli setosi. Non posso. Non puoi farlo. Questo è il momento che ti è stato dato, non puoi che viverlo. Allora rimani con me, per sempre. Solo accanto a te, alla luce della tua verità, io posso farcela! Non è possibile. Ci sono altre donne e uomini come te, ne è pieno il mondo. Con loro devo fare la stessa cosa che sto facendo con te. Io non appartengo a nessuno, ma sono di tutti. Andiamo insieme, in camera, a svegliare le mie bambine! Non ancora, Clara. Non sei ancora pronta. Il mattino cresceva e galoppava sui minuti. Inspiegabilmente, il tempo procedeva con un passo diverso, si addentrava nell’aria densa di quel mattino particolare e Clara temeva che la morte potesse andarsene. Aveva bisogno del suo aiuto, non avrebbe potuto farne senza. Le strade erano vuote, o forse era quel particolare evento atmosferico brumoso a impedire la vista della gente, a filtrare i rumori, le voci, a isolare il suono. Com’è possibile avere un rapporto filiale con la morte, desiderare di non doversi più staccare da lei? Clara studiava qualche strategia per trattenerla, per prendere tempo, per escogitare un piano. Ma l’orologio le era nemico; continuava a ticchettare, le lancette si facevano strada sul quadrante bianco e scavalcavano i segni disegnati con cura. I secondi, i minuti. Era passata più di un’ora dall’arrivo della signora e nessuna alternativa era apparsa praticabile. Dalla camera delle bimbe nessun rumore, evidentemente dormivano ancora, nonostante l’ora del risveglio per la scuola fosse ormai trascorsa. Clara contava di rimandare ancora il momento del loro risveglio, di posticipare l’evento come se fosse possibile cancellarlo, disinnescarlo. Così chiedeva alla morte di raccontarle altre storie, simili alla sua. Lei ne aveva viste tante di madri e figli, genitori e nonni, mogli, mariti, amanti. Attraverso i suoi racconti, attraverso le esperienze altrui, Clara avrebbe potuto imparare ad accettare la sua. La guardava, la morte, la guardava intensamente per acquisire dalla sua calma il segreto per sopravvivere. La osservava, la toccava, l’abbracciava e la stringeva. Le si gettava fra le braccia come fosse sua madre, per farsi cullare da lei come quando da bambina cercava conforto alle sue paure. Bastava chiudere gli occhi, fra le sue braccia, e i mostri sparivano sgretolati dal calore, dalle certezze degli adulti. In quel momento Clara provava a fare lo stesso. A chiudere gli occhi per riaprirli in una nuova dimensione, appesa alle consapevolezze della morte come a quelle della vita; quando, espulsa dal corpo materno, era esplosa nel primo respiro che, dolorosamente, le aveva aperto i polmoni. Che le aveva dischiuso la vita. Solo nell’abbraccio compassionevole sentiva tutta la pienezza di sé stessa. E la voglia di lottare svaniva nell’accettazione sorda di qualcosa che era inevitabile. Il tempo era diventato fondamentale; Clara, come Sheherazade, cercava di posticipare all’infinito il momento in cui la morte se ne sarebbe andata. L’attimo preciso che avrebbe diviso il prima dal dopo. Quello sarebbe stato lo spartiacque, il crinale da superare. Prima un’esistenza normale, dopo l’abisso. Come sarebbe riuscita a colmarlo? L’idea di rimanere sola era terribile. Quando avverrà? La morte conosceva bene i comportamenti degli umani. Sapeva perfettamente che la reazione naturale della madre sarebbe stata quella di gettarsi nella camera delle bimbe e sollevarle, stringerle, tentare in ogni modo di strapparle a una sorte che non doveva appartenere loro. Sapeva anche che il motivo per cui la donna si tratteneva dal farlo era la paura di aprire quella porta, il dubbio che i corpi che le appartenevano fossero già senza vita. Questo faceva sì che il bisogno di stare vicina, di intrattenere, corteggiare la morte fosse quasi uno spasimo. Il vento aveva pettinato il cielo; così come nella vita di Clara i nembi sfilacciati, come nebbia sottile, si erano disposti a strati e avevano suddiviso l’orizzonte in due zone nette, l’una fumosa, l’altra tersa e luminosa. In quella luce estremamente bianca, che metteva a nudo, le parole di Clara si erano fatte accattivanti, convincenti. Era disposta a tutto per evitare quel dolore. La morte rispose sottovoce, con un sorriso buono, pieno di pietà. Devi essere pronta, sono qui per aiutarti. Cosa significa quando? Ora, oggi, domani, fra qualche giorno? La tua vita deve proseguire, ci sarà un tempo difficile, affonderai, ma dovrai rialzarti. Saluta le tue bambine, devi lasciarle andare. Sulla fronte di Clara il sudore si era cristallizzato. Nel cuore un tonfo sordo, il rumore del vento nelle orecchie era il suono del suo incubo, ad esso lo avrebbe associato per il resto della vita. Le immagini delle figlie si confondevano con quelle di altri bambini visti in foto di guerra; in loro si condensava la spaventosa ingiustizia della natura. Era un concetto inconcepibile, inimmaginabile, una nausea che rigettava il suo intero corpo la scuoteva in conati violenti. Era la nausea verso sé stessa, tanto più crudele poiché era impossibile sfuggirle. Era la morte stessa a vacillare, tutta la sua misericordia non era abbastanza per sovrastare il rumore incessante di pensieri e immagini sferraglianti che si rincorrevano nello stridore della ruggine nel corpo e nell’anima di Clara. Eppure non esisteva scelta: quel dolore che non aveva uguali, che era la somma di tutti i dolori mai provati, non era procrastinabile. La morte decise che il momento era arrivato; prese con gentilezza la mano di Clara e la invitò ad alzarsi. La donna stentava ad assecondare il movimento che le veniva indicato, era fredda e sudata, bianca e tremante, dura come fosse di pietra. Muoveva i passi senza volontà, un martello dentro la scatola cranica segnava i secondi, ogni gesto infinitesimale, fino alla morbida mano sulla maniglia che spalancava l’abisso. Un colpo forte, come il passaggio di un treno, un violento terremoto, l’esplosione di un’arteria e il sangue che fuoriesce a fiotti. Quanto tempo era trascorso, quanta parte di esistenza avevano portato via le parole con la morte, quanta sbadataggine aveva innescato la tragedia. La stufa mai accesa aveva riempito la stanza di monossido di carbonio e i volti fermi delle bambine la guardavano e la giudicavano attraverso le palpebre chiuse. L’ultima carezza della morte, una mano grande e calda che addensava tutta la forza necessaria, l’aiuto muto e incondizionato. Poi se ne andò. Clara. Sola, davanti all’abisso. E guardandovi dentro si accorse che era appena sul primo gradino, quelli che avrebbe dovuto scendere erano molti, tanto che non si vedeva il fondo. La sua resistenza si sgretolò. Il corpo senza più scopo e la rabbia capace di innescare un ciclone. Comunque inutile. Quante volte avrebbe dovuto scendere e risalire l’abisso prima di trovare un equilibrio che potesse rendere la vita un luogo accettabile. Clara si sdraiò fra le sue bimbe ancora tiepide, man mano che il tempo, trascorrendo, le lasciava fredde ed estranee, se ne allontanò. Le aveva ormai salutate, non si sarebbe mai data pace del suo errore, non avrebbe mai perdonato sé stessa. Da sola, nella cucina percorsa verticalmente dalla luce diafana e crudele di quel mattino, si abbandonò al suo dolore emettendo gemiti e parole che dessero un suono alla devastazione; il suo blues, una musica dolcissima e contemporaneamente intrisa di desolazione. Si lasciò cullare dal suo stesso dolore, come una coperta sempre addosso che l’avrebbe isolata dagli altri. Le cose belle, quelle veramente belle, non hanno bisogno di mediazione; ti bucano, ti trapassano, poiché le labbra sanno quanta verità si nasconda in esse. Il suo canto, così inesprimibilmente magico, non fu mai ascoltato da nessuno. Insieme a milioni di altri canti strepitosi, scaturiti da dolori ineguagliabili, che non conosceremo mai.