PISTOIA. E Momò che fine ha fatto poi? Nadie, la bellissima Nadie, con i capelli biondi con i boccoli, avrà continuato a pensare al piccolo figlio di nessuno, salvato, almeno per i primi quattordici anni della sua vita dall’amore di Madame Rosa, ex prostituta ebrea che per contrappasso ha deciso, una volta non più abile a fare le marchette, di accudire alcuni dei figli delle sue colleghe nati per sbaglio? Il teatro non è soluzione; il teatro è provocazione, denuncia, occasione. E allora, è opportuno che il romanzo di Romain Gary, che per vincere la seconda volta il premio Goncourt dovette adottare uno pseudonimo, Emile Ajar, venga catapultato sul palcoscenico e diventi una tragicomica rappresentazione. Tragica, perché non potrebbe essere altrimenti: bambini senza genitori cresciuti in un ostello riservato a figli di prostitute distratte, in un penoso meltinpot di solitudini astrali, non può che generare sconforto e pietà; ma anche comica, perché la capacità di adattamento di ognuno di loro e in particolare del piccolo Momò, il più grande dei bambini di questo strano asilo in una banlieu parigina, diventa il diritto resurrezionale di un’umanità intera, un’altalena di emozioni che rimbalzano, sistematicamente, dalle lacrime ai sorrisi. Silvio Orlando, protagonista assoluto e solitario – anche se la presenza musicale dell’Orchestra Terra Madre (Simone Campa alla chitarra, Gianni Denitto al clarinetto, Maurizio Pala alla fisarmonica e Kaw Sissoko al kora e al djembe), con la quale chiude la scena con un bis musicale nel quale racconta la sua prima passione artistica, il clarinetto - di questa trasposizione teatrale, sembra egli stesso cresciuto in uno di questi asili per bambini sfortunati.
Non lo scriviamo, oggi, perché sollecitati a tale specifica riflessione dopo aver visto, ieri sera (si replica oggi pomeriggio, domenica 20 novembre) al Teatro Manzoni di Pistoia, La vita davanti a sé. Nella sua lunga carriera artistica, il tragicomico napoletano, dal cinema, dove è protagonista in una serie smisurata di ottime pellicole e in televisione, tra film e serie tv, ha sempre con sé quell’aria, quella smorfia e quel timbro che sembrano essere miracolosamente, puntualmente e rocambolescamente sopravvissuti a una tragedia, tanto che, raccontandola, non si può che sorridere a uno scampato percolo letale. Momò non è un bambino grande, anche se la vita lo ha fatto crescere decisamente più in fretta rispetto a una moltitudine di suoi più fortunati coetanei; Momò è un bambino come gli altri, un bambino che vorrebbe avere un peluche da stringere a sé la sera, a letto, quando cala notte, perché ha bisogno di amore, quello vero, genuino, totale, quello che solo una mamma può dare, un bambino che ha bisogno di guida, insegnamenti, maestri, anche severi, che quando occorre, lo rimettano sulla buona strada anche con un ceffone. Questo piccolo, grande uomo, insomma, si adatta a ogni singolo personaggio che la stesura del romanzo richiede, rimbalzando, con leggerezza e credibilità assoluta, in tutti i suoi protagonisti, senza mai dare l’idea che qualcuno vesta panni non cucitigli addosso. L’epilogo dello spettacolo, con il quale cala il sipario, bisogna voler bene, a detta di molti colleghi che hanno preceduto la nostra riflessione e che lo hanno meritoriamente insignito, recentemente, con il Premio alla Carriera e Le Maschere del Teatro italiano, sembra voler e dover essere la risposta a questo tragico rincorrersi di calamità (in)naturali, che oggi più che mai si stanno impadronendo della scena umana. Ribadiamo: il teatro non offre risposte; il teatro fa domande, e il teatro, e l’arte tutta, senza il dolore, senza la negazione, senza l’ingiustizia, diverrebbe – e lo è, ahinoi, per buona parte -, solo e puro intrattenimento. Ma voler bene, come pensa Momò a voce alta, non vuol dire solo e soltanto accudire, provvedere, proteggere; a volte occorrono gli schiaffi e occorre avere i requisiti per distribuirli con coscienza. E se a Romain Gary, all’apice del suo successo, qualcuno avesse saputo suonarglieli, forse sarebbe morto di vecchiaia.