di Raffaele Ferro
FERRARA. Quando l’orchestra si accorda, dietro il sipario chiuso, il suono che emerge è paragonabile a un dipinto che prende vita, un’espressione sonora che prelude a una serata di pura magia. In questo contesto, l’Associazione Giulia, attiva da oltre trent’anni nell’assistenza ai bambini oncologici e nella cura delle disabilità neurologiche, incarna un’autentica opera d’arte nel volontariato. E proprio a loro è dedicata la musica di Stewart Copeland (nella foto di Filippo Rubin), batterista dei Police, che come tanti altri artisti (fra i più importanti i Jethro Tull, Tony Hadley e altri) si è impegnato a devolvere parte dell’incasso per la causa dell'associazione ferrarese. La scaletta, il repertorio, un autentico capolavoro: brani classici dei Police, reinterpretati e arrangiati per orchestra. Certo, per semplificare e per smaltire l'emozione che abbiamo vissuto, ricordiamo King of Pain, Roxanne, Murder by Numbers, Spirit in a Material World, One Word e Message in a Bottle. Ogni pezzo eseguito con una meravigliosa orchestra, impeccabile, dinamica e giovane. Le voci - e come non immaginare la difficoltà nel sostituire Sting, sono state quelle delle eccezionali vocalist afroamericane Sarah-Jane, Laise Sanches e Raquel Brown, voci di una potenza e una freschezza ineccepibile. Ognuna di loro, oltre alla presenza scenica notevole, ha aggiunto una sfumatura unica al mix esplosivo di soul, gospel e jazz, creando un mood unico. Il gruppo dei musicisti, Gianni Rojatti alla chitarra, al basso il grande Faso, (noto per il suo lavoro più che trentennale con Elio e Le Storie Tese) che non si è limitato a suonare creando groove e agganci tecnici, accenni di improvvisazione col maestro Copeland alla batteria e Vittorio Cosma al pianoforte, anche lui, da molti anni, nella scuderia di Elio. Ma a rendere questa serata davvero magica è stata l'orchestra stessa, composta da ventisette musicisti. Un ensemble che ha creato un’atmosfera indescrivibile, dove l’energia si è diffusa sprigionando in modo contagioso il battito del cuore della musica. In sostanza l’avventura musicale di Copeland è andata al di là di un semplice concerto: è stata un'esperienza catartica, un invito a lasciarsi andare e immergersi nella musica fra una band quasi heavy metal, come lo stesso Copeland scherzando ha detto al pubblico e un alto momento di musica colta. Ma è risaputo: Stewart Copeland, con il suo carisma travolgente da pazzo scatenato, da eterno giovane, e per l’energia che sprigiona sul palco, non è semplicemente un batterista, ma un artista poliedrico, uno showman. A settantadue anni non ha perso un briciolo della sua passione e capacità di coinvolgere il pubblico nel dialogo, con un italiano divertente, quasi comico, è stato un ulteriore elemento che ha reso questa serata indimenticabile. La sua capacità nel riarrangiare i Police, (dopo una carriera solista da compositore di musiche per film, balletti, documentari da ormai quarant'anni) stravolgendone le strutture musicali e portando su un livello addirittura sperimentale canzoni immortali, è ciò che lo rende unico. Non è un caso che, parlando di Sting al pubblico, si sia infine liberato da un peso, tributando un profondo rispetto al genio di Sting. Nonostante le storie di dissapori e litigi che hanno caratterizzato il loro percorso, Stewart non ha fatto a meno di riconoscerlo come vero genio. Ogni colpo di tom, rullante, piatti e di tanti altri elementi della batteria di Copeland è stata un'offerta, un vero tributo al passato e un inno al presente, al viaggio continuo della musica e… alla beneficenza, alla vicinanza a chi soffre e ha bisogno di supporto costante per andare avanti nel volontariato, proprio come l'Associazione Giulia fa da decenni.
SPEZIA. Diffidate dei Villaggi all inclusive, quelli che vi fanno sentire a casa vostra anche se da casa vostra a dove siete in quel preciso momento ci saranno migliaia di chilometri. Quando viaggiate, non portatevi gli spaghetti da casa; mettetevi a tavola con gli indigeni e assaporate quello che non pensavate nemmeno fosse commestibile. Così, al ritorno, avrete un ricordo vero e un’esperienza. L’intro, per parlarvi del concerto di Nina Zilli, ce lo ha suggerito il mare, quello che protegge, blocca e istiga (a tentare di partire) piazza Europa, a Spezia, dove l’organizzazione del 56esimo Festival jazz ha allestito il palcoscenico. L’anfiteatro naturale, fiancheggiato da poderosi ma eleganti condomini, aspetta in preghiera che cali la sera perché la temperatura diurna è stordente. Il brulicare di sudamericani dalla deambulazione strascicata stride decisamente con la riservatezza da Belle époque che da sempre contraddistingue la Liguria tutta, Spezia compresa, anche se è subito dopo il limitare toscano. In piazza, però, non ci sono cubani, né ecuadoregni. Ci sono solo indigeni, di mezza età; quella fascia anagrafico/sociale che ha riconosciuto a Maria Chiara Fraschetta, generalità da manager dell’Emilia che strizza l’occhio alla Lombardia, se avesse scelto la strada del marketing invece che della musica, il merito di riassumere, in un sol corpo e in una sola identità varie anime strumentali, prima di decidere di chiamarsi con il nome – Nina - di uno dei suoi idoli (Nina Simone) e il cognome – Zilli (della madre) - veloce, allegro, onomatopeico del corpo che lo porta a spasso. A poco più di un anno dalla nascita della sua (loro; il papà è Daniele Lazzarin, in arte Danti) Anna Blue, la 44enne piacentina è tornata a essere quella splendida gazzella che ogni volta che canta ricorda, davvero, un nugolo di illustri cantanti; dalle nere del soul e del R&B, alle bianche italiane, passando quasi sempre sotto le grinfie del reggae, con un naturale, invidiabile e poliedrico camaleontismo. Per iniziare a dare vita alle danze, Nina e il suo staff hanno inutilmente aspettato che la temperatura si refrigerasse un po’. Quando si sono accorti che non ci sarebbe stato nulla da fare, hanno chiesto a Orazio Nicoletti, il bassista della formazione che sogna di diventare un crooner con la sua chitarra, di preparare la scena. Quattro brani, di ottima fattura, beninteso, ma che hanno avuto soprattutto il merito di far venire l’acquolina in bocca al pubblico accorso per ascoltare e vedere la grande attrattiva del giorno. E sul limitare delle ore 22, eccola finalmente: in total white, con Nico Roccamo alla batteria, Riccardo Di Paola al piano, Orazio Nicoletti (come già detto) al basso, Stefano Brandoni alla chitarra e Pepe Ragonese e Michele Monestiroli alla tromba e al sax intonare, dopo un’intro universale (Feeling good), 50mila, il suo battesimo discografico ufficiale, nel 2009, dopo un lungo, faticoso, ma ricco e produttivo peregrinare in giro per il mondo, a raccogliere informazioni, stili, sonorità, culture e senza mai portarsi dietro gli spaghetti, che a vederla, ha sempre mangiato con grande parsimonia, è lecito sentenziare. Dal soprapalco con i suoi strumentisti, al palco al cospetto delle prime file del pubblico. La prima parte, nella quale snocciola L’inferno, Bacio d’addio, L’amore è femmina e un medley di reggae (cosa che le si addice meravigliosamente), Nina Zilli è costantemente tentata di liberarsi del giacchetto bianco che indossa, soprattutto pensando alla mise con la quale si esibirà nel secondo step del concerto, con un improbabile abito da sposa con uno strascico a ponpon che si apre con una delle canzoni più belle del pianeta, I’d rather go blind, scritta e portata nell’olimpo da Etta James, ma successivamente beatificata anche dalla voce di Bet Hurt, ad esempio, sia accompagnata dalla divinità Jeff Beck alla chitarra, che da uno dei suoi eredi minori, Joe Bonamassa. Con quel palandrano bianco, decisamente ingombrante soprattutto in relazione alla temperatura, che non accenna a scemare nemmeno con il calare della notte, le esibizioni si limitano a Per Sempre e Sola, che anticipano l’ultimo pezzo di strada del concerto, stavolta con un vestitino stile Disegual e un paio di stivali nerissimi, fin sopra il ginocchio, da Erykah Badu passando attraverso Impazzivo per te, L’uomo che amava le donne, Innamorata, Mi hai fatto fare tardi e uno dei brani sempiterni della canzone italiana, Se bruciasse la città, che Massimo Ranieri presta volentieri a tutti quelli che decidono di confrontarcisi. La macchina è nel parcheggio proprio sotto la piazza; saremmo tentati, per rincasare, di farci tutta l’Aurelia fino a Migliarino e poi prendere l’autostrada a Pisa nord. In macchina, con tutti i finestrini aperti, la temperatura è gradevole e poi, sintonizzati, come sempre, su Radio Monte Carlo, a quell’ora, dopo la benedizione di Nick the NightFly, va in onda Blue Moon, una straordinaria rilettura di tutto il cosmo dei grandi classici. Un congedarsi ideale da una giornata torrida, alleggerita e rinfrescata dalla voce, dal sound, dal groove e dalla leggerezza, gradevolissime, di Nina Zilli, che ci eravamo ripromessi di andare a sentire dal vivo il prima possibile, non appena ce ne fosse stata la possibilità.
PORRETTA (BO). Potremmo davvero riciclare le recensioni delle passate edizioni, cambiando nomi e foto, e raccontarvi, con precisione tassonomica, anche questa 36esima edizione del Porretta Soul Festival: non si correrebbe alcun rischio, ma veramente. Perché Porretta, in quei meravigliosi quattro giorni dell’evento musicale, è davvero sempre uguale a sé stessa. Non cambia mai nulla, mai; la solita sperticata accogliente cortesia di ogni indigeno, il clima, morigeratamente festoso, di tutto l’ambiente, il meraviglioso puzzle urbanistico che riporta tutto sul limitare del Parco Rufus Thomas e la musica, quell’onda letteralmente anomala che si ripete, con commovente tenerezza, ogni anno. Succede sempre puntualmente così perché il Porretta Soul Festival vanta un direttore artistico (Graziano Uliani), che è poi l’ideatore dell’evento, ma anche la macchina industriale che lo tiene in piedi, nonché il padrone di casa che accoglie gli artisti e il primo, vero, incontenibile appassionato spettatore dei concerti. E con lui tutta la corposa cerchia degli addetti ai lavori, dalla cassa che distribuisce biglietti, fascette cromate ai polsi e accrediti (ogni giornalista e fotografo vengono riconosciuti e salutati, con sorrisi autentici, per nome; una cosa meravigliosa), agli uomini della Sicurezza, quasi inutili vista la ludica civiltà che caratterizza la manifestazione. Sono perfettamente consapevoli dell’umore dell’evento, e complici, anche tutti gli artisti che salgono sul palcoscenico, che è una piattaforma senza soluzione di continuità del parterre occupato dai fedelissimi e dai fotografi. Succede puntualmente così perché Graziano Uliani, anziché lasciarsi tentare e contaminare da artisti e generi affiliati, continua imperterrito a battere la strada del Soul e nonostante i suoi padri spirituali si siano ormai disciolti nell’Universo del tempo senza tempo, senza mancare comunque di venire, almeno una volta, a deliziare il cielo sopra Porretta, è sempre febbrilmente alla ricerca di volti, voci e strumenti nuovi capaci di dare alla manifestazione la linea guida, il senso e la sua autenticità. Un’incrollabile fedeltà che non ha il sapore o il retrogusto di immotivata cocciutaggine e che viene premiata, ogni anno, da quel festoso nugolo eterogeneo di spettatori, da Giove Pluvio che garantisce tregua anche se nei paraggi venisse il finimondo e da una critica che non può che raccontare, genuflettendosi, il moltiplicarsi delle edizioni. Gli artisti sono artisti quando salgono sul palco, duettando e scherzando con il presentatore, Rick Hutton, che li conosce, perché conosce la loro musica, perché conosce la musica; ma sono spettatori appassionati prima e dopo le loro performance, perché quando non tocca a loro, non sono nei back stage (il giardino a lato del palco, con seggioline di plastica e qualche delizia commestibile) a prepararsi, ma si confondono con il pubblico per godere quell’atmosfera che si materializza e si rinnova solo lì, in quel borgo fiancheggiato, nel silenzio e nella complicità, dal fiume Reno, che scorre tra la piazza e la stazione ferroviaria, collegate tra loro da un ponte che è l’unico accesso alla città dal fronte nord est.
Ma i concerti? Certo, sono il motivo dell’esistenza della manifestazione, il loro significato, ma fanno parte, ininterrottamente, della linea umana e culturale che autorizza l’esistenza di una festa meravigliosa. Che inizia in tarda mattinata, tra colazioni e esibizioni dal vivo e si allunga fino alle ore più buie, ma stellatissime, della notte, tra strett food e hot dog, tra fiumi di birra e alcolici, con gli agenti delle forze dell’ordine che non sentono mai la necessità di stare sul chi vive. E ieri sera, dopo un esordio, il giovedì, con un fantastico set di Blues, è arrivata Miss Bee & The Bullfrogs (le foto sono di Fiorenzo Giovannelli, l’autore della copertina di questa 36esima edizione), con la madame del sax e della voce sorretta dalla chitarra di Eric Gayon, una delle tante reincarnazioni, sparse nel mondo, dello statunitense Derek Truks, prologo ideale al set conclusivo affidato al Memphis Music Hall Of fame Band, dove ognuno, nell’emiciclo del parco appenninico, si è sentito esattamente dove sarebbe voluto essere.
SERAVEZZA (LU). Invece del solito bis, si sono stretti in circolo, sul palcoscenico, per ringraziare un’altra serata maiuscola, affidando la musica di congedo (Could you be loved) dopo due ore scarse di musica, a uno di quelli (Bob Marley) con i quali, agli esordi, oltre quarant’anni fa, spartirono sogni e successi di un’epoca che aveva cullato l’idea che il mondo potesse andare altrove. Le cose, invece, non sono andate come immaginavamo e desideravamo anche noi che abbiamo la fortuna di raccontarvele, certe serate, ma esserci e sapere di esserci stati, non è poco. Loro, gli Incognito, sono una società musicale in divenire, che ha vantato, in quarantacinque anni di concerti, un nugolo di paurosi strumentisti che sembravano, ognuno, aspettare in gloria il momento che alla superband inglese mancasse, nella circostanza, uno strumentista che fosse di loro pertinenza musicale. È quello che avevano immaginato e desiderato Jean-Paul Maunick e Paul Williams, probabilmente, nel 1979, quando si misero all’anima la fondazione della formazione musicale In Kuhg Nee Tow, che nel tempo è diventata – e lo resterà per sempre – una delle più alte espressioni di jazid, funk, soul e R&B, saltabeccando, in ogni singolo brano, nelle sonorità di alcuni loro colleghi (da Stevie Wonder a Harbie Hancock, passando per molti padri spirituali della world music e fino ad arrivare, prima di fare tappa in casa degli Earth Wind & Fire, a Mario Biondi, con il quale si sono esibiti tre lustri or sono) ai quali, anche ieri sera, han voluto dare e dire il proprio grazie. E il parco del Palazzo Mediceo di Seravezza, dove il Serra e il Vezza si uniscono per confluire nel torrente Versilia che scende fino al mare, è quanto di meglio si possa desiderare per godersi un concerto del genere. Non solo per una qualità acustica eccellente e un naturale refrigerio atmosferico determinato dal sotto monte delle Apuane; è un posto antico, dove la musica si fidelizza e coniuga con la joie de vivre, dove mangiare un hot dog e bere una birra seduti sul plaid steso sull’erba portato da casa accanto a illustri, cordiali, sconosciuti, rende alla musica, e alla sua magnifica inimitabile funzione, tutto il suo fascino. Certo, non basta dividere e condividere uno spazio aperto in armonia, pagando un biglietto, per sentirsi felici. Ma poco dopo le 21,30, quelli che sono oggi gli Incognito, una mescola straordinaria di culture, etnie, provenienze ed esperienze strumentali, hanno iniziato a proporre alcuni brani della loro interminabile carriera di live e registrazioni; hanno esordito con la ragazza parigina per arrivare, come da scaletta, fino a Nights Over Egypt, senza dimenticare di passare tra le note di Colibrì, Step Aside, Shine, una meravigliosa offerta di quello che il convento anonimo ha dato al suo pubblico, brani con i quali i palati fini dell’ascolto han potuto ulteriormente ingentilirsi e quelli meno esigenti, ballare e divertirsi. Che sono quelli che ieri sera han voluto seguire l’evento, una parte, con i telefonini accesi in modalità registrazione e l’altra, la maggior parte, lasciando stare tutto quello che la tecnologia ormai offre fino all’imposizione, per spolverare la vecchia, insopprimibile e insostituibile voglia di ballare. Supportata, quest’ultima, dalla batteria sicula di Francesco Mendolia, dalle voci di Imaani, Natalie Duncan e Tony Momrelle, dai quattro fiati, chitarra, percussioni, basso e organo Hammond, introdotti, come il resto di tutti gli altri strumentisti, dal bandleader, l’anglocaraibico Bluey, il 67enne Jean-Paul Maunick, l’imperituro, l’immarciscibile, l’anello di congiunzione tra gli Incognito che nacquero e furono e quelli che saranno. Una catena di produzione musicale ed emotiva che va, senza la minima ombra di dubbio, ben oltre le sontuose professionalità dei singoli componenti, in una confluenza strumentale che genera un vero e proprio morbo. Che si propaga sugli spettatori che a loro volta diventano, più o meno inconsapevolmente, testimonial di quella musica che ha sono bisogno, come linfa, di condivisioni e contaminazioni, senza rischio di perdere l’identità, perché quella, come noto, è Incognito. Un plauso, prima di congedarsi, all'organizzazione del Festival, con un bus/navetta a garantire l'accesso senza il naturale e altrimenti inevitabile imbottigliamento delle automobili e al piccolo Comune della lucchesia che guarda la Versilia, in grado, seppur non abituato, a stare al passo con vecchi tempi musicali.
di Simona Priami
PISA. Goran Bregovic, il musicista e compositore slavo più famoso al mondo, ha portato a Pisa, nel Giardino Scotto, il suo turbofolk, accompagnato dalla sua Wedding & Funerals Band (sì, quella dei matrimoni, nella migliore delle occasioni, o dei funerali, quando la Parca taglia il filo), coinvolgendo il numeroso pubblico con le sue sonorità ritmate e capaci di toccare e suscitare numerosi e diversi sentimenti, dall’allegria alla malinconia, dal divertimento e la spensieratezza fino alla profonda riflessione, una macedonia sonora complessiva che in fin dei conti non si discosta molto dalla worldmusic. Vestito, come da copione, in completo abito bianco, anche nella serata di Pisa Jazz ha rivolto tutta la sua profonda e colta attenzione ai costumi della sua terra, dilaniata e non più fatta risorgere da diversità etniche che il giorno prima della guerra sembravano non dover destare intolleranza, odio, magttanze di donne e bambini. Bregovic, infatti, nato a Sarajevo nel 1950 da mamma serba e padre croato, riesce a fondere, perché è chimicamente impossibile che non lo faccia, stili, lingue e strumenti diversi; conoscitore attento delle tradizioni popolari dei Balcani, riesce a trasmettere l’importanza della diversità culturale, sociale e folcloristica. Come spesso ci ricorda: ci sono sempre incontri tra culture e artisti nei miei album. La sua musica propone molti strumenti a fiato, trombe, tromboni, grancassa, inoltre fanfara gitana e chitarra elettrica; con i suoi strumentisti della tradizione gitana, mescola vocalità bulgare, folklore slavo, polifonia sacra ortodossa e rock moderno. Il risultato è una perfetta armonia di irresistibile ritmo e fascino, uno spettacolo completo, divertente ed estremamente energico al quale il pubblico non sa resistere. Il rock aveva un ruolo fondamentale nella nostra vita – ha affermato - era l’unica possibilità per poter esprimere pubblicamente il nostro malcontento senza rischiare di finire in galera o quasi. I testi di Goran Bregovic trattano temi universali come la sofferenza della condizione umana, l’amore, la festa, le tradizioni; l’artista, tra i tanti successi, ha riproposto brani importanti del suo lungo repertorio come Kalasnjikov, famoso per essere presente nella colonna sonora di Underground, il film di Emir Kusturica, uno storico connubio, quello tra i due artisti connazionali, bruscamente interrotto per cause ufficiali ancora da chiarire e congelato, da entrambi, con la fatidica e inattaccabile frase i nostri destini han preso strade diverse. Testo di difficile interpretazione caratterizzato da riferimenti al popolo Rom e al noto fucile da guerra, Goran lo ha commentato con il suo solito accento ironico, sfoggiando, ma questa è virtù antica, un’invidiabile padronanza della lingua italiana, ricordando come tutte le guerre del mondo, comprese quelle in corso, non sono purtroppo scatenate o fatte finire dagli intellettuali ma dai soldati. Con il suo pacifismo musicale, che è un forte messaggio contro i conflitti e per il riconoscimento dell’importanza e la dignità di tutte le etnie, l’artista vuole unire popoli e culture ma, come lui stesso afferma, non sa come reagire alle tragedie del mondo; Gas Gas testo che tratta della velocità della macchina, ha elettrizzato il pubblico; hanno suonato testi sulle guerre e la famosa interpretazione di Bella Ciao, nata per caso da collaborazioni improvvisate per un ultimo dell’anno, definita da Bregovic la canzone più felice e triste nella storia della musica.
PISTOIA. Non ha mai fatto un passo più lungo delle sue gambe, Antonello Venditti (nella foto di un Amico): è nato, giovanissimo, con la scuola cantautoriale romana e, senza mai osare nulla, né retrocedere di un millimetro, ha inanellato una lunga serie di poesie, molte delle quali appartengono, indelebilmente, all’immaginario collettivo di una generazione tradita, quella di chi ha sognato, spesso senza fare nulla perché ciò accadesse, che un altro mondo fosse possibile. E alla veneranda età di settantacinque anni, portati con estrema disinvoltura, continua a girare l’Italia in tournée, nell’occasione specifica per festeggiare quarant’anni di Cuore, uno degli album - il nono, per l’esattezza - più fortunati di una carriera costellata dalla vendita di quaranta milioni di copie vendute, un traguardo che lo pone ai vertici del gradimento popolare. Il palcoscenico di Pistoia, per il Festival Blues, non è forse il proscenio più adatto alle melodie del cantautore romano, ma Piazza del Duomo sì e il tutto esaurito che si è registrato ieri sera per il suo concerto, ultima serata di questo 43esimo Festival Blues, ne è una lampante e indiscutibile dimostrazione. Ha iniziato al pianoforte, con due brani che appartengono a un’altra fortunatissima registrazione: Nata sotto il segno dei pesci: Bomba o non bomba (che descrive la tenacia e l’ostinazione al successo profusi con il suo compagno di viaggio Francesco de Gregori) e l’omonimo brano che dette il titolo al fortunatissimo, e per molti versi decisivo per la sua carriera, 33 giri. Poi, sempre restando a quell’incisione, ha interpretato Giulia, rassicurando il pubblico, che avrebbe fatto l’alba in compagnia delle sue canzoni, che per avvicinarsi a Cuore avrebbe prediletto l’interpretazione senza inabissarsi nelle spiegazioni. E nonostante, lungo il concerto, Antonio Venditti, che qualcuno gli suggerì, fortunatamente, di ribattezzarsi Antonello, abbia tralasciato molte canzoni che l’ordinatissimo pubblico di Pistoia avrebbe volentieri cantato insieme a lui, conoscendone a mente testi, pause e gorgheggi, le luci della Piazza e del Festival si sono spente un quarto d’ora dopo la mezzanotte, dopo centosessantacinque minuti di esibizione, un dato temporale e numerico che, per uno che si avvia all’ottantina, è di assoluto riguardo. Prima di arrivare a snocciolare tutti e gli otto brani che compongono il Long Playing che dà il nome al tour per i festeggiamenti dei suoi quarant’anni, Venditti racconta qualche premessa, spesso immergendosi in ragionamenti e considerazioni molto opinabili, ma che fanno chimicamente parte del personaggio, proponendo alla piazza Lacrime di pioggia, Peppino e Giulio Cesare. Sono già passate le 22,30; il tempo stringe e per non rischiare di far perdere a molti spettatori non indigeni, che non hanno preso la macchina, l’ultimo treno per Firenze in partenza all’una di notte, bisogna che il cantastorie metropolitano non si perda in quelle chiacchiere che lui adora e che il pubblico, che comunque vuole sentirlo cantare, non disdegna affatto. Per Cuore rispetterà la scaletta dell’incisione originale, interpretando, in sequenza, Notte prima degli esami (e lo fa tornando al pianoforte), Mai nessun video mai (l’amara profezia dell’immortalarsi telematico), Qui, Non è la cocaina (la gradita tossicodipendenza dell’amore), Ci vorrebbe un amico, L’ottimista (le sue scaramucce con Bettino Craxi e quella stagione di corrotti e mafiosi, purtroppo mai interrotta e probabilmente interminabile), Piero e Cinzia (l’unico brano del suo lungo repertorio che reaggeggia, visto che si ispira all’aneddoto del concerto di Bob Marley a San Siro, del giugno 1980, aperto da Pino Daniele, per inciso, che due settimane dopo, il 14 luglio, impreziosirà la seconda serata del primo Blues’In) e Stella. Sono abbondantemente passate le 23; il compito è stato svolto con dovizia, partecipazione e professionalità, grazie soprattutto alla sua pluridecorata e corposa band; si potrebbe anche chiudere qui. Ma il pubblico vuole canticchiare ancora i suoi successi e allora, Dì una parola (dedicata alle donne), Che fantastica storia è la vita, Dalla pelle al cuore, Amici mai, Alta marea, Benvenuti in paradiso e, gran finale, In questo mondo di ladri. La nostra impeccabile tassonomia descrittiva, per la recensione del concerto di Venditti, il merito, unico, è di Anna Nigro, rispettabilissima pittrice, amica vera, che il caso ha voluto che, in attesa del marito, si sia seduta vicina a noi e, munita di quel marchingegno con il quale, dal telefonino, si può risalire al titolo di una canzone dopo aver registrato le prime note musicali, si sia potuto trascrivere, su un pezzo di carta, la scaletta del concerto. La consegna della sua inseparabile paglia a uno dei suoi ammiratori più appassionati segna la fine della serata. Si spengono le luci, ma non tacciono le voci; il bis è lì, alle porte, che aspetta solo di essere chiamato e allora, per rafforzare il legame con la sua/nostra adoratissima e infernale città, Roma capoccia e il suo arrivederci ad altro anniversario, con Ricordati di me. Stai tranquillo, Venditti; quelli che erano in piazza e molti altri, di te, non si scorderanno mai.
PISTOIA. Serata migliore, Nick Becattini, per congedarsi ufficialmente dalla musica suonata, non avrebbe potuto desiderala. Dopo essere stato, per molti lustri, una delle migliori Chitarre Blues e averlo dimostrato, più di una volta, proprio sul palco della Piazza della città dove è nato, cresciuto, coltivato i propri sogni e averli visti realizzati, ieri sera, al penultimo appuntamento della 43esima edizione del Festival Blues, ieri sera, tra Mark Lettieri e Matteo Mancuso, due stratosferiche adorabili realtà mondiali, ad aiutarlo per salire su quel palco e raccogliere l’ennesimo scroscio di applausi, sulle note di Sweet Home Pistoia, ci ha pensato uno dei suoi grandi, vecchi, amici, Silvano Martini, la Sicurezza. Si è presentato sulla sedia a rotelle, condizione alla quale è stato condannato da una malattia che non perdona: la Sla. Nick Becattini, invece, quella malattia, e tutto il destino avverso, l’ha già perdonati, perché dopo essere stato una delle sei corde più pregiate, è diventato un uomo ancor più prezioso, capace di dispensare, dall’immensa profondità del suo dolore, comprensione, coraggio, amore. Serate più appropriate non potevano essercene per questo commovente, meraviglioso, congedo, perché Mark Lettieri e il suo gruppo, e Matteo Mancuso, con il suo terzetto, hanno dato vita a una delle notti musicalmente più autorevoli di Pistoia. Ha aperto le danze il 40enne texano, storico fondatore degli Snarky Puppy, con il suo raffinatissimo jazz contaminato da tutto quello che vi passa per le trombe di Eustachio, una meravigliosa amalgama di informazioni sonore che gli è valsa la collezione di ben cinque Grammy Award e un’inarrestabile, crescente notorietà cosmica, tanto lungo le rotte alternative (una volta; oggi sono quelle ufficiali) delle piattaforme, quanto su quelle live e dei raduni per soli illustri addetti ai lavori.
Gusto e nitore, leggerezza e profondità, fantasia ed erudizione; la sua melodia passa attraverso il naturale altalenarsi di queste raffinatissime doti, con le quali padroneggia e guida la sua band: Jason JT Thomas alla batteria, Daniel Porter alle tastiere ed Eoin Walsh al basso. Un viaggio supersonico millimetrico, nel quale, oltre a deliziare il pubblico (poco più di duemila spettatori; è quello che ci si aspetta quando la musica si fa dura e i duri vanno ad ascoltarla) con avveniristiche intuizioni, lo coccola con la rilettura strumentale di Time After Time, uno dei brani più indimenticabili di quella fertilissima meravigliosa stagione muiscale degli anni ’80 e ’90, grazie all’interpretazione di quel genio ribelle di Cindy Lauper. Dopo, la predestinazione in carne e ossa, la reincarnazione di mille stili, l’incomprensibile semplificazione di concetti strumentalmente dotti e cattedrali. Matteo Mancuso, 26enne (ma ne dimostra meno, davvero) palermitano, accompagnato da due amici conterranei (non c’è solo la Mafia, da quelle parti; ci sono anche i fuoriclasse) che se non fossero così eruditi non potrebbero stare in sua compagnia, sui palcoscenici: Riccardo Oliva al basso e Gianluca Pellerito alla batteria. Ascoltare Matteo Mancuso ad occhi chiusi equivale a sottoporsi a un esercizio mnemonico di difficilissime intuizione e soluzione. Ma anziché stabilire a chi somigli di più, se a Pat Metheny o Al di Meola, se a Joe Bonamassa o Franco Cerri, guardatelo attentamente e cercate di stabilire un punto di contatto ottimale ed ortogonale tra la mano sinistra che volteggia sui capotasti e la destra che sembra stia suonando altre cose. Alcune volte si ha l’impressione che voglia entrare nel circolo vizioso di SRV, altre, invece, che cerchi di raggiungere una destinazione nota e famosa percorrendo strade alternative sconosciute anche ai più abili viaggiatori, ma anche alle mappe e itinerari ufficiali. Un mostro di velocità e precisione, padronanza e sfrontatezza. Qualcuno lo accusa di non aver abbastanza anima per rapire il cuore degli spettatori; a nostro avviso, ne ha troppa, ma occorre dare il tempo, a chi lo ascolta, di capire che il suo linguaggio muto appartiene già al mondo dell’intelligenza artificiale, quella costruita dai fuoriclasse, concentrati e illuminati solo e soltanto dallo studio meticoloso dei loro strumenti.
Prima di dare la buonanotte e aver sfamato chi di musica colta ne aveva vitale bisogno, il giovane e piccolo Matteo ha chiamato sul palco suo fratello più grande Mark, con il quale si è sbizzarrito in un match che non contemplava vincitori e vinti, ma solo una gara di generosità. Ci starebbe stato benissimo anche Nick, nel bel mezzo di quella magistrale sontuosa contesa.
PISTOIA. È una di quelle circostanze giornalistiche, questa, nella quale il carico di informazioni, vista la sua abbondanza, rischia davvero di ingolfare la fluidità del racconto, che ci apprestiamo a snocciolarvi con la consapevolezza e la fortuna di poter dimostrare di esserci stati. Partiamo dai dettagli, che, sovente, fanno la differenza. Il vestitino sopra le ginocchia (firmato Disegual, siamo pronti a scommetterci) con il quale Dee Dee Bridgewater si è presentata al pubblico del Festival Blues ieri sera merita, al di là di qualsivoglia contesto, un applauso a scena aperta. Per non parlare dei sandali, senza tacchi, della paglietta/non paglietta in testa, dell’unica collana, dei vari anelli e degli occhiali strafichissimi con innumerevoli strass lungo la montatura: meravigliosa, quanto la sua voce e soprattutto quanto le tre strumentiste con le quali ha aperto la scena, tre talenti straordinari che sono stata la dimostrazione, evidente e inoppugnabile, di come le quote rosa, o la parità di genere, siano concetti di sola alta demagogia: la statunitense Carmen Staaf, pantaloni e fruits, direttrice musicale disposta in perfetto equilibrio ed equidistanza dal piano e dall’organo Hammond; la 38enne veneziana Rosa Brunello, ambientalista equosolidale, bandleader di varie formazioni, al basso elettrico e al contrabbasso e la batteria, oltre ogni più incredibile e rosea meraviglia, di Evita Polidoro, 29enne milanese, naturalizzata senese e poi romana, in perfetta mise da testimone di nozze. Tre insindacabili dimostrazioni di come il mondo femminile possa essere rappresentato anche, e soprattutto, se è quello che si vuole, da impeccabili professionalità, magistrali personalità, autorevolissime competenze, che non hanno alcun bisogno di ulteriori dettagli scenici, eccitanti suppellettili e ammiccamenti che dovrebbero spostare l’attenzione dal suono al sogno. Tre turniste da rara bellezza, efficacia, semplicità; tre suoni nitidi, puliti, ma coraggiosissimi, mai banali, con i quali, con grazia e deontologia professionali, si sono messe a disposizione della vecchia, ma non ancora satolla, voglia di esistere di Dee Dee Bridgewater, la 74enne di Memphis che ieri sera, in quella piazza pistoiese dove, negli ultimi 44 anni, è passato a esibirsi il meglio che ci fosse e ci sia stato in giro per il mondo, ha ulteriormente confermato come la nomea che si porta addosso di essere una delle ultime voci del jazz non sia un modo di dire, ma un’insopprimibile constatazione. Qualche standard, un omaggio a Nina Simone e Ella Fitzgerald (l’interpretazione di Dindi ha meritato il prezzo del biglietto) e il suo repertorio vocale ancora immenso, seppur centellinato con dovizia e consapevolezza. Anche se con le seggioline blu, che, - ribadiamo – da quando siamo invecchiati, sono particolarmente gradite, in Piazza del Duomo, ieri sera, si è respirato la medesima aria e fragranza dei migliori Festival, quelli nei quali si stentava a credere che il cartellone contemplasse nugoli di mostri sacri tutti insieme.
Sembrava la serata migliore per nostalgicizzare l'evento, anche perché, dopo i cinquanta meravigliosi minuti trascorsi con Dee Dee Bridgewater e le sue impeccabili turniste, è stata la volta di Mario Biondi, musicista di caratura internazionale che proprio a Pistoia, dieci anni fa, venne a raccogliere i grazie e gli omaggi della piazza nel bel mezzo della sua notorietà. Ieri sera, però – e la nostra sensazione è stata condivisa da parecchi altri spettatori che hanno abbandonato anzitempo il concerto – sembrava davvero, nonostante le lodi rivolte a organizzatori e ambiente, che di esibirsi, il crooner catanese, non ne avesse gran voglia. Un animale da palcoscenico non è mai stato, questo è vero; elegante e raffinato (anche ieri sera ha sfoggiato un impeccabile completo color sabbia), si è limitato a qualche battuta, tra l’altro scontata, con un tecnico e con uno dei suoi numerosi e impeccabili sessionisti e anche nelle esibizioni non ha mai dato importanti e tangibili segnali emotivi, come se, a questo appuntamento con il Festival non potesse, tutto sommato, dire di no. La donna cannone di Francesco De Gregori, l’immortale Prendila così, di Lucio Battisti hanno anticipato, oltre qualche intramontabile pezzo swingfusion, This is what you are, con il quale in molti abbiamo pensato avrebbe chiuso l'esibizione. Non è stato l’ultimo brano, invece, interpretato con misurato trasporto, tra l’altro, ma uno degli ultimi, senza però che il pubblico, da quel momento in poi, si potesse e dovesse lasciarsi andare verso l’epilogo struggente di una serata da Festival.
PISTOIA. Le seggioline blu in Piazza del Duomo, che quando comparvero, alcuni Festival or sono, ci dettero – e non poco – fastidio, nel tempo, proprio come un punto di vista, hanno assunto ben altro significato e ora sono quasi benedette. Per lo spettacolo di ieri sera, infatti, uno di questo 43esimo Festival Blues, sono state ideali; le esibizioni della formazione Elio e le storie tese (nella foto di Gabriele Acerboni) non sono mai stati concerti veri e propri, anche se musicalmente ogni singolo socio della band milanese ha davvero ben poco da imparare da chiunque. Sono spettacoli teatrali, con una colonna sonora invasiva che fa da collant tra una cauta blasfemia e meleggiamenti vari, tra qualche denuncia politicamente correttissima e un’insana, condivisa e applaudita voglia di divertirsi. Anche loro però, i dissacratori della Madunina, nonostante si stessero affermando nei circuiti alternativi già da parecchi anni, per entrare nel cuore e nelle ariette dell’immaginario collettivo popolare hanno dovuto necessariamente attraversare le forche caudine di Sanremo (1996) e diventare così la cresta evoluta dell’ermetismo musicale, abbozzata, ma senza il dovuto tributo in coda, dagli Skiantos. E sulle seggioline blu e sugli spalti, ieri sera, per l’appuntamento di mezzo di questo nuovo Festival pistoiese, si sono accomodati non pochi spettatori, intorno alle tremila persone, che hanno seguito con memoria tassonomica e maniacale ogni singola esibizione delle cantate apocrife di Stefano Elio Belisari e di tutti quelli che, dal giorno della fondazione (1980) a oggi, hanno impreziosito, tanto nel linguaggio, quanto nella musica, il rock demenziale, ma anche una fusion involontaria e un po’ di blues tinteggiato di reggae, tutto il repertorio della formazione. Non a caso, dopo una litania registrata, lo spettacolo ha aperto le danze e interrotto la messianica ascetica attesa del pubblico con La terra dei cachi, quel simpaticissimo motivetto che nel covo ligure dell’ovvio, trent’anni fa circa, dette il passaporto a Elio e ai suoi amici, che ne fecero un uso più che sapiente. In totale completo bianco, con un fondo palco illuminato a Muro di Berlino il giorno del suo triste abbattimento, Elio e i suoi compagni di viaggio, quelli con i quali sponsorizza, alla loro maniera, certo, le vantaggiosissime offerte di un conto corrente bancario, si sono prodigati nell’esibizione dei loro pezzi più conosciuti, dal Vitello dai piedi di balsa fino a Servi della Gleba, una macedonia estratta dopo aver sapientemente frullato i dieci album della loro discografia. Irriverenti con gli stupidi come con i dotti, gli Amici di Elio hanno comunque regalato una serata alla loro insegna, quella che il loro pubblico desidera ricevere; un baratto perfettamente riuscito. Giovedì e venerdì, Piazza del Duomo, prima di concedere ad Antonello Venditti e ai suoi quarant'anni di notte prima degli esami, ospiterà, in ordine, Mario Biondi, Dee Dee Bridgewater, Matteo Mancuso e il gruppo di Mark Lettieri, che sono, nell’ordine, un raffinatissimo musicista siciliano emigrato in Scozia per essere conosciuto e riconosciuto poi da tutto il mondo, una delle ultime eredi della voce femminile del jazz, un giovanissimo chitarrista palermitano con due mani slegate che suonano, contemporaneamente, due cose diverse e una band di super contaminazioni. Di nessuno di loro ricordiamo a mente le canzoni e non saremmo neanche in grado di fischiettarne le arie, ma giovedì e venerdì, Piazza del Duomo somiglierà molto, moltissimo, la Piazza che ricordiamo, quella del 13, 14 e 15 luglio 1980.
PISTOIA. Fino a quando a prevalere, sul sound della formazione di Tucson, è stata la componente CALiforniana, il pubblico della Fortezza santa Barbara, in presenza massiccia ad aprire il sipario sulla 43esima edizione del Festival Blues, nonostante apprezzasse la musicalità del sestetto nordamericano, non si è voluto lasciar andare come concerti consigliano e registrano. Devono averlo capito anche Joey Burns e i suoi storici cinque colleghi, al di là di una scaletta preordinata, che per scaldare gli animi e i muscoli degli spettatori occorresse qualcos’altro; nulla di eccezionale, beninteso, ma qualcosa che fosse meno radiofonico e cinematografico e più direttamente legato alle sensazioni seduta stante. E allora, stop alle suonate folk, country, indie e d’autore e gas alla matrice del mEXICO, che non si può ascoltare restando seduti sulla propria seggiolina, ma è necessario, anzi, indispensabile, condividere con l’entusiasmo di quel genere musicale ballando senza ritegno alcuno. Gli ultimi venti minuti del concerto, infatti - oltre a far registrare un minimo di panico tra gli addetti alla sicurezza, subito dissolto dalla civiltà con la quale, il popolo danzante del Festival, ha voluto omaggiare i Calexico (nella foto dell’immarciscibile Fiorenzo Giovannelli) e i loro quasi trent’anni di carriera -, hanno messo sulla bilancia dei ne valeva la pena i maggiori decibel di gradimento. È iniziata così la nuova avventura della famiglia Tafuro, una dinastia tra le più longeve alla direzione artistica di un Festival così importante come quello di Pistoia. Qualche spettatore, frastornato dalle locandine, prima di addentrarsi nel giardino della Fortezza santa barbara, dove coesistono più veti di tutta Europa, ha chiesto, volendo sincerarsene, che fosse proprio lì, e non in piazza del Duomo, il concerto. E dopo due piccole esibizioni di una cantautrice e un terzetto, eccoli, in perfetta forma, snocciolare alcune delle canzoni che hanno lasciato maggiormente il segno rispetto ad altre, vagamente estratte dalle loro circa venti registrazioni in studio, quelle che li hanno poi consacrati e omaggiati con la targa di una delle formazioni indie rock più tentacolari. Con le categorie e le affiliazioni culturali non si va lontano quanto si vorrebbe; bisogna entrare nel cuore di chi ascolta, solleticare le piante dei piedi, produrre energia che necessita, insindacabilmente, di una reazione uguale e contraria ai benefici assunti. Occorre che gli spettatori restino incantati, vengano rapiti da un’entità anonima, non quella dei sequestri e godano nell’entrare in un’altra dimensione che non corrisponde a quella nella quale sono stati in attesa. I Calexico, nell’ultima mezz’ora scarsa del loro concerto, sono riusciti nell’impresa, non certo titanica, ma pur sempre considerevole, di imporre al loro pubblico una condivisione adrenalinica che ha prodotto gli effetti desiderati, tanto da chi stava sul palco, tanto da chi, sotto il palco, aspettava di ricevere quegl’impulsi. I primi tre quarti di concerto, dunque, non sono stati all’altezza? No, ci mancherebbe altro, ma prima dell’avvento messicano, gli spettatori non ha hanno sentito la benché minima esigenza di ringraziare calorosamente; si sono limitati ad applaudire al termine di ogni esibizione, seguendo, con modestia ginnica (un lieve oscillare delle teste), i rif della formazione statunitense/messicana, avvertendo, in più di un’occasione, arie che affratellavano i Calexico a una serie di altre esperienze musicali. Un po’ i Rem, un po’ C.S.N.Y, ma anche le meravigliose pellicole di Sergio Leone e le sue leggendarie colonne sonore. Bisognerebbe fare, subito, alcune considerazioni, ma preferiamo soprassedere e aspettare gli altri concerti, soprattutto perché se ci permettessimo di fare anche delle sole piccole, semplici e inoppugnabili obiezioni, il popolo dei detrattori (invecchiati, ma alcuni ancora vivi) si sentirebbe autorizzato a scagliare le prime pietre già dopo la prima serata.
QUARRATA (PT). È una Napoli che non esiste più, o che dovrebbe essere cancellata, per essere studiata, naturalmente, o che viene tenuta artificialmente in vita dall’ultima coda dell’invincibile camorrismo, che nemmeno Nino D’Angelo e Gigi D’Alessio, intonano più, quella cantata da Enzo Gragnaniello, artista neomelodico, ma arabeggiante, che ieri sera ha aperto, nel Prato dei Ciclamini della Villa Medicea La Magia, la terza edizione del Quarrata World Music Festival. La nota, deliziosa, l’han data i tre strumentisti che hanno accompagnato l’artista napoletano sul palco: la mandolina di Piero Gallo, il basso e il violoncello di Erasmo Petringa e la batteria e percussioni di Marco Caligiuri. Un concerto iniziato dieci minuti prima delle 22 e che ha visto snocciolare buona parte delle ultime canzoni scritte e arrangiate da Enzo Gragnaniello del suo album, L’ammore è ‘na rivluzione, con un piccolo intermezzo strumentale affidato al suono mediorientale di Piero Gallo e i tre doverosi tributi alle canzoni scritte per Mia Martini (una storia di degrado femminile), Mia Martini e Roberto Murolo (Cu’mmé), e Ornella Vanoni (Alberi). Una carriera costellata da prestigiosi riconoscimenti, quella del musicista/poeta Gragnaniello; quattro Targhe Tenco (1986, 1990, 1999 e 2019), sempre come miglior album in dialetto e altri attestati artistici, distribuiti lungo la sua carriera fino alle porte del terzo decennio del terzo millennio. Un portento napoletano, nato, cresciuto e artisticamente formatosi nei Quartieri Spagnoli, in un appartamento studio di registrazione dove partorisce tutte le sue creature musicali. Che non si è mai voluto e potuto sdoganare, però, finendo per essere un maestoso e magnifico esemplare esemplarmente e singolarmente partenopeo. Un concerto, quello alla Magia, che ha sottolineato il marchio, di indubbia, ma controversa fedeltà, che Enzo Gragnaniello ha dato a tutta la sua produzione; un concerto, quello della Magia, che il settantenne napoletano ha liquidato con l’esecuzione di una quindicina di brani senza accompagnarne uno con qualche vicissitudine quotidiana che facilitasse il pubblico in quel viaggio di immedesimazione che è il piatto forte di alcune esibizioni. Un cantore che non racconta, non spiega, non ricorda è un cantore che si può permettere quel lusso solo se il contenuto, musicale e affabulatorio, delle sue canzoni non abbia bisogno di alcun dettaglio per arrivare, diritto, al cuore degli spettatori. Gli spettatori infatti, non proprio numerosissimi, nonostante si sia e si fosse a cinquecento chilometri da via Toledo, erano, quasi tutti, napoletani trapiantati in Toscana, quasi tutti affetti, come la stragrande maggioranza degli emigrati, da quell’inguaribile e comprensibilissima nostalgia, quella che ti fa venire in mente gli odori e i colori della tua terra dalla quale hai deciso di allontanarti senza però avere la minima intenzione di farci ritorno. Negli scarsi novanta minuti di esibizione poi, Enzo Gragnaniello, voltandosi indietro, come ha fatto con Murolo e la Martini, avrebbe potuto omaggiare – e sarebbe stato particolarmente gradito – il suo più famoso compagno di classe delle scuole elementari Oberdan, Pino Daniele, musicista oggettivamente e insindacabilmente universale il quale non solo Napoli, ma tutto il Mondo, continuerà, instancabilmente, a ringraziare.
FIRENZE. Con un po’ di emozione, un filo di rabbia e tanta, tantissima, soddisfazione. I trent’anni di Gelosia li ha festeggiati così, ieri, a casa sua. Certo, quando si misero insieme e decisero che il funk non fosse appannaggio degli anglofoni e che potesse essere suonato e cantato anche in italiano, il Viper non esisteva ancora; alle Piagge, prima ancora che don Alessandro Santoro così la nomasse, il dominio musicale era solo e soltanto del Tenax. Ma a Firenze, negli intasatissimi anni ’90, i Dirotta su Cuba si imposero immediatamente. La voglia di ballare era altissima e quando Rossano Gentili, che ieri è salito sul palco, per il bis, i ringraziamenti, sulle note di quel brano che li catapultò ovunque, senza dirottamenti, scrisse Gelosia, la voce di Simona Bencini divenne immediatamente, improvvisamente e giustamente un’autorità musicale. Era il 1994; Simona aveva 25 anni e una voglia, indiscriminata, di spaccare tutto. Occorreva che qualcuno le desse la possibilità di farlo senza essere denunciata. Ci pensò la musica, ci pensarono Rossano Gentili e Stefano De Donato, piano e basso, a dare a quella meravigliosa creatura il microfono del funk. Fu subito un tutt’uno, così come consigliato da Lupo Alberto; fu subito Dirotta su Cuba. Trent’anni dopo, alle Piagge, dopo una lunghissima, immotivata e delittuosa assenza dai palcoscenici fiorentini, Simona Bencini e i suoi nuovi strumentisti (Emiliano Pari, voce e tastiere, Stefano Profazi, voce e chitarra, Vincenzo Profano, batteria, Patrizio Sacco, basso, Donato Sensini, sax e Luca Iaboni alla tromba; tutti romani, dunque, i nuovi Dirottasuccubba), che non hanno smarrito groove, definizione a origine controllata e voglia di saltare, si sono (ri)presentati alla loro gente a urlare che, nonostante di cose ne sian cambiate tante, da allora, la loro voglia, professionale, di cantare, è ancora intatta, vergine, esplosiva. E allora, alle 21,34, su quell’ex garage delle Piagge, al Viper, dove si mastica la musica per chi non ha paura di sbagliare, la parte strumentale dei Dirotta su Cuba è salita sul palco; un intro veloce, ma composta, per ricordare ai presenti che di funk, loro, non sono ancora sazi e per srotolare il tappeto rosso alla Regina di casa, Simona Bencini, in gonna glicine con lo spacco posteriore, anni ’40 e cappello con le tese, scarpe tacco dodici e pellicciotto sintetico fucsia. Fucsia è anche la camicia, trasparente e fucsia è il reggiseno. Solo gli occhiali non sono fucsia, ma è il modello Diane Schuur. Prima di iniziare a intonare Liberi, Simona si è presa un angolo di contemplabile nostalgia, ringraziando tutto e tutti, uno a uno, nomi e cognomi, quelli che trent’anni fa le permisero di dimostrare, a pieno regime, che la sua fosse una delle voci più belle in circolazione. Parecchi dei suoi ex colleghi erano in sala a ballare con il pubblico (molti altri no, ma solo perché inderogabilmente impegnati altrove: Riccardo Onori, Mario Biondi, Gegè Telesforo, i Neri per caso, Fabrizio Bosso), perché il funk è contagioso e non solo per chi lo ascolta. Dopo Legami e I silenzi, la splendida fiorentina si è liberata del pellicciotto, molto funk, ma troppo caldo, e ha continuato a inanellare le canzoni che nessuno ha potuto e voluto dimenticare: Macchia, Vivere con te, Dove sei, in un esemplare crescendo di discomusic per palati fini, di dance ad alti livelli; di funk allo stato puro, in parole povere, quello con cui si sono confrontati e riconosciuti i migliori musicisti globali, da George Benson a Prince, passando attraverso un nugolo sontuoso di eccellenti altri strumentisti e cantanti. Il pubblico fiorentino (ma non erano tutti indigeni, eh; abbiamo sentito emiliani, lombardi, romani e una comitiva di olandesi, ai quali hanno detto che i Dirotta su Cuba sono la traduzione letterale degli Incognito) ha tenuto a farlo sapere, alla sua Simona, di non averla mai dimenticata e di averla aspettata così tanto tempo. Lunghissima e snervante attesa ampiamente ripagata dall’esibizione della 55enne fiorentina in perfetto amalgama con la sua nuova band, che si è preoccupata soltanto di continuare a solcare quella traccia meravigliosa battezzata 35 anni prima, quando Simona Bencini non sapeva ancora che sarebbe di lì a poco diventata Simona Bencini. Ma È andata così e non avrebbe potuto essere altrimenti, soprattutto pensando a quell’edizione di Sanremo, in compagnia dell’armonica di Toots Thielemans, per passare, come uno sparo improvviso, da Bang, per poi omaggiare le origini del funk con l’unica esibizione della serata in inglese, Nothing!, per imboccare la gente fino all’epilogo, con l’interpretazione, belle come la prima volta, di Sensibilità, Notti d’estate e una rilettura, audace, ma rispettosa fino alla venerazione, di uno dei capolavori di Lucio Battisti, Sì, viaggiare. Chitarra, basso, tromba e sax al cielo, grazie di tutto, buonanotte. E Gelosia; non si festeggiano i trent’anni? Ma certo, è il bis e al piano, come settimo strumentista, c’è proprio lui, l’autore di quel motivo, Rossano Gentili, felice e stupito di ritrovare, esattamente nella stessa identica situazione, la piccola Simona, che nonostante, nel frattempo, sia diventata una donna, è riuscita a conservare l’energia adolescenziale di chi crede che i sogni si avverino. Arriva la torta, con le candeline che il pubblico, soffiando forte, spegne. Ora, il concerto, è finito davvero, ma omaggiando i Delirium e la loro Jasahel, sempre sulle note del funk, quelle rubata trentacinque anni fa in chissà quale aeroporto e portate fino a Cuba; anzi, Dirottate su Cuba.
PISTOIA. Dal cilindro di Gianni Boncompagni, che ha avuto il merito, con Renzo Arbore, di inventare la Radio (Alto gradimento è la scuola, eterna, delle modulazioni di frequenza) e quello, decisamente meno nobile, di essere uno dei responsabili della tivvù spazzatura, sono uscite tante starlette; Sabrina Impacciatore, ad esempio, che a teatro si è ritagliata il suo degno spazio. Ma anche Claudia Gerini, che il teatro farebbe meglio a frequentarlo da spettatrice. E invece, dopo tanti film di successo (al botteghino), quasi sempre al fianco di Carlo Verdone (la domanda nasce spontanea), ieri sera, al Teatro Manzoni di Pistoia, l’attrice romana si è voluta cimentare, con un meraviglioso corpo di strumentisti, i Solis String Quartet (Luigi Di Maio, Vincenzo Di Donna, Gerardo Morrone e Antonio Di Francia, viole, violini, violoncello, chitarra, in ordine sparso) in un pericolosissimo omaggio (solo da un punto di vista emotivo, caratteriale, culturale; strumentalmente la serata è stata esemplare) a Franco Califano, artista stratosferico che noi della (fallita) generazione dei puri abbiamo sempre maldestramente etichettato come uomo di destra, alla stregua di Lucio Battisti, costretti ad aspettare le loro morti per riuscire a goderne, tardi e con innumerevoli rimpianti, lo stratosferico patrimonio culturale. Ma al di là delle imperdonabili responsabilità ideologiche di noi gruppettari, sulle quali dovremmo interrogarci seriamente e capire perché ci si sia fatti pilotare così indegnamente sui gusti, le tendenze, glorificando nullità e crocifiggendo talenti, torniamo all'esibizione di Claudia Gerini. Che da romana purosangue, nei confronti della poetica irriverente, blasfema, popolare, borgatara, si potrebbe addirittura ipotizzare, pasoliniana, per certi aspetti, qualche vantaggio avrebbe dovuto e potuto sfruttarlo. E invece, con questi leggii che sono la mortificazione di alcune rappresentazioni, Claudia Gerini e la sua Qualche estate fa, non è mai riuscita a caricare le canzoni che ha interpretato con il giusto e dovuto pathos. Al paroliere di Tripoli, figlio delle campagne fasciste in terra d’Africa, occorre, indispensabilmente, riconoscere e tributare un’anarchia intellettuale che lo ha tenuto puntualmente lontano e fuori da ogni solida piattaforma commerciale, salvo poi venir glorificato dall’esibizione che alcuni suoi interpreti han dato delle sue canzoni, senza dimenticare quel modo di vivere del Jean Paul Belmondo denoantri che gli valse accuse calunniose, arresti e una vita trascorsa a inseguire la pulizia della fedina penale, pur senza dimenticare l'assidua compagnia di un esercito di donne fascinosissime e lo svago di fiumi di cocaina. Ieri sera, invece che assistere alla riesumazione della dignità artistica e giudiziaria del Califfo (un poeta maledetto, un artista infermale) si è avuta, in più di una circostanza, l’impressione che si celebrasse la carriera di un cantante qualsiasi, che ha avuto il merito di scrivere poesie meravigliose affidate alla voce di colleghi meno invischiati con la malavita di lui. Nulla di più. Nella scaletta, han trovato spazio Un tempo piccolo, Un’estate fa, Io non piango, Minuetto, La nevicata del ‘56, La musica è finita, Io m’embriaco, La mia libertà e, gran finale, prima di un immancabile bis, Tutto il resto è noia, canzoni catapultate nell’olimpo leggendario della musica popolare italiana grazie alle interpretazioni di voci debitamente celebrate che raccontano vite improbabili e border line di donne ricordate e finite solo nelle sue canzoni, ma in alcuna antologia femminile. Del suo dolore, del suo controcorrentismo, ostinato e incorruttibile, delle sue amicizie pericolose, scomode, ma fedeli, del suo incrollabile machismo (che oggi verrebbe bollato e censurato), della macchina di fango azionata a orologeria che ha voluto condannarlo (e non fu il solo; in quella maxi/invenzione giudiziaria cadde anche Enzo Tortora, salvo tarde assoluzioni con ancor più irritanti relative scuse) ai margini della società, prima ancora che della cultura, non si è mai sentito un friccico. Pensavamo che il richiamo a teatro di una notorietà cinematografica scatenasse la solita, plausibilissima, equazione del tutto esaurito. E invece, nonostante le nomine ai vari premi destinate ad attori e attrici sulla cresta dell’onda, Claudia Gerini non ha messo in moto la macchina del tutto esaurito. Quelli che c’erano, però, han gradito. E molto.
MONSUMMANO (PT). Si riferiva a uno spietato boss della Camorra, Marco D’Amore, regista e protagonista de L’Immortale. Ma visto che è di una zona limitrofa, Caserta, per l’esattezza, avrà pensato anche lui, sicuramente, titolando il suo film, che quell’aggettivo è forse il più adeguato e adattomparlando di Pino Daniele. E anche noi la pensiamo così, anche se la terra ai piedi del Vesuvio, di immortali, ne ha già partoriti più d’uno, negli ultimi cento anni: Totò, Eduardo e l’incommensurabile Troisi. Anzi. Di più, perché l’operazione musicale, sociale, politica e culturale effettuata da Pino Daniele soprattutto con la pubblicazione dei primi quattro album (Terra mia, 1977; Pino Daniele, 1979; Nero a metà, 1980 e Vai mo’, 1981), è di un’impressionante vastità poeticomusicale e di un’importanza cosmica, non solo per l’aria folkloristicamente tarantelleggiante del sound partenopeo prima del suo avvento. Vorremmo continuare a scrivere per ore, dell’uomo del blues; tutte le volte che lo facciamo, in cuor nostro, abbiamo il potere di resuscitarlo, nonostante la sua musica e i suoi testi difficilmente, un giorno, moriranno. Però, un pretesto per scrivere di Lui, oggi, lo abbiamo e dunque, lo facciamo risorgere. Grazie ad Andrea Gorza (basso), Meme Lucarelli (chitarra e voce) e Gennaro Scarpato (batteria, percussioni, kazoo, armonica, handpan, didjeridu, conchiglie e tutto ciò che possa emettere un suono, addomesticabile dalle sue mani), che ieri sera, al Teatro Yves Montand di Monsummano Terme, hanno dato vita a un meraviglioso ricordo del cantautore scomparso il 4 gennaio di nove anni fa, sì, ma solo pubblicamente, ufficiosamente: chi si avvicina alla musica, ai testi poetici da far vivere e convivere con le note, non può che passare al vaglio e considerare, tassonomicamente, la sua enciclopedia, come fanno, da sempre, i tre musicisti saliti sul palco. Durante l’esibizione di alcune canzoni, anche Siria Barsanti, modella e ballerina, terza non napoletana, come Andrea e Meme, ha voluto omaggiare il sontuoso menestrello; lo ha fatto ballando, con fisicità e trasporto, passione e amore. Sullo schermo che abbraccia i tre musicisti, alcune immagini di esibizioni di Pino; i vicoli napoletani, la gente e i colori di quella terra, Terra Sua (Mia), struggente poema generazionale, che è diventato un inno, una condanna, una speranza, scritto alla sola età di quindici anni, un momento adolescenziale che lo stesso autore ha considerato un manifesto esistenziale, punto elastico di arrivo e partenza, inizio e fine. La carrellata di alcuni suoi successi (farli tutti avrebbe voluto dire chiudere il sipario all’alba) è partita (dopo una puntualizzazione cronologica; 19 settembre 1981, concerto organizzato alla benmeglio a Napoli: il giorno della consacrazione) da Che te ne fotte, per arrivare, in una delicatissima serata di nostalgia creativa, fino a Yes I Know My Way, attraversando le varie epoche danieliane, con Je sto vicino a te, Notte che se ne va, Bella ‘mbriana, Je so pazzo, Chill’ è nu buone guaglione, Gente distratta, Chi tene ‘o mare, Anna verrà, Viente, E passerà, Quanno chiove, Nun me scuccià, Che male c’è, un medley di Terra Mia, O scarrafone, brani puntualmente supportati da immagini (da Anna Magnani a Massimo Troisi, passando per il poliedrico Beppe Lanzetta, musicista, pittore, scrittore, autore di quel capolavoro titolato Una vita post datata) alle spalle che hanno fatto da Cicerone alle sue poesie, fino all’immancabile bis, Napul’è, con un assolo alla chitarra di Meme Lucarelli in memoria di quel capolavoro, Quando, momento particolare della serata nel quale il chitarrista lucchese si è ricordato e ha ricordato a chi lo segue da tempo che uno dei suoi punti di riferimento, musicalmente, oltre a tutte le sei corde che hanno fatto la storia della musica, è anche, e soprattutto, Lee Reetenour. Poi, la serata, si è conclusa; in Teatro, solo in Teatro. Ognuno di noi, rincasando, oltre a ringraziare i tre sessionisti, che non si sono cimentati in quell’orribile operazione Tributo, ma hanno dato al pubblico quello che Pino ha regalato a loro, riproducendolo così come hanno saputo e potuto cibarsene, ha continuato a canticchiare, fischiettare e ricordare alcune sue poesie, concludendo che è proprio così: Pino Daniele è L’Immortale.
Chi si aspettava un altro incontenibile show dell’illusionista Arturo Brachetti, il mago dei due mondi, c’è rimasto un po’ male, forse. Pochi minuti, beninteso, perché anche se si è capito che in questa circostanza, al Teatro Manzoni (si replica stasera: meglio non perderlo) il trasformista si sarebbe limitato a fare il regista (coadiuvato da Luciano Cannito), il direttore del Circo, o meglio, l’ambiguo presentatore (Emcee) e non a lasciare il pubblico a bocca aperta con le sue magie, tutto il cast di Cabaret (di John Kander, Fred Ebb, Joe Masteroff) ha fatto ampiamente il proprio dovere, senza dare vita al minimo virtuale rammarico di ogni singolo spettatore. Una serata di Teatro nella quale è lo Spettacolo a prendersi tutto e tutti, mortificando, con sacrale rispetto, ogni altra forma attoriale e lasciando all’ingolfatissimo palcoscenico preso in ostaggio da persone, rumori, colori, luci, volteggi, piroette e musica dal vivo, soppalcata (Gian Marco Careddu, batteria; Roberto Rocchetti, pianoforte; Paolo Rocca, fiati e Ermanno Dodaro, contrabbasso), tutti gli spicchi degli applausi. Certo, la storia è tassonomicamente rispettata; siamo a Berlino, nel 1930 e il Nazismo inizia a prender corpo, forma, supremazia, nichilismo. Di raccontarvi il resto, due storie d’amore entrambe mortificate dalla follia hitleriana e dall’inutile cocciutissima personalità artistica di una qualsiasi intrattenitrice (straordinaria Diana Del Bufalo, nei panni di Sally), non crediamo valga la pena; di tesservi le lodi, sperticate, di tutti quelli che animano il musical, sì, con doveroso piacere. A cominciare proprio dal regista, quel secco impressionante che nonostante abbia superato da tempo i sessanta, continua a molleggiarsi come un ventenne, riuscendo a defilarsi dall’occhio di bue - per poi tornarci alla fine, come uno dei tanti ecce homo mandati a morire nell’orrore che è meglio non dimenticare - per far posto ai suoi coprotagonisti, che avvertono l’onore e l’onere di dare vita a un vorticoso intrecciarsi di balli e canti, con musiche, costumi e scenografia (Rinaldo Rinaldi, Maria Filippi e Giovanni Maria Lori) degne delle migliori occasioni in due storie d’amore senza tempo. Entrano ed escono, dalla scena roteante che trasforma il palco dalla camera migliore del modesto albergo di Berlino, che ospita artisti e mignotte, al night più lussurioso, fino a diventare la più importante frutteria della città tedesca, tutti i personaggi: Cristian Catto (Clifford Bradshaw), Christine Grimandi (Fräulein Schneider), Fabio Bussotti (Herr Schultz), Giulia Ercolessi (Fräulein Kost) e Niccolò Minonzio (Ernst Ludwig), supportati, nel piacevolissimo carosello, che è poi una meravigliosa maratona che ha lambito la mezzanotte, dal resto della compagnia, soprattutto danzante, (Francesco Cenderelli, Simone Centonze, Elisabetta Dugatto, Felice Lungo, Ivana Mannone, Stefano Monferrini, Gaia Salvati e Susanna Scroglieri) che sono tutti quelli che hanno ricevuto gli spettatori in sala in abiti succinti da bordelli europei degli anni ’20 e che hanno interagito con i protagonisti per l’intera rappresentazione, dando vita a esemplari corpi di ballo, nei quali tutte le signorine, nel bel mezzo del can can, si sono puntualmente toccate la punta del naso con il ginocchio della gamba sollevata al cielo. Eppoi, ci preme sottolineare la bellezza delle interpretazioni canore senza supporti informatici, la straordinaria confusione scenica che si è presa gioco di ogni forma di equilibrio fisico, la perfezione dei ritmi, l’afflato scenico su un palco che se fosse stato lungo e largo il doppio non sarebbe comunque bastato e la tenera, doverosa, indispensabile testimonianza a difesa di razze, credo, colori e orientamenti, in un periodo che ha tutta l’aria di essere perfidamente pericoloso.
di Adriana Casalegno
FIRENZE. Seduti, a luci spente, veniamo presi dalla musica di Schönberg. L' orchestra del Maggio esegue Verklärte Nacht (nella trascrizione per orchestra e archi), Daniele Gatti dirige. Siamo nella sala Zubin Meta del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino; l'acustica e la visibilità sono eccellenti. Ci immergiamo nei suoni. Siamo condotti nei fili più sottili del tessuto musicale. Ė la maestria dei grandi direttori: Gatti porge l'intero e, allo stesso tempo, dà vita a nota dopo nota, arco dopo arco. La musica comunica e accoglie le nostre emozioni lungo il racconto, dalla tensione iniziale alla serenità finale introdotta da una gioia inattesa. Il lavoro di Schönberg si ispira a una poesia di Richard Dehmel; leggendola riconosciamo le emozioni provate nell'ascolto della musica. La storia si apre in un freddo boschetto. Un uomo e una donna passeggiano; la luna, una luce celestiale, fa da guida sulle alte querce. La donna dice di avere un bimbo in grembo e non ė di chi le sta accanto. Non crede più nella felicità pur volendo essere madre. L'uomo che si sente da lei trasfigurato risponde che non dovrà essere sola, porterà il bimbo per lui. L'universo, tutto, scintilla, due persone con un solo respiro vanno nella notte luminosa.
La trasfigurazione ė il tema scelto da Daniele Gatti. Il concerto prosegue con Tod und Verklärung (morte e trasfigurazione) poema sinfonico op.24 di Richard Strauss. La partitura ha con una poesia di August Ritter un generico legame di atmosfere espressive che rappresentano la tragica lotta di un artista con la morte. Poi dal cielo giunge ciò che l'artista ha sempre cercato: la liberazione dal mondo, la sua trasfigurazione. Daniele Gatti dirige con abilità, con sensibilità, la musica fluente, complessa, densa di sorprese di Richard Strauss. Di nuovo, come dopo l'ascolto di Schönberg, sospesi, attendiamo la fine di ogni vibrazione prima di battere le mani. Lungamente. Chiude il concerto Vorspiel un Liebestod (Preludio e morte di Isotta) da Tristan und Isole di Richard Wagner. Due brani strumentali che stanno all'inizio e alla fine dell'opera e che lo stesso Wagner accostò per le esecuzioni in concerto. Due pagine rappresentative di tutta l'opera che conducono l'ascoltatore alle struggenti sensazioni di una passione totale. Attraverso la bacchetta di Daniele Gatti e l'esecuzione dell'orchestra del Maggio siamo pervasi dall'interpretazione straordinaria di questa musica profonda e carnale. Struggente il cromatismo del Preludio, forti e continue le ascese verso l'alto e, Nella morte di Isotta, la distensione nell'amore trasfigurato che potrà realizzarsi solo attraverso la morte. Ancora nel vortice di sensazioni comunicate, l'Auditorium si esprime in infiniti applausi per Gatti, per il primo violino, per l'orchestra tutta. Grati di aver toccato la Poesia attraverso la Musica, non perderemo i prossimi appuntamenti.
PISTOIA. I congedi dalla Storia si chiamano Addii; quelli dalla Leggenda, Arrivederci. Ma loro, i Manhattan Transfer, lo sanno di essere entrati, da tempo, nel novero esclusivo dell’eternità? Probabilmente sì, o forse no, perché non saprebbero di che farsene, probabilmente, di stare lì, nell’Olimpo della Musica, a poltrire. Nel dubbio, qualcuno deve aver suggerito loro che il titolo della loro ennesima, meravigliosa, tournée, fosse giusto chiamarsi The Big Farewell Tour; viste le età di ognuno, la fine delle esibizioni è indiscutibilmente prossima a verificarsi, ma un po’ per scaramanzia, possiamo immaginare, ma soprattutto perché il Mondo, fino a quando ne avranno in corpo, li vorrà ascoltare, loro non si fermano. Certo, da una decina d’anni, Tim Hauser, il tassista che ha creato la formazione, non c’è più e Janis Siegel, ieri sera, a Pistoia, al Teatro Manzoni, dove i quattro astronauti hanno fatto scalo, dopo i primi tre pezzi, quelli nei quali gli addetti ai lavori sono autorizzati a scattare fotografie, ha sollevato gli occhi all’insù e al loro straordinario compagno di viaggio ha voluto dedicare la serata. Che è stata, inutile dirlo e scriverlo, probabilmente, anche per chi, come noi, non ha deciso di caricarla di indelebili emozioni lontane, stratosferica. Le nostre emozioni lontane hanno una data, comunque: luglio 1985, Stadio Renato Curi, di Perugia, in una delle prime edizioni di Umbria Jazz. Sul palco allestito davanti la porta della curva Ovest, Tim Hauser, Janis Siegel, Alan Paul e Laurel Massé cantarono, senza mai stare fermi, ma ballando, per un’ora e cinque minuti, ininterrottamente. Alle loro spalle, però, non c’era, come ieri sera e come succede per questa tournée alla quale, orgogliosamente, possiamo dire e scrivere di esserci stati, una band, una formazione musicale, o una vera e propria orchestra, come la Medit Orchestra, diretta da Angelo Valori (una chitarra acustica, un contrabbasso/basso, una batteria, un pianoforte e una trentina di giovani musicisti, tra fiati, violini e percussioni); in quei tempi, i Manhattan Transfer si esibivano a cappella, senza il supporto musicale. (Ri)cantavano tutto quello che prima, poco prima e durante la loro ascesa nell’Olimpo, altre figure leggendarie avevano già scritto: Ella Fitzgerald, Count Basie e buona parte del jazz anni ’40, tanto che il nome della formazione, proprio a quel periodo e ricalcando il titolo del libro dello scrittore statunitense John Dos Passos, Manhattan Transfer, appunto, voleva ispirarsi. In quegli anni si permisero addirittura di profanare un tempio: Birdland, dei Water Report, pezzo, epico, strumentale scritto da Joe Zawinul, che con loro divenne un santuario della worldmusic cantato in vocalese. Con quel brano, trentotto anni fa, chiusero l’esibizione perugina e con quel brano, anche ieri sera, Janis Siegel, Alan Paul, Cheryl Bentyne e Trist Curles, questo il nuovo e ultimo quartetto dei Manhattan Transfer, si sarebbero voluti congedare da un Teatro Manzoni pieno e traboccante di riconoscente entusiasmo. Ma all’appello dei gradimenti, dei ricordi, delle invenzioni, mancavano ancora Chanson d’Amour e Soul Food To Go, altro brano che appartiene all’immaginario collettivo brasiliano e cosmico, quel Sina, di Djavan, che in Italia, grazie alla voce, all’anima e al corpo ancora liberi da persecuzioni e orpelli chirurgoplastici di Loredana Berté, divenne Jazz. Un’ora e mezzo di solfeggi, sovrapposizioni fonetiche, mostruosi controcanti, con le voci baritonali maschili a controbilanciare i si bemolle femminili, con reciproche infiltrazioni contaminanti canore, buone a sollevare all’infinito un suono, prima di farlo morire, e resuscitare, nel brano successivo. Quel quartetto elegante, sontuoso, nobile in tutte le sue sfaccettature, così grande e inarrivabile che si può permettere il lusso, proprio per rimanere tra tutti i mortali che non smetteranno mai di applaudirli, di continuare a giocare, con i loro diaframma e con il pubblico, regalando momenti di irraggiungibile piacere, accompagnati dalla musica che li supporta e li solleva, dopo cinquant’anni di concerti, nella loro ultima indescrivibile passeggiata verso l’Infinito.
PISTOIA. Ha ragione Lisa (Cantini): né prima, né dopo. Era esattamente questo il momento che l’Atp e il Funaro si trasfusionassero. Entrambi avevano bisogno l’un dell’altro: il secondo, della certezza e della solidità strutturale del primo; il primo, della linfa energetica e vitale del secondo. Solo così, ora, dopo la Pergola di Firenze e il Met di Prato, anche Pistoia, con la nuova Atp, entra, a pieno diritto, nell’area metropolitana artistica (di quella di superficie non ne parliamo, per carità). Questo opportuno, sacrosanto e ideale sodalizio, prima, avrebbe forse avuto tratti forzati e forzosi, quasi incestuosi; dopo, sarebbero stati intempestivi, come se si fosse dovuto correre ai ripari per non perdere treni e Fus. Solo così si capisce e si apprezza nella sua interezza La Via del Funaro, che ha il sapore di quella della Seta, soprattutto all’indomani della sua inaugurazione, con il concerto di Dimitri Grechi Espinoza, Gabrio Baldacci e Andrea Melani, al Funaro, in un’assemblea spontanea di intellettuali che hanno potuto assistere e godere (tanto) di Mali Blues, prodotto da un altro importante sodalizio, quello di Toscana Produzione Musica e Atp, della serie: mangiata una ciliegia, le altre, vengon da loro. Ma al di là di ogni doverosa considerazione culturale, sociale e strategica, ci corre l’obbligo, che assolviamo piacevolmente, di raccontarvi i novanta minuti scarsi dell’esibizione. Un crogiuolo di esperienze, contaminazioni, esperienze, tutte gravitanti attorno al fulcro del jazz, che vuol dire, letteralmente, non fare a meno di avvalersi della ritmica africana, delle sonorità della worldmusic e di tutto quello che da queste due premesse nasce e si sviluppa nel tempo musicale, il blues e il rock. Il concerto di ieri sera è stato, in buona sostanza, un omaggio, strapersonalizzato, seppur trino, a tutto il magma sonoro che i tre musicisti hanno incamerato e rielaborato come formazione, certo, ma anche e soprattutto rivisitando le loro singole esperienze. Che non possono certo non avere, nel contatto con la cultura tuareg e berbera (l'influsso di Bombino: ve lo ricordate a una delle tante edizioni del Festival Blues?), il centro nevralgico di questo studio, che è quello che ha prodotto, soprattutto nella fisiognomica del sax sovietico/labronico, una meravigliosa pastura internazionale, continentale. Il primo applauso, ieri sera, il pubblico del Funaro, lo ha potuto tributare solo dopo circa trenta minuti di esibizione, quando i tre strumentisti hanno finalmente interrotto il suono e raccolto il primo consenso. Fino ad allora, la ricerca della ritmica, del groove, delle sonorità confacenti alla serata dei tre specifici linguaggi hanno (ri)cercato attraverso un copione scritto, sì, ma che pareva all’incanto, il giusto alfabeto, che fosse quello grazie al quale gli spettatori potessero poi, nella loro intimità d’ascolto, comporre le frasi del loro dizionario e renderle traducibili anche da quelli apparentemente stranieri. Un concerto avvolgente, che a volte ha dato l’impressione di ispirarsi al Mercato Nero dei Weather Report, altre a La fine dei Doors, ma senza mai identificarsi pienamente in quello che pareva stesse per immergersi. Un’esibizione curatissima, nonostante i tre artefici, virtualmente, ognuno concentrato con il proprio strumento e le sue innumerevoli divagazioni sonore, pareva fossero attratti da lidi tra loro incompatibili, diretti altrove, in parole povere, ognuno con la propria mappa, senza dare spunti e riferimenti toponomastici al compagno di viaggio. Dimitri, in qualità di direttore d'orchestra, che sceglieva di lasciarsi guidare quando dalla chitarra, computerizzata e masterizzata, di Gabrio, quando dalla batteria di Andrea, dai tempi profondamente jazz. Sabato prossimo, 21 ottobre, la stessa identica triade sarà di nuovo in scena in una delle tante residenze dell’Atp, al Teatro Mascagni di Popiglio, per l’esattezza, su uno di quei versanti della Montagna pistoiese sui quali, almeno per ora, Maometto ha deciso di non andare.
CASALGUIDI (PT). L’impressione è che, se potesse, almeno in pubblico, durante i suoi concerti, Milano e Vincenzo e Settembre vorrebbe non eseguirle più. Certo, senza quelle due canzoni, se non avesse indovinato, all’epoca, decenni e decenni or sono, alla perfezione, quei testi e quelle musiche, la sua carriera, avrebbe forse avuto una parabola diversa. Chissà. Resta il fatto che Alberto Fortis, alla soglia dei settant’anni, non ha ancora smesso di credere in quel che fa e non solo perché, probabilmente, non potrebbe fare altro. E non basta osservare il suo abbigliamento, scintillante esattamente come negli anni ’70, quando si presentò e rapì subito il pubblico, né constatare, con non poca invidia, come il grasso e gli zuccheri, a lui, continuino a non produrre alcun effetto collaterale, come se invece che sessantotto anni ne avesse ancora venti. Al di là di ogni ragionevole considerazione sulla tenuta psicofisica del cantautore piemontese, dobbiamo scendere nei dettagli artistici e parlarvi del concerto che ieri sera, per il primo giorno della festa di Casalguidi, comune situato lungo la bisettrice che collega Pistoia con il versante occidentale di Firenze, ha tenuto nella piazza del paese, con gli spettatori, accorsi con moderazione, forse un po’ troppo distratti dal carosello di hamburger, fritti misti e birre che si sono continuati a succedere nelle immediate vicinanze. Ma Alberto Fortis, navigato professionista con alle spalle quarant’anni di musica e fedele alla sua linea morale che l’ha tenuto lontano, sempre e con leggera tenacia, dal gossip, dalle fastidiose invadenze nella sfera personale e da improbabili cavalcate sul dorso di cavalli stagionali, si è seduto al piano e con quella voce da profeta non ancora disilluso, ha snocciolato il suo repertorio, una discografia che, oggettivamente, manca l’appuntamento con i successi da un po’ troppi anni. Con lui, sul palco allestito nella piazza e accerchiato dall’esposizione di trattori, mezzi cingolati e bancarelle ricche di dolciumi che Fortis, probabilmente, non ha mai mangiato, vista la linea, la sua formazione, con i vocalismi di Mary Montesano, la batteria di Marco Porritiello, le tastiere di Luca Fraula, la chitarra di Giovanni Maggiore e il basso di Franco Cristaldi, una microbanda di professionisti ognuno dei quali vanta prestigiosi trascorsi in Conservatori e scuole jazz. Tra il pubblico, a parte quella fetta ondivaga di spettatori che hanno ondeggiato solo per il gusto di passeggiare nel paese in festa, quasi tutti canuti e verso i sessanta, attratti, senza scendere nelle singole specifiche passioni di ognuno di loro, proprio da quei due motivi dei quali abbiamo fatto cenno all’inizio e che sono, per il suo autore, sicuramente delizia, ma anche – e questo lo diciamo senza poterne avere alcuna certezza – forse anche croce, quei due legni posti tra loro perpendicolarmente che hanno segnato, indelebilmente e come un marchio forse troppo identificativo, la sua biografia musicale. Certo, ha anche scritto e suonato molto altro, al fianco di formazioni prestigiose come la Premiata Forneria Marconi, ad esempio, sempre, tra l’altro, privilegiando il gusto sonoro e proteggendo, con dignità, un diaframma parecchio particolare, che con il trascorrere dei decenni, quelli nei quali i cantanti sono nati alla stregua di funghi e conigli, si è rivelato quasi unico. Ma resta il dubbio che se sulla sua strada, Vincenzo Mecocci non gli avesse messo, inutilmente, i bastoni tra le ruote, Alberto Fortis, oggi, forse, sarebbe potuto essere un rispettabilissimo medico/chirurgo; in pensione.
PRATO. Alla sua età, solo Mick Jagger - e il resto delle pietre rotolanti – riescono a stare due ore e mezzo sul palco senza prender fiato nemmeno un attimo. Certo, la voce, almeno ieri sera, a Prato, in piazza del Duomo, disposta in modo tale (anche con le seggioline azzurre in platea) che in più di una circostanza ci ha dato l’impressione di essere a Pistoia, nell’omonimo catino musicale, non è stata quella che buona parte degli spettatori ricorda perfettamente, ma alla soglia degli ottantanni (lo scorso 23 luglio ne ha compiuti settantasette), certe sere non tutto fila liscio e tra difficoltà acustiche e refoli di aria condizionata non debitamente modulata durante le trasferte, può succedere. Il sangue, il coraggio, l’energia e il sound, in compenso, sono quelli di allora, sono gli stessi che accompagnano il cantastorie di Bagnoli da una vita e che per fortuna, continuano a tenergli compagnia. Edoardo Bennato e la sua BeBand sono, senza ombra di dubbio e senza alcuna ragionevole opinabile possibilità detrattrice, una delle cose più importanti del panorama musicale italiano di ogni tempo; passato, presente e futuro. Una vita al servizio della musica, del rock e del blues, della poesia, delle denunce, quelle che a cadenze fisse salgono, nette e chiare, dal golfo partenopeo da parte di alcuni indigeni che della loro Napoli non possono e non vogliono farne a meno, ma che, se potessero, ogni tanto, qualcosa, di quell’emisfero unico e irripetibile, cambierebbero. Per far capire agli spettatori come sarebbe andata la serata, il menestrello nato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale si è presentato sul palco, alle 21,21, da solo, con una delle sue tante t-shirt ultra campanilistiche (ieri sul petto, aveva stampato Nisida), con la sua chitarra e la sua armonica, esibendo, in fila, Dubbi non ne ho, Sono solo canzonette e Il gatto e la volpe, tre motivi, delle decine e decine, che hanno impreziosito la sua storia discografica e culturale. Ma Bennato vuole anche dire la sua formazione, indispensabile alla causa alla pari del protagonista e allora, per La torre di Babele, sono entrati in scena i suoi adorabili e impareggiabili scugnizzi: Gennaro Porcelli e Giuseppe Scarpato alle chitarre, la prima blues, la seconda rock, Arduino Lopez al basso, Raffaele Lopez al piano e Roberto Perrone alla batteria. Da quel momento in poi, la storia delle preghiere, dei proclami e delle indignazioni di Edoardo si è fatta, anche e soprattutto, storia del rockblues italiano, con la graditissima aggiunta di Gennaro Scarpato, salito sul palco sulle note di Mangiafuoco e rimasto lì, per dare ulteriore lustro alla pregevole ritmica dell’intera formazione, fino alla fine del concerto, intorno alla mezzanotte, con pubblico e strumentisti grati e stupiti dall’energia del paladino delle Crociate di Pinocchio. Attorno alla favola di Collodi, anche in questa circostanza, infatti, si è sviluppata la trama del racconto, con la riedizione di Mastro Geppetto (del falegname e di Lucignolo, ha detto il cantautore tra una canzone e l’altra, mi sono accorto, nel tempo, di non aver detto abbastanza, quasi nulla) intervallata dalle indimenticabili Quando sarai grande, Cantautore, A Napoli 55 è ‘a musica, canzone dove Gennaro Porcelli prima e Giuseppe Scarpato poi si sono messi all’anima di giocare, entrambi, con le proprie profonde conoscenze musicali, dando vita a due meravigliosi singoli propedeutici assoli, evidenziando l’anima blues e quella rock di David Gilmour, uno dei profeti dei Pink Floyd, prologo a Capitano Uncino, il manifesto rock con il quale si è chiuso il concerto. Prima, nonostante Bennato abbia deciso di rinunciare a esecuzioni di certo impatto emotivo e nostalgico (ci vengono in mente Venderò, Salviamo il salvabile, Non farti cadere le braccia, Viva la mamma, Un giorno credi e molte, troppe, altre), il sogno, al pubblico, l’ha concesso con l’interpretazione de L’isola che non c’è, una di quelle poesie che hanno accompagnato, fino alla stretta letale dell’oblio, le illusioni di un’intera generazione, quella che ha inseguito invano le indicazioni, un manifesto di occasioni perdute che ha suggerito ai numerosi spettatori di immortale quel ricordo e quel momento con l'accensione delle luci, cimiteriali visti gli sviluppi storici, politici, civili e sociali, degli accendini e dei telefonini: seconda stella a destra, questo è il cammino e poi dritto, fino al mattino. Poi la strada, la trovi, da te: porta all’isola che non c’è
QUARRATA (PT). Chi frequenta i Conservatori, i tributi, non sa nemmeno cosa siano. Per questo, al professor Dario Cecchini (sax baritono), direttore musicale del Ramsey Lewis Project, accompagnato da Tommaso Mannelli (sax tenore), Marcello Nesi (tromba), Francesco Onerati (trombone), Mauro Sarti (chitarra), Dario Lastrucci (basso), Diego Caroppo (batteria), Elia Ciuffini (percussioni) e dal suo collega docente del Conservatorio pugliese di Monopoli Michele Papadia (piano, tastiera e organo Hammond), l’elemento sul quale si è stuzzicata la fantasia rievocativa di uno degli astri minori (nonostante i tre Grammy) del panorama jazz cosmico, tutto sarebbe potuto venire in mente, ma non certo scimmiottare. E infatti, nella serata più illustre del settembre quarratino, quella svolta ieri sera in piazza Risorgimento con ingresso gratuito, i musicisti accademici elencati hanno dato vita a una meravigliosa rilettura di uno degli artisti più poliedrici, capace, sulle basi del jazz, di andare alla ricerca di tonalità e suggestioni tipiche del blues, del soul e del funk. Una band prestigiosa, impreziosita dalla maglietta della squadra (indossata da tutti, meno che dai due cattedrati), dai leggi sui quali, ognuno, ha religiosamente letto il proprio spartito e da quattro vocalist, cantanti, musiciste a pieni effetti e meriti, Giorgia Bardelli, Ilaria Orlandini, Claudia Salvini e Rebecca Sammartano, finalmente vestite e vestite una diversa dall’altra, con un pensiero tendente allo zero di stabilire contatti con il pubblico che non fossero di natura squisitamente artistici. Abbiamo scelto di privilegiare loro, per la foto della serata, perché sprovvisti di grandangolo dovevamo, necessariamente, sezionare e selezionare la macro immagine del palco e ci è parso carino, doveroso ed elegante dare la precedenza assoluta ai loro diaframmi, offerti e donati al pubblico con la grazia, la simpatia e la professionalità di chi da’ e chiede alla musica tutto quanto occorra per essere felici. Il repertorio, facile immaginare in virtù delle premesse, è stato un viaggio obliquo nel mondo strumentale del compositore statunitense, morto lo scorso 12 settembre, partito, giovanissimo, dal gospel delle chiese americane per la sfrenata passione paterna e arrivato a meravigliose eterogenee collaborazioni artistiche, quelle che l’hanno visto al fianco e ideatore di sound inimmaginabili.
BARDALONE (PT). Nacquero avanti e contromano; quando arrivarono allo scontro, inevitabile, con buona parte della musica tutta, quella affidata ai montoni di Panurgo (che oggi spopola), la deflagrazione fu assordante. Ci rimisero solo loro, naturalmente, gli Area, che in compenso, dopo mezzo secolo di depistaggi storici, politici e musicali e un oblio forzoso al quale sono stati costretti tutti, anche i sopravvissuti di quell’irriproducibile esperienza, si continuano a studiare. Lo fanno i fratelli reduci, con la solita meravigliosa attenzione, Patrizio e Stefano Fariselli (gli amici di Demetrio), al piano e al synth e ai fiati, che hanno ammaliato, nel loro meraviglioso progetto di apocrifa resurrezione, tre soggetti che avrebbero potuto tranquillamente essere artefici della prima edizione: Marco Micheli al basso, Walter Paoli alla batteria e Claudia Tellini alla voce (nella foto di Fiorenzo Giovannelli; in altura, non c’è flash che lo insidi). Lo sa bene Maurizio Geri, direttore artistico di Toscana Django Festival, che si veste Donald Fagen style, musicista e persona preziosa, uno dei protagonisti della prima serata, quella del debutto, al Palazzetto Pertini di Bardalone, sulla Montagna pistoiese, alla chitarra, come il collega Francesco Greppi, con Federico Zaltron al violino, Pippi Dimonte al contrabbasso e Marie Cristine Brambilla alla voce, per formare il quintetto omonimo al chitarrista Tchavolo Schmitt. Il palco è posto al centro del campo di basket dell’impianto sportivo; i due canestri sono equidistanti dall’opposta estremità del rettangolo rialzato a ospitare i musicisti. Su parte del parquet, enormi tappeti grigi, dove sono posizionate una dozzina di file di seggioline. Ma dalla tribuna, dove si sta scomodissimi, si vede e si sente meglio; una volta ogni tanto, agli ultimi, è andata bene. Il palazzetto, con ingiustificata e ingiustificabile lentezza, che stride con la velocità con la quale la montagna si spopola e lascia i pochi nostalgici rantolare nella solitudine, si riempie e alle 22, con temperature polari all’esterno, inizia il concerto. Due omaggi greci, poi, l’essenza della serata: Arbeit macht frei, che è l’agghiacciante motto posto all’ingresso di parecchi campi di concentramento nazista durante la seconda guerra mondiale, ma è anche il primo e indimenticabile album degli Area, che vollero, insindacabilmente, oltre a dare forza alla loro volontà artistico/musicale sperimentale, lanciare e lasciare un messaggio inequivocabile. Smettiamo di tornare indietro nel tempo e concentriamoci sull’esibizione di ieri sera: stratosferica, con la netta, nettissima, sensazione, di assistere a un concerto, offerto in un metaverso che ci auguriamo prenda il sopravvento, dei Weather Report, ad esempio, o a una reunion degli Steps Ahead. Il punto musicale più alto, qualora si riuscisse a individuarne di minori, è la reinterpretazione di 240 chilometri da Smirne, che si associa, per bellezza, difficoltà e siderale anticipazione strumentale, al duetto basso/batteria, intonato e innalzato a enne potenza dalla meticolosa bravura dei due protagonisti, Micheli e Paoli, artefici di un dono di rara bellezza. Ma tra il pubblico, a parte, seppur molto alto, un moccioso accompagnato da una mamma da appalusi, i presenti, con la musica degli Area e con i loro sogni, tutti infranti, ci sono cresciuti tutti e le riletture, oggettivamente straordinarie, senza la minima intenzione di ricalcare orme indelebili, ma invisibili, proposte dai protagonisti, han trovato terra e cuori fertili, piacevolmente disposti a questo adorabile ricordo. Il compito più arduo, naturalmente, è toccato a quell’essere meraviglioso che risponde al nome di Claudia Tellini, che non si è minimamente permessa di voler entrare in sintonia con Demetrio Stratos, ma non solo perché dalla sua morte siano già passati quarantaquattro anni, ma soprattutto perché imitarlo non avrebbe avuto alcun senso. E poi, con quella personalità e con quella voce, non ha certo bisogno di riferimenti: è lei, il suo riferimento e ascoltarla e vederla continua a essere un lusso particolarmente gradito. Attorno a Maurizio Geri e altri personaggi delle alture tosco/emiliane andrebbero costruiti alcuni progetti seri, altrimenti, a parte Maometto, solo l'approssimarsi della fine del mondo potrebbe rendere alle pendici appenniniche il loro giusto onore.
PISTOIA. Stavolta, l’accredito, non occorre. A Serravalle Rock non c’è biglietto; l’ingresso è gratuito. Un motivo in più, per l’organizzazione, sarebbe ottimizzare l’occasione, ma nel piazzale attiguo al giardino del concerto, due, tre stand, con birra monomarca e poche altre cianfrusaglie commestibili. Va bene lo stesso, abbiamo già cenato frugalmente a casa Bugiani, che oltre a saper fare bene un sacco di cose, cucinare lo fa divinamente. Le condizioni climatiche, come al solito, sono ideali; a Serravalle pistoiese, anche se nella vallata balla la vecchia, a una cert’ora ci vuole la maglia. Ai piedi del palco un nugolo di fotografi, più o meno professionali; l’occasione è ghiotta, perché l’inesistenza della sicurezza consente a chiunque di avvicinarsi oltre ogni ragionevole discrezione agli artisti. Controllando bene, inoltre, constatiamo che siano più i fotografi o aspiranti tali, che il resto degli spettatori lì solo per il puro gusto di ascoltare della musica. Che strano; la teoria che le cose belle e preziose debbano avere un prezzo e che più è salato e più il prodotto meriti, resta un tabù difficile da sfatatre. Bloodstone, l’album costruito in piena pandemia a Bruxelles e che sta portando in giro per la tournée, ce l’ha regalato proprio lui, Thomas Frank Hopper, che abbiamo avvicinato subito dopo l’esibizione, per complimentarci e per assicurargli che il giorno seguente (ora) gli avremmo inviato la recensione. Il cappello è fatto: veniamo al concerto: bello, semplice, sporco, ricco, impreziosito dalla profondità della sua voce, ficcante, lunga, senza compromessi. Il Blues con il quale papà Hopper ha fatto crescere, in SudAfrica, a suon di B. B. King, Muddy Waters e Jeff Healey (tutti visti a Pistoia, nei Festival Blues dal 1980 in poi; non lo scordiamo, è il caso) il suo piccolo predestinato, vena ogni nota, nonostante Thomas sostenga che il suo cuore palpiti rock and roll, Verissimo: Ben Harper e Lenny Kravitz, figli naturali e legittimi dei Led Zeppelin e dei Doors, sono e rappresentano la nuova frontiera del rockblues, ma anche per loro – e non sappiamo se siano stati i rispettivi padri, a inondarli di passione -, vale la stessa regola, quella di aver ascoltato, fino alla nausea, B. B. King e Muddy Waters! Sul palco pistoiese di Serravalle Rock, come su quello trevigiano di Monastier e quello padovano di Correzzola, dove si è esibito nei due giorni precedenti, TFH (iniziamo a fomentare la sua bravura; le sigle fanno sempre effetto) non si è portato dietro tutta la band della sua nuova incisione (Jacob Miller al basso e Nicolas Scalliet alla batteria), ma solo la chitarra peruviana di Diego Higueras, con il quale ha allegramente e professionalmente duettato tutta la sera. Girare il mondo in largo e in lungo gli ha anche suggerito, oltre che farsi artisticamente contaminare a qualsiasi latitudine, di scartare il meno possibile. Ecco perché Thomas Verbruggen (stavolta ne trascriviamo correttamente i dati anagrafici, senza pseudonimi, né acrostici), alcune sue lapsteeel le ha ricavate riutilizzando surf e skate suonandole, come altrimenti non sarebbe possibile, appoggiandosele sulle gambe, è forse il migliore, toccante e più onorevole tributo che possa fare a Jeff Healey, il chitarrista canadese non vedente morto ormai da quindici anni; la musica è tutto quello che ci portiamo dentro fino al momento in cui partoriamo un brano e da quel momento in poi, quel motivo, sarà genitore di altre sensazioni, nuova musica, fino a diventare, nel brevissimo, o eterno, spazio di tempo, altra memoria. Prima di metterci alla scrivania a scrivere, ci siamo ascoltati, con attenzione, il dono (graditissimo) fattoci la sera precedente (anche il suo biglietto da visita e un simpatico adesivo circolare che fumetta la sua band) e siamo arrivati alla conclusione, a nostro avviso il miglior complimento che si possa fare a un musicista, che dal vivo sia meglio che in sala di registrazione. L’augurio, una volta che qualcuno tradurrà e leggerà a Thomas il nostro racconto, è che a destinazione giungano, intatte e inalterate, le nostre emozioni, perché ci dispiacerebbe parecchio se non sapesse fino in fondo quanto ci sia piaciuto, il suo concerto.
di Ilaria Fontana
PISA. Un’autentica ventata di freschezza, in questa estate di turbolenta calura, potevano generarla solo Frida Bollani Magoni e i suoi amici. Grazie a Pisa Jazz a cura di Associazione Ex Wide con la direzione artistica di Francesco Mariotti, sabato sera al Giardino Scotto di Pisa, in occasione dell’ultimo spettacolo di Pisa Jazz Rebirth abbiamo potuto goderci l’intima ed energica esibizione di un’artista che, a dispetto della giovanissima età, può gridare al mondo, non mancandole la voce, il suo talento, la padronanza del palco, la perfetta capacità tecnica e l’attitudine ad accogliere intorno a sé l’affetto del pubblico e degli artisti che non hanno esitato a rispondere al suo invito. Perché la musica è una calamita naturale, ma non esiste attrazione senza campo magnetico, quello che ha saputo e sa creare un artista del calibro di Frida che, con brio sbarazzino, ha invitato sul palco sette artisti pronti a sostenere il progetto di vEyes, la onlus che raccoglie fondi che serviranno ad acquistare strumenti musicali e sviluppare nuove tecnologie in grado di aiutare musicisti ipovedenti e non vedenti e che è stata destinataria del ricavato dello spettacolo. E il pubblico non si è sottratto a questo invito! Dopo avere salutato il pubblico con un brano eseguito al pianoforte e una canzone dedicata a tutti i presenti, Frida ha invitato sul palco, uno dopo l’altro, i suoi amici musicisti, alternando duetti a esibizioni soliste tratte da musical e dal suo cd. E così il concerto è entrato nel vivo con la giovanissima cantante Elena Spinetti che prima si è esibita con Donna, canzone scritta da Enzo Gragnaniello ed elevata al cielo dall’interpretazione di Mia Martini, per poi lanciarsi, insieme alla protagonista dello spettacolo, in un magnifico duetto jazzblues. Chi non conosceva Elena Spinetti non ha potuto non sobbalzare ascoltando la sua splendida voce e percepire l’amore che nutre per la musica. Babbo Ferruccio Spinetti, famoso contrabbassista e compositore, sicuramente se la rideva, orgoglioso, sotto i baffi, dietro le quinte. A seguire, senza soluzione di continuità, si sono alternati tutti gli altri cantanti, sprigionando l’energia che ogni spettatore desiderava. È stato quindi il turno dell’eccezionale Arimatea, musicista milanese dal cuore gonfio di soul, di R&B e gospel che ha regalato a Pisa anche il brano inedito True Voice. È poi planata al Giardino Scotto, direttamente da Vienna, la techno pop del trio dream pop Lucy Dreams, formato da David Reiterer, Philipp Prueckl e da Lucy, una luminosissima sfera di cristallo, anima del gruppo e sistema d’intelligenza artificiale capace di creare effetti digitali e analogici sviluppato per la produzione musicale di questo sorprendente gruppo che, con i suoi brani, intende sensibilizzare il pubblico a un futuro sostenibile e rispettoso dell’ambiente. Il chitarrista Albert Eno, già voce dei Kismet, qui nelle vesti di solista, oltre a regalare un paio di cover di canzoni dei Nirvana, ha interpretato brani del suo nuovo album Dark ‘n’ Stormy. E che dire dei Cubirossi, gruppo dalle influenze Trap, Alternative Rock, Metal e Dark Pop? La Frontman Marina Giusti e i fratelli Leoncini, Gianluca e Alessandro, hanno letteralmente divorato il palco, sfoderando l’entusiasmo e la capacità di gestire la scena come solo gli artisti sanno fare. Frida, lo sanno tutti, è cresciuta mangiando pane e musica, ce lo racconta il suo cognome; non è un’esagerazione affermare che ha investito e moltiplicato, grazie al suo talento naturale e alla dedizione, i doni ricevuti dai genitori Petra Magoni e Stefano Bollani, musicisti che non hanno bisogno di presentazioni: è sufficiente digitare il suo nome su google per sapere quanti riconoscimenti ha ricevuto - basti menzionare, tra i tanti, l’emozionante esibizione al Quirinale di fronte al Presidente della Repubblica in occasione delle celebrazioni del 2 giugno – e a quanti concerti è stata protagonista, anche come ospite a sorpresa dei propri genitori. La famiglia Bollani-Magoni è una morbida e avvolgente coperta e Manuela Bollani, l’esuberante CantAuttrice Umoristica (come ella stessa si definisce) nonché zia di Frida, non ha esitato a salire sul palco al fianco di sua nipote per interpretare, come solo lei sa fare, Betty Hutton e Bjork e infine salutarci con We Are Family delle Sister Sledge. Infine, ci siamo potuti deliziare con il rap italiano fatto bene, quello colto e politico, quello di Francesco Di Gesù, in arte Frankie Hi-Nrg, quello che il pubblico canta con trasporto perché Quelli che benpensano non si può non conoscere e non cantare. La rassegna 2023 del Pisa Jazz Rebirth, che ha visto sfilare grandi nomi di artisti italiani e internazionali, si è chiusa con l’abbraccio dei musicisti intervenuti che, insieme a Petra Magoni e a Ferruccio Spinetti, hanno omaggiato l’immensa Frida cantando Alleluja.
PORRETTA (BO). Le lacrime, vere, poco prima di congedarsi dal pubblico del Parco Rufus Thomas di Porretta, nascondono, pochissimo, gli anni duri della gavetta, delle porte chiuse in faccia, delle promesse non mantenute, ma anche la forza della sua meravigliosa ostinazione. È una femmina esplosiva, Daria Biancardi (foto di Fiorenzo Giovannelli), in carne e in voce, in diaframma e in anima, con la coda dei capelli che le corre lungo la schiena e che le copre un tatuaggio verticale disegnatole lungo la spina dorsale. È bianca bianca, siciliana, ma ha gli acuti della migliore tradizione delle nere e più canta e più ha voglia e voce e forza di cantare. Porretta è una delle sue location ideali, perché Porretta, nei quattro giorni del Festival Soul – e siamo alla 35esima edizione -, è la location ideale per tutta la gente di pace e musica, amore e voce. Abbiamo qualche difficoltà a tessere ancora le lodi dell’evento, della perfetta commistione con la città tutta, dall’Amministrazione alle forze dell’ordine, passando per i commercianti, gli indigeni, le strade e i profumi; lo facciamo da quando Graziano Uliani, che prima di esserne il Direttore artistico è l’ostinato creatore dell’evento, ha capito, deciso e voluto che in quel fazzoletto dell’Appennino tosco-emiliano ci sarebbe stata la possibilità che una costola di Memphis, a luglio, si dislocasse a casa sua, e non come condizione coatta di confino, ma per la voglia di raccontare le voci e le gesta di là dall’Oceano Atlantico, che con i filtri dell’informazione e gli interessi di mercato, arrivano spesso deformate, imbalsamate, anche senza il ricorso alla chirurgia plastica. In questi trentacinque anni, noi ospiti tanto graditi quanto privilegiati, abbiamo raccontato una montagna, per nulla ostica da scalare, di una serie indefinibile di storie, aneddoti, credenze, leggende, alchimie stregone, benedizioni atmosferiche e una voglia, sconfinata, di stare bene e di far star bene chi decide di albergarci, anche solo per qualche ora. La musica, sontuosa dalla prima edizione e per nulla stanca o esaurita fino a chiederne il trionfale epilogo, diventa, paradossalmente, un dettaglio, importante e funzionale come tutto quello che le ruota attorno, in quelle agognate e insostituibili novantasei ore. E nessuno, tra il pubblico, giovialmente ordinato e per nulla incattivito da una società in caduta libera, gli addetti ai lavori e i giornalisti/fotografi accolti come manna dal cielo, si è mai permesso il lusso di fare anche delle semplici insinuazioni sull’autenticità del Soul. Che è uno stile ben definito della Musica, ma che in nome e in onore di chi ne ha scritto e cantato le prime note, non si è mai permesso il lusso di rivendicarne la paternità, accogliendo, fino a esaurimento posti, che sono infiniti, ogni contaminazione. E in quel meraviglioso andirivieni tra back stage e palco, con Rick Hutton a fare da vigile e intrattenitore, presentatore e istigatore di bis, con l’ormai rituale one more time, ieri sera, nella seconda serata di questa nuova edizione, la scena, le emozioni, la luce se le son prese Daria Biancardi, accompagnata, nel suo excursus artistico, da Fabio Ziveri alle tastiere, Gianluca Schiavon (un Sylvester Stallone in miniatura, ma animato dalla stessa identica energia) alla batteria, Pier Martinetti alla chitarra, Paolo Carboni al trombone, Andrea Scorzoni al sax, Giancarlo Ferrari al basso e Franco Venturi alla tromba (un elenco di dati anagrafici e strumentali che senza il supporto di Palma Tossani non avremmo mai snocciolato e abbinato correttamente), scalza, ma con il cuore e il diaframma ben coperti e in grado di offrire, al pubblico che ha rumorosamente ringraziato, tutto quello che le è successo prima che il successo non le facesse rimpiangere di averci continuato a credere. Una voce mitteleuropea, nitida, acuta e poderosa, elegantemente invadente, che non teme inavvicinabili rivali accostamenti, ma che non perde l’umiltà di fornire la propria angolazione di come, dalla Sicilia, possa giungere, a Porretta e ovunque, il suo canto libero. Il meglio, a questa edizione del Festival, c’è già stato, la prima sera, quella dell’esordio, con quell’animale impressionante di MonoNeon; ah no, giusto: il meglio c’è stato subito dopo Daria Biancardi, con l’esibizione di Bobby Rush; che sbadati: il meglio arriva stasera, sabato, con i The Blues Paddlers. E domenica, per la quarta e ultima serata, non è domenica che ci sarà il meglio, con Katrina Anderson? A Porretta il meglio è di casa: c’è stato, c’è e ci sarà.
PISTOIA. Non basta conoscere semplicemente la musica. Né, come ieri sera, poterne valutare tutte le sfumature jazz, per apprezzarlo fino in fondo. Ma pur capendo decisamente meno di tutto quello che han voluto dire e detto, il concerto alla Fortezza Santa Barbara del cartellone estivo pistoiese Spazi Aperti affidato alle tastiere panamensi di Danilo Pérez, al basso e contrabbasso dell’italo americano di Brooklyn John Patitucci e al newyorkese Adam Cruz alla batteria è stato un incredibile, sontuoso, dotto e caldissimo saggio musicale, offerto, nella sua inavvicinabile magnificenza, tra l’altro, da tre professori che prima, durante e dopo l’esibizione si sono fermati a scambiare, amorevolmente e senza alcun dovere scenico e palcoscenico, due chiacchiere con chiunque ne avesse voglia. È la grandezza straripante di chi possiede le chiavi di violino per aprire, praticamente, ogni strumento, dal ristorante/pizzeria dove si sono rifocillati prima di esibirsi, fino agli autografi distribuiti, dopo il secondo e ultimo bis (anche loro, come fece Caetano Veloso tanti anni fa in piazza del Duomo, affidando l’epilogo del concerto alla rilettura di Estate, di Jimmy Fontana, cantante, visto i nobilissimi tributi, che non sapemmo apprezzare a dovere, forse), al pubblico che desiderava complimentarsi con loro, ringraziarli per la magnifica offerta musicale e condividere, con loro, la gioia di far parte, seppur come semplici spettatori, del loro progetto. Una lezione e trino di jazz, nel segno dei loro rispettivi trascorsi artistici e variegati background, quelli che negli ultimi trentacinque anni di musica li hanno avvicinati e fatti diventare collaboratori assidui e insostituibili di alcuni monumenti strumentali mondiali. Al fianco di Chick Corea, Wayne Shorter, Pat Metheny, Stan Getz, Herbie Hancock e una lista innumerevole di altre divinità che rappresentano, ognuno al proprio strumento, gli Harlem Globe Trotters della musica, il trio Pérez è quanto di bello, profondissimo e tenero si possa lontanamente immaginare. Con i soliti interminabili prologhi, fraseggi balbuzienti dei quali non si riesce a percepire, immediatamente, la grandezza e lo spessore dell’intera partitura, che improvvisamente planano e si uniscono, in un solo meraviglioso tripudio, nell’estasi della musica più dotta e colta, quella che non arriva direttamente ai sensi, favorendone l’ondeggio, la danza o il classico movimento ritmato del corpo, ma con quell’attimo non di ritardo, ma di comprensione, che non ti permette, onde evitare di andare fuori tempo, di unirti, integralmente, al suono, obbligandoti ad ascoltarlo come se ogni rigo fosse il primo e/o l’ultimo del brano. Vestiti con capi acquistati da H&M, probabilmente, senza un tatuaggio, lontano anni luce da qualsiasi vezzo modaiolo, di questi come di altri tempi, Pérez, Patitucci e Cruz hanno dato vita a un’esibizione nella quale si sono immersi, immediatamente, con tutto il corpo, tra i flutti, sconfinati, delle loro oceaniche conoscenze, senza però dare mai l’impressione che chi era lì per sforzarsi di arrivare dove loro avrebbero desiderato giungessero, non fosse poi in grado di farlo. Seguendo, pedissequamente, gli spartiti, che nonostante se ne cibino da tempo memorabile, non hanno mai abbandonato con lo sguardo per un attimo, per il rispetto che portano ai loro sforzi e ai rigori, indiscutibili, della musica, anche del free jazz, che parrebbe lasciare carta bianca ai suoi interpreti. Con la leggerezza e la consapevolezza dell’onniscienza sistematicamente minata dalla paura, figlia di un’esperienza che potrebbe addirittura consentire voli bendati, di sbagliare, perché la musica – e loro tre lo san bene – non perdona. Un’ora e mezzo di scale impossibili, richiami ai primordi del jazzrock, quello importato dai Weather Report e dai loro maestri: Joe Zawinul, Jaco Patorius e Alex Acuna. Per piacevole dovere di cronaca segnaliamo che l’erba del giardino interno della Fortezza è stata finalmente tagliata. Grazie.
PISTOIA. In questo specifico periodo storico dove la memoria soffre, con chirurgica defezione, di lapsus e vuoti preoccupanti, è assolutamente necessario chiedere aiuto ai (pochi) saggi che hanno preceduto la contemporanea attualità. Uno di questi è, senza alcun dubbio, Fabrizio De André (che se fosse stato americano sarebbe stato immortalato), che non ha fortunatamente lasciato un fardello pesantissimo solo alla musica e alla musica d’autore, ma alla civiltà tutta. Qualcuno ancora non del tutto risucchiato e cloroformizzato c’è, visto che la Fortezza Santa Barbara, ieri, preziosa culla estiva dell’Atp, per questa rivisitazione storico/musicale dell’intellettuale genovese, ha registrato un confortante tutto esaurito. E non è successo solo per la sontuosa correttissima rilettura strumentale di alcuni suoi successi, ma perché De André, come Pier Paolo Pasolini, tanto per spiegare cosa si pensi della sua biografia, è un autore senza tempo alcuno e che, sistematicamente, occorre sovente mettersi a rileggere, riascoltare, rimeditare. Certo, il più e il meglio, ieri sera, l’hanno offerto Carlo Costa alla voce, Massimiliano Salani synth, minimoog e voce, Felicity Lucchesi tastiere, minimoog e voce, Emmanuele Modestino chitarra acustica, nylon, bouzouki e voce, Giacomo Dell’Immagine alla chitarra elettrica, chitarra acustica, berimbeau, guitarlele, Luca Santangeli al basso e voce, Eanda Lutaj al flauto, ocarina e voce e il giovanissimo, ma didatticamente impeccabile, Alessandro Matteucci alla batteria, ma restano, anche senza sonoro, le parole dei suoi testi scolpite nella memoria, come effetto rimembrante, ma poi come compagnia impegnativa, pesa, spesso sgradita, ma indispensabile, della vita di tutti i giorni. La serata, infatti, non è stata, perché non voleva essere, un solo evento musicale; alle spalle della fornita e sapiente band, su un mega schermo che si è preso tutto lo spazio disponibile del palco, durante le ballate sono scorse alcune immagini del lasso di tempo nel quale Fabrizio De André ha lasciato, a noi ascoltatori e artefici inerti, ma non inermi, tutte le sue poesie, iniziate a incidere nel 1966, quando 26enne si prese la scena con La guerra di Piero (che la band non ha eseguito), tanto per fare un esempio, fino alle soglie del 2.000, con La domenica delle salme, quando una malattia lo strappò alla vita e all’arte. Nel mezzo, in un’Italia corrotta, clericizzata, bigotta, violenta, massona, deviata, i suoi quattordici album registrati e una montagna, difficilissima da scalare, di sentenze, verdetti, necrologi, ammonimenti, epitaffi, previsioni, chiaroveggenze, i suoi meravigliosi successi. Punta di diamante di quella scuola genovese di cui Faber (ribattezzato così dall’amico Paolo Villaggio, altro sconsacrato del tempo, che è purtroppo finito, prima di morire, nel tritacarne del cinema spazzatura) è stato prima ballerina assoluta (non ce ne vogliano Tenco e Paoli), dal suo avvento sulla scena artistica sono cambiate molte cose con la musica, con i testi e con i suoi destinatari, il pubblico. Marinella, Via del Campo, Storia di un impiegato, Don Raffaè, questi alcuni brani eseguiti dalla formazione affidata al diaframma di Carlo Costa, sardo senza alcuna omissione idiomatica, seduto nello stesso identico modo del suo padre spirituale, con simili tonalità foniche, a volte, ma inevitabilmente sprovvisto della sua anima, con lo sfondo occupato dalle foto e da alcune immagini storiche dei grandi dittatori che stringono le mani ai loro complici, tutti assolti, ma tutti coinvolti. Con l’eccezione di una solida (perché non liquida) coppia di giovani posseduti dalle commoventi e fastidiose frenesie epidermico/erotiche, tutto il pubblico, che si aspettava l’interpretazione di alcune canzoni che appartengono all’immaginario collettivo globale, ha comunque intellettualmente ed emotivamente gradito, facendo un poderoso strappo alla regola; rincasare dopo la mezzanotte di un lunedì qualsiasi. Ah, già, ci preme scriverlo: ieri sera, a differenza di quella di alcune sere fa, poco lontano da lì, dove hanno subito il rigoroso veto dell'irlandese, di fotografi al seguito, che sarebbero stati graditissimi, nemmeno l'ombra, come ci pare doveroso segnalare come alla Fortezza, per la sfortuna di noi stupidi tabagisti, è osservato l'intransigente divieto di fumare. E noi, a spippare, andiamo pure sul ponte levatoio in legno esterno al quadrilatero ecologista, ma voi, l’erba del giardino, tagliatela, che diamine!
PISTOIA. Peccato, veramente peccato, perché il concerto di Damien Rice, che ha chiuso la 42esima edizione del Festival Blues, meriterebbe ben altra emozione, anche solo per riempire questa nuova piccola pagina del diario di questo piccolo Blog. Il condizionale è d’obbligo, perché la cronaca ha la precedenza assoluta e non si può, in alcun modo, soprassedere all’atteggiamento, oggettivamente irritante, dello straordinario 50enne cantautore irlandese che per salire sul palco e dare vita alla sua stratosferica esibizione abbia preteso (e il dramma è che sia stato accontentato) che in piazza (del Duomo) ci fosse buio assoluto; spente tutte le luci, salvando le quattro fioche delle vie d’uscita in caso di pericolo, comprese quelle delle due postazioni fisse di venditori ambulanti, che hanno, adeguandosi, chiuso del tutto i loro esercizi mobili; via tutti i fotografi, tutti: le foto, professionali – ha fatto sapere – (come se da alcuni telefonini, accesi per tutta l'intera esibizione, se ne facessero di meno sofisticate), si sono potute scattare solo negli ultimi tre brani, ma dalla parte diametralmente opposta a quella del palco, illuminato a cimitero. Damien, come chiunque altro, del resto, anche chi non ha la tua voce meravigliosa e non fraseggia musica con tanta intima sofisticazione, quando chiama i suoi amici a casa può fare esattamente quello che vuole. A casa sua. In piazza, del Duomo o in un qualsiasi altro posto, però, quando sei invitato a esibirti e per vederti la gente paga un biglietto e la stampa (soprattutto quella fotografica, da Fiorenzo Giovannelli, autore di tutti gli scatti andati in onda per questo Festival fino a tutti gli altri, lì per lavorare) ha il compito di raccontare le tue gesta artistiche, caro Damien, le tue paturnie, che a noi, tra l’altro, anziché essere figlie di psicopatie sembrano essere progetti architettonici in voga tra gli hipster, le devi lasciare nei tuoi cassetti e consentire a quelli che poi ingigantiscono il tuo meritato successo di fare il loro lavoro. Peccato, veramente peccato, perché il diaframma di Damien Rice ricorda, in versione maschile, un mix tra Bjork e Norah Jones e avere avuto la fortuna di ascoltarlo in quella piazza meravigliosa che è la pistoiese del Duomo, è stato un privilegio difficilmente dimenticabile. Peccato, veramente peccato, perché i duetti vocali e strumentali con Francisca Barreto, la brasiliana che fa parte del suo staff, sono stati qualcosa di struggente, delicatissimo, sontuoso. Unica nota dolente, oltre al cappello dell’intera serata, è stato il fuori programma con una spettatrice, con la quale ha diviso e condiviso, seduto proprio sul limitare del palcoscenico, una velocissima pudica intimità, cinque, dieci minuti durante i quali, entrambi, hanno mandato giù quattro calici di qualcosa che non era certo acqua e visto e considerato che la Guardia di Finanza, la Polizia e i Carabinieri, ogni giorno di Festival, hanno pattugliato gli ingressi per cercare di individuare e segnalare alle Autorità competenti consumatori di sostanze debolmente stupefacenti, beh, certi festeggiamenti, pensando ai 51.000 decessi l’anno di cirrosi epatica, andrebbero, se non evitati, per lo meno non esaltati. Di questa, modesta, edizione del Festival Blues ne parleremo, dettagliatamente, in questi giorni; oggi, ci limitiamo alla cronaca, veramente ignobile, di questa piccola conclusiva storia collaterale.
PISTOIA. Entrambi, alle piazze, preferiscono i teatri: normale. Sono due professionisti della musica che al clamore dei proclami predilogono i sussurrii delle confidenze e così, per la prima volta a Pistoia e all’interno, subappaltato, del Festival Blues, Fiorella Mannoia e Danilo Rea trasformano piazza del Duomo in una scenografia indoor, con una serie innumerevole di lumini che non vorrebbero essere, ma che sembrano, in realtà, cimiteriali. La piazza, seppur ordinata dalle seggioline, è piena come Festival comanda, così come le tribune, per non parlare delle finestre del Monte dei Paschi di Siena, dalle quali spuntano vari anonimi stakanovisti notturni che in vista di inaspettati esodi prepensionistici, hanno deciso di ricambiare il favore all’azienda facendo gli straordinari. Sul palco c’è spazio solo per il pianoforte di Danilo Rea e così, per introdurre l’amica/signora, intona un medley rileggendo, come pochi altri sanno fare come il 66enne vicentino, Fabrizio De André, i Beatles e i Police, tradendo, per non restare incompreso, i ritornelli de Il pescatore, Here comes the sun, Every breath tou take e Bocca di rosa. Quel poco che resta è riservato al microfono di Fiorella Mannoia, the woman in red, alla quale, la predisposizione delle luminarie, ha lasciato appena due metri quadrati, dove intonerà modeste danze hawayane. Sull’abito da sera rosso, come le scarpe, ha un giacchetto di pelle nero, che terrà giusto il tempo di intonare i primi tributi: Oh che sarà, di Chico Buarque de Hollanda, La cura di Franco Battiato, La donna cannone di Francesco De Gregori e Pino Daniele. Occorre non dimenticare le canzoni, la musica e i testi di coloro i quali hanno indelebilmente segnato il tempo del nostro Paese, soprattutto di quelli che non ci sono più ha detto convintamente, senza filtri demagogici, probabilmente, la 69enne romana, citando appunto Battiato, Daniele e Dalla (del quale, però, di quest’ultimo, non ha cantato nulla). E su questa falsariga della premessa, che le ha fatto onore, ma che le ha consentito di esentarsi da una serie di autointerpretazioni che avrebbero meritato maggior sforzo e attenzione, specie dopo quasi cinquant’anni di carriera, per non parlare dei colleghi non contemplati dalla sua generosa rivisitazione (Finardi, Bennato, Gaber, De Crescenzo, Concato e ci fermiamo qui, ma solo perché è tardi e siamo quasi coetanei dei due artisti) è scivolato via, velocemente, un po’ troppo velocemente, tutto il concerto, un tributo manifesto a colleghi vivi e morti con la stessa candida impegnata naturalezza, quella che l’ha eletta, nonostante un diaframma non certo generosissimo, una delle voci più interessanti dell’intero panorama vocale italiano. Subito dopo, infatti, è stata la volta di Enzo Iannacci e la sua, eterna Mexico e nuvole, Lucio Battisti, con E penso a te e Insieme, l’incantevole Sally, di Vasco Rossi e la pluri rappresentata It’s wonderful, scritta dall’amico Paolo Conte, ma eseguita dalle ugole di una miriade di cantori, Roberto Benigni compreso. Qui sarebbe potuto finire il concerto, ma come tradizione vuole e nessuno ha voglia di stravolgere, Mannoia compresa, Fiorella ha apertamente detto che si sarebbe allontanata con Danilo per fare subito ritorno a patto che la folla avesse chiesto, espressamente, il bis. Anche il pubblico, come i due artisti in scena, non ha voluto essere da meno e allora: Margherita, di Riccardo Cocciante, eseguita, per la prima metà, a cappella e le sue Quello che le donne non dicono e Che sia benedetta. Intorno alle 23,20, dopo un’ora e mezzo di concerto, la Luce tour si è spenta e si sono accese quelle della piazza, per consentire agli ordinatissimi spettatori, di riprendere la via di casa.
PISTOIA. Per fortuna (nostra), durante l’esibizione e poi, un attimo prima di congedarsi dal pubblico, Lindsey Stirling (la foto è di Fiorenzo Giovannelli), ha dato un suggestivo e magico tocco di Johann Sebastian Bach e un omaggio, doveroso e indispensabile, al cosmo rock and roll, con le tonalità, supportate dal poderoso batterista, di Kashmir, dei Led Zeppelin altrimenti - ma dipenderà dall’età che incombe, temperature decisamente impegnative e la stanchezza che non può che conseguirne - saremmo stati convinti che durante l’abbondante ora di concerto, la ginnica violinista californiana avesse suonato sempre il medesimo brano, oscillando, con energica armonia, dall’hip hop al country, ma finendo per fonderli nella sua fisicità sonora. Non vogliamo fare del sarcasmo, naturalmente, né ci consentiremmo il lusso di farlo, non foss’altro per il rispetto del migliaio di spettatori che hanno popolato e applaudito la rappresentazione musicale e di danza, ma che fossero brani di Snow Waltz, ultima incisione della dubsteppista americana, o dei cinque album precedenti, credeteci, non ce ne saremmo accorti. Le uniche presenze fisse sul palco, oltre alla peripatetica strumentista, sono state quella del batterista e dell'organista, che si è trasformato, quest'ultimo, di rado, in chitarrista, effettuando delle piccole incursioni e quelle, spalmate lungo tutto il concerto, di una voce femminile (registrata) che ha popolato di idiomi le canzoni. Ma la di là dei nostri gusti, sempre meno sfamabili, perché anelanti sapori antichi e retrogusti dimenticati, ci sfugge la scelta dell’organizzazione di dedicarle una serata solista in questa 42esima edizione del Festival Blues specie all’indomani di una notte particolarmente trafficata, tanto che ha costretto musicisti di grosso calibro (la band di Gennaro Porcelli e quella di Ana Popovic) di suonare con il sole ancora di traverso e per un tempo, oggettivamente, troppo avaro. Certo, domenica era la serata Blues per eccellenza e visto il latitare cosmico (non solo a Pistoia, beninteso) di questo genere che definisce, a fuoco, la manifestazione, quelle tonalità si sarebbero potuto bissare il giorno successivo, consentendo così ai Dirty Honey e ai Wolfmother di stare un po’ più larghi. Non siamo manager, si vede e si capisce, ma attenti, seppur privilegiati (mai dimenticare che ai concerti ci invitano, con il sorriso), spettatori e la scelta di mandare nell’Arena del Blues la trentasettenne californiana da sola, ci è parsa, senza titubanze, quanto meno azzardata e, in un’ottica di rappresentanza, feeling e incassi, poco sensata. E non ci riferiamo al fatto che Pippicalzelunghe del violino (che passa poco tempo a fare chiacchiere, preferendo i duri esercizi della palestra e che non si scarabocchia il corpo, piacevolissimo, con tribali, piante, palloncini, nomi, frasi, animali, cose, città e tramonti che tra qualche decennio saranno il segnale indelebile della decadenza di questa generazione) debba il proprio successo alla nuova forma di comunicazione, che non sono i concerti e/o i dischi, ma le visualizzazioni su You Tube; la nuova frontiera del gradimento passa da questo filtro falsamente democratico, o tragicamente democratico, visto che in democrazia due stupidi valgono più, anzi, il doppio, di un intelligente.
PISTOIA. Poco dopo le 21, quando la band di Ana Popovic ha liberato il palco per far sì che i Dirty Honey piazzassero i loro strumenti e asfaltassero la loro serata, abbiamo avuto una sensazione stranissima e ci siamo convinti che a notte fonda ci saremmo ritrovati tutti lì, in vicolo Bacchettoni, da Tito’s, per finire, insaziabili, la giornata, a suonare, ridere, bere e fumare. Macché, siamo solo vecchi, con l’aggravante di essere, soprattutto, inguaribili e inguariti nostalgici; ma dopo i set di Gennaro Porcelli e i suoi, nostri, amici e l’esibizione di quella elegantissima serba che invece di guardarsi allo specchio smanetta con serafica disinvoltura le mani sulla chitarra, ci siamo catapultati nel passato e abbiamo creduto che avessimo poco più di venti anni e che in piazza ci fossero quei maestosi caroselli Blues, quelli di quando, leggendo i nomi sui manifesti, stentavamo tutti a credere che potesse essere vero. Il mondo è andato altrove, come è sempre successo e sempre accadrà, nella stessa identica direzione di dove si sia diretto interrogando gli anziani sui tempi delle loro giovinezze, ma noi rispondiamo ai nostri battiti e questi sono stati battezzati dal Blues e il primo bacio, inutile ricordarlo e ribadirlo, non si scorda mai. Per questo ci concentreremo, per il diario della quarta serata della 42esima edizione del Festival Blues, sui primi trenta minuti di esibizione, quelli offerti dall’Hammond di Pippo Guarnera e del suo allievo Pee Wee Durante, con Renato Marcianò al basso e Enrico Cecconi alla batteria, sotto la regia del giovane, ma ormai vecchio, Gennaro Porcelli, l’anima blues di Edoardo Bennato, perfettamente bilanciata da quella rock del suo compagno di palco, Giuseppe Scarpato. C’è ancora il sole, a Pistoia, che di sbieco illumina e surriscalda il palco della Piazza. Sono le 19,30, del resto, di una domenica caldissima, estiva in tutti i suoi connotati e il popolo della notte, delle notti dei Festival, sta ancora sbocconcellando qualcosa o sta cercando parcheggio, fotografando il nome della via o della piazza dove ha lasciato l’auto in sosta, per non avere spiacevoli inconvenienti mnemonici, di emozioni, alcol e stanchezza, al ritorno. Gennaro e i suoi compagni di viaggio, che sono giunti, con Me, You and the Blues, al terzo capitolo di una saga che ci auguriamo infinita, sono già in pista e sono pronti, nell’avarissimo spazio di soli trenta minuti, a dare sfogo e saggio a tutta la loro conoscenza musicale, rimbalzando, con meravigliosa naturalezza, tra i flutti di tutto quello che il Blues, negli ultimi cinquant’anni, ha incancellabilmente scritto. Fino ai suoi più recenti interpreti, con un omaggio, particolare, a Rudy Rotta, compagno di avventura di tutti i membri della formazione, scomparso, sei anni fa, proprio nel mese del Blues. Mezz’ora, cronometrata, altrimenti tra esibizioni e cambio palco ci saremmo inoltrati in orari proibitivi, nella quale Gennaro, Pippo, Pee Wee, Renato e Enrico hanno spolverato un repertorio dal quale non riusciamo, per fortuna, in alcun modo a staccarci, vivendo, con un’intensità difficilmente spiegabile attraverso logici sillogismi, emozioni che vanno ben oltre le capacità, loro, di suonare e nostre, di ascoltare. È il calore, umano, sensoriale, culturale, storico e sociale che si propaga dalle note del Blues e arriva, con inimmaginabili velocità e candore, diritto al cuore, con un superpotere di irrorazione agli altri sensi e organi. Dopo Porcelli e la sua band, infatti, è arrivata Ana Popovic, la signora di Belgrado, una professionista incantevole, che da tempo gira l’Europa accompagnata da eccezionali strumentisti, dei quali ci preme sottolineare l’hammondista, Michele Papadia e i fiati di Claudio Giovagnoli, altri musicisti che fanno del groove umano, prima che sonoro, la loro qualità più spiccata; un Blues più elettrico, quello della serba, forse per motivazioni semplicemente geografiche: nascere a Napoli, per certi aspetti, è una fortuna impagabile. Poco prima delle 22, sono arrivati quelli che tutti aspettavano: i Dirty Honey, californiani nati cinque anni fa e che nel giro di un solo lustro si sono già assicurati fama internazionale e soprattutto, altrimenti non avrebbero concesso loro l’onore dell’epilogo, i Wolfmother, formazione australiana nata, poco meno di venti anni fa, e guidata da Andrew Stockdale, strumentalmente fotocopia dei colleghi che li hanno preceduti e per questo liquidati in poche righe. Eppoi, quando è stato il loro turno, noi eravamo già dietro piazza del Duomo, in attesa, impaziente, che i neri del Blues allungassero, in quell'inimitabile bugigattolo, la notte.
PISTOIA. Non conosciamo l’inglese. E per questo, prima di spostare nella leggenda dei nostri sentimenti alcuni brani che hanno fatto la storia, abbiamo dovuto aver cura, dei testi, di leggerne le traduzioni, anche se, come insegna Emma Dante, non è la parola fine a sé stessa a generare emozioni (andatevi a vedere Le sorelle Macaluso e/o Misericordia e capirete quanto sia vero), ma il suo contesto, la sua offerta, il suo modo. I Baustelle, per la prima volta, ieri sera, sul palco del Festival Blues, sono stati la cosa più interessante per le casse di questa 42esima edizione; tanta gente, siamo pronti a immaginare e addirittura a scommettere, non si è registrata prima e non si potrà contare per le serate che verranno, ancora quattro e tutte di assoluto rispetto. Non ci hanno mai fatto impazzire, i Baustelle, ma non potevamo certo perdere l’occasione, ultra privilegiata, di vederli all’opera a centocinquanta metri dalla nostra abitazione e, soprattutto, con il favore, non da poco, di avere l’acceso gratuito con l’impegno, non scritto, ma inevitabile, di recensirne le gesta. Non essendo estimatori incalliti, di Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini (i tre di Montepulciano), le loro canzoni, melodicamente amabili, ma non certo evocanti Elvis, checchesenedica, è morto, non le conosciamo come la stragrande maggioranza delle migliaia che ieri sera hanno finalmente dato un senso a Piazza del Duomo durante il Festival e per comprenderne il significato avremmo dovuto ascoltarle bene, per apprezzarne, eventualmente, il messaggio. Prima di sentenziare che non dipendesse unicamente dalla nostra cattiva percezione, non certo condizionata, né prevenuta, abbiamo chiesto a più di uno spettatore meno vicino alle balaustre per capire che non si trattasse di una nostra ingiustificata sensazione; abbiamo avuto tristemente conferma: non si capiva cosa cantassero, come se si esibissero in altro idioma. Ma la festa di Elvis tour c’è stata e non saremo certo noi a rovinarla, né tanto meno ad avere la presunzione e la benché minima voglia di volerlo fare. Anche perché, oltre allo zoccolo duro senese, sul palco, un po’ troppo indietro (ubicazione che ha creato più di un problema ai fotografi, Fiorenzo Govannelli compreso, che ce n’ha offerta, come spesso accade, una delle sue), ci sono stati Alberto Bazzoli alle tastiere, Lorenzo Fornabaio alla chitarra elettrica, Julie Ant alla batteria e Milo Scaglioni al basso, quattro strumentisti che non hanno bisogno di prendere lezioni da nessuno per avere il pieno titolo di fare concerti. Insomma, una serata finalmente carica dei connotati del Festival che non ha però scatenato quanto promesso dagli stessi protagonisti alla vigilia: … Siamo elettrizzati all’idea di portare nei festival questi concerti che sono sempre più suonati, diretti, più rock and roll, rhytm and blues. Prima di loro, sul palco della Piazza, il metropolitano Filo Vals, Maurizio Pirovano, gli indigeni antico germoglio, gli Overa (Gianluca Barontini e Stefano Nerozzi alle chitarre, Alessandro Pacini alla batteria e Andrea Signorini al basso con Paolo Ferro alla voce e Pasquale Scalzi a flicorno e organetto) e gli emiliani (di Modena), EGO59, vincitori di uno dei Contest che precedono la manifestazione; durante, invece, un piccolo incidente diplomatico: una ragazza, del servizio d’ordine, tra l’altro, dopo aver chiesto al carabiniere in divisa che lo teneva al guinzaglio se avesse potuto accarezzarlo, il pastore belga, è stata morsa sul viso, con tanto di intervento dei sanitari e il trasporto al Pronto Soccorso per cure e valutazioni mediche.
PISTOIA. Di che cosa stiamo parlando? Nell’ultimo mezzo secolo di storia musicale, i chitarristi, tutti, indistintamente, hanno fatto i conti con Steve Hackett (foto Fiorenzo Giovannelli); dai giganti, come Pat Metheny, fino all’ultimo cantastorie sfigato da sagre paesane. Ieri, quell’ex giovanotto che nel 1971 disse a Peter Gabriel come si sarebbe dovuta impostare l’anima dei Genesis (che così è rimasta anche dopo il 1977, quando Steve abbandonò il gruppo e fino al suo scioglimento, nel 1990), è salito nuovamente sul palco di Piazza del Duomo per onorare la città con la sua meticolosa, profonda, contaminata e contaminante anima strumentale. Un concerto epico, storico, e visto di che storia stiamo parlando, leggendario. Ad accompagnarlo, sul palco della seconda serata della 42esima edizione del Festival Blues, strumentisti, ovviamente, dotati di robusti plurimi attributi (con i controcoglioni, come si dice parlando con la gente del reparto): Jonas Reingold al basso, Craig Blundell alla batteria, Roger King alle tastiere, Rob Townsend ai fiati e Nad Sylvan alla voce. Spazio per ammiccamenti, lusinghe, braccia oscillanti, accendini accesi, non ce n’è stato, né poteva essercene. Quando sei al cospetto di un certo genere di musica non puoi permetterti il lusso di sentirti parte integrante di ciò che ascolti; ascoltare è l’unico dono che ti è concesso. E devi farne tesoro, senza distrarti, perché da un momento all’altro, cambia la tonalità e quello che sembrava voler essere un blues, diventa rock e così via, in un crescendo camaleontico di stili e tonalità, una miscellanea impura di assoluto rigore. Una sperimentazione continua, figlia di una rigida, severa educazione, quella imposta a tutti gli iscritti alla Charterhouse Scholl, il college aperto solo agli uomini dove si formò il primo nucleo storico dei Genesis, con Mike Rutheford e Peter Gabriel. E così è rimasto, Da allora e per ogni rivisitazione. Certo, Gabriel e soprattutto Phil Collins, da solisti, hanno fatto decisamente altro e anche in questi casi, seppur distante dal nocciolo dei Genesis, di assoluto valore. Ma Steve, l’imprinting giovanile, non si è mai sognato di volerlo dimenticare, o abbandonare e anche dopo ha continuato a suonare cercando sé stesso e la sua spiritualità. Ieri sera, in piazza del Duomo, l’ex frontman di uno dei gruppi più importanti del rock del diciannovesimo secolo, ha voluto resuscitare con la musica che lo ha reso leggendario, provando a sentire e a far sentire le medesime emozioni degli esordi, quelli che catapultarono lui e i suoi compagni della formazione sulle vette cosmiche della notorietà. Ieri sera, come allora, il concerto è stato una preziosa occasione culturale, strumentale, una lampante dimostrazione di studio, di ricerca spasmodica di armonia da palco, non da piazza. Nessuno batteva le mani cercando di ritmare il tempo; nessuno si è azzardato a voler emulare, con danze improbabili, l’inno che echeggiava dal palcoscenico. Steve Hackett (che da mezzo secolo non cambia capigliatura, né abbigliamento) non ha mollato, per un solo attimo, l'attenzione sulla mano destra roteante sul corpo della chitarra e sulla sinistra impegnata sui capotasti; le uniche circostanze in cui ha voltato altrove il suo sguardo abbandonando, per impercettibili frazioni di tempo, il proprio strumento, è stato quando si è rivolto ai suoi compagni di serata, con i quali ha diviso e condiviso questo Rivisited Genesis, sorvolando, religiosamente, da Foxtrot a Seling England by the Pound, passando per Nursery Crime e sacrificando, naturalmente, una montagna di altri successi, quelli che hanno consentito alla band di vendere oltre ventuno milioni di dischi solo negli Stati Uniti e per i quali, il concerto, sarebbe dovuto durare due giorni.
PISTOIA. La prossima settimana il palco di Piazza del Duomo, allestito come sempre (fatto salvo che in pandemia station) davanti al loggiato di Palazzo di Giano, verrà febbrilmente smontato per buona pace di moltissimi pistoiesi, che di questo Festival Blues, onestamente, non sanno che farsene. Anche ieri sera, all’inaugurazione dell’edizione numero 42 (non foss’altro per la longevità, è un primato da pelle d’oca), di indigeni ce n’erano veramente pochi. Peccato, perché al di là di ogni ragionevole obiezione sulla composizione della scaletta, l’ospite di prestigio della serata merita, oggettivamente, curiosità, interesse e, una volta terminata l’esibizione, ogni plauso. Personaggio sbilenco, Xavier Rudd (nella foto gentilmente offerta da Fiorenzo Giovannelli), anacronistico e decisamente anomalo. È un cultore della musica, dei suoni e soprattutto dei contesti che li originano. Vero, ha la fortuna di essere figlio e nipote di un’accozzaglia indefinita di etnie e epidermidi, ma senza farsene alcun vanto, ha provato, nella sua esperienza artistica, a ringraziare tutto e tutti quelli che lo hanno fatto diventare quel tenero, tenebroso e professionale aborigeno, che suona praticamente tutto, spesso anche contemporaneamente e lo fa come se fosse un atto di ringraziamento. Non ha assimilato un solo atomo di divismo e se vanta, restando, concentratissimo e senza alcuna propensione allo spettacolo, intento a dare il meglio di sé e dei suoi propositi musicali. È nel bel mezzo della propria esistenza, coccolato da Ben Harper e David Lindley, personaggi che gli hanno consentito di raffinare, ulteriormente, la sua carica sonora e la sua valenza strumentale, senza però indurlo a virare verso le chimere, effimere, tentacolari e spesso irriverenti, dello show business. Anche ieri sera, fedele alla linea e sufficientemente distante dalle bisettrici della sapienza degli spettacoli dal vivo, quelli che devono in qualche modo infiammare i cuori, Xavier Rudd ha spolverato tutto il suo repertorio, dividendosi, sul palco, tra il didgeridoo, la chitarra slide, lo stompbox, il djembe, l’armonica, la batteria e quella voce, tra un folk originario del sud dell’Australia e il reggae per fortuna mai tramontato. Ha modulato le sue grida in difesa delle minoranze, della Terra, privilegiando Pistoia come una delle sue sole date italiane che lo porteranno, quest’estate, in giro per l’Europa a presentare il suo ultimo lavoro, Jan Juc Moon, decimo, in ordine di tempo, per il 45enne australiano con influenze olandesi, scozzesi e, si vede tranquillamente senza scomodare l’albero genealogico, aborigene. Prima di lui, per la serata d’esordio di questa manifestazione (nata quando eravamo minorenni e che per entrare abbiamo dovuto necessariamente ricorrere all’arte dello scavalco), a dare il benvenuto al pubblico, i ragazzi italiani de Il muro del Canto, concentratissimi a presentare e diffondere il loro quinto album, Maestrale.
di Ilaria Fontana
PISA. Pasa este río, ¡qué pasarero! cuando la luna se cae al cielo y un velo negro vela este sueño. Sueño soñado, sueño sediento de amaneceres que van creciendo con el espejo manso del río y mil canoas que va meciendo… È con la dolcezza di questo invito, un frammento della canzone Pasadero di Carlos Aguirre e cantato dalla voce flautata di Barbara Casini, capace di accendere scintille di malinconia, che si è aperto il concerto di musica jazz nella splendida cornice offerta da Palazzo Blu di Pisa, domenica 25 giugno, nell’ambito della rassegna Pisa Jazz Festival. L’attesa del ritorno sul palcoscenico pisano della cantante, chitarrista e cantautrice fiorentina è stata felicemente ripagata da un’esibizione che ha trascinato e incantato il pubblico attraverso l’evocazione dei colori, dei profumi e dei sapori del Sud America. Barbara Casini, affiancata da due musicisti dell’importante calibro dell’argentino Javier Girotto, con il suo sax baritono, e del chitarrista brasiliano-honduregno Roberto Taufic, ha presentato Hermanos, l’ultimo progetto realizzato sotto l’etichetta Encore Music, regalando gioia a tutti gli amanti di musica popolare brasiliana. Con Hermanos, la più brasiliana delle cantanti italiane ha voluto realizzare una raccolta di brani che abbraccia la cultura e i suoni dei Paesi dell’America Latina, fratelli uniti da un passato comune di colonialismo e schiavitù e da un’armoniosa mescolanza culturale, dimostrando ancora una volta l’amore profondo che lega Barbara Casini al Brasile e alla cultura latino-americana, come ci racconta la sua densa e ricca esperienza non solo professionale, ma soprattutto personale. E così anch’io - come tutti i presenti al concerto - ho potuto assaggiare il dolce gusto dell’Argentina evocati in Zamba de Carneval, inebriarmi del colorato odore del Brasile emanato da Milagre dos peixes, palpare i colori di Cuba dipinti ne La Maza di Silvio Rodriguez, accarezzare i sentimenti messicani espressi dal bolero La Puerta, abbracciare i poeti di Montevideo in Biromes y Serilletas, innamorarmi del Venezuela di Simon Diaz con la sua Tonada de Luna Llena, desiderare il Perù di Chabuca Granda, autrice di una delle canzoni più belle della raccolta, quella di Marìa Landò. Gli artisti, si sa, sono generosi nel donare al pubblico il proprio talento, ma Barbara Casini e i suoi eccellenti compagni di viaggio hanno voluto esagerare: non è stato sufficiente evocare la miriade di sensazioni con le note nate dalle corde della chitarra di Roberto Taufic e dal timbro dolce e sensibile, quasi umano, della quena di Javier Girotto; no, il trio ha posseduto il palco con sensualità, armonia di sguardi e ritmo coinvolgente fino alla fine, quando ha salutato gli ascoltatori con una dolce ninna nanna. Come un cerchio che si chiude e abbraccia. Un cerchio che contiene anche In Pelas Ruas Do recife tratto da Viva Eu, il disco pubblicato nel 2020, che Barbara Casini ha dedicato a Djair de Barros E Silva, conosciuto col nome d’arte di Novelli, bassista e compositore originario della regione del Pernambuco, nel nord-est del Brasile, autore sofisticato capace di creare languori nostalgici e soavi intrighi melodici.
QUARRATA (PT). Le donne, in Mali, non se la passano così bene come si sarebbe tentati a credere ascoltando le profezie umanitarie di Baba Sissoko; più della metà viene data in moglie prima del diciottesimo anno e anche da sposate, oltre a fare figli, mungerli, crescerli e rassettare le case, non è che siano debitamente considerate. Per fortuna, a questi e a tutti gli altri proclami concertistici abbiamo fatto in oltre quarant’anni di concerti il callo e tutte le volte che un musicista indica la via della salvezza, sappiamo benissimo che di strade, per fortuna, ce ne sono sempre molte altre, da percorrere, per provare, quanto meno, a pararsi il culo. In compenso, con il polistrumentista maliano, ieri sera, in quel meraviglioso giardino dei ciclamini della villa La Magia, a Quarrata, per la seconda serata della seconda edizione del Quarrata World Music c’erano, anche e soprattutto, la batteria di Eric Cisbani, ex predestinato battezzato, minorenne, da Tullio De Piscopo, l’armonica di Domenico Canale, la chitarra velocissima, intransigente, solitaria e invernale di Angelo Napoli, un mix tra Angus Young e Jimi Hendrix, con Alessandro De Marino, un clarinettista, utile alla causa operistica in qualità di consollista, a curare gli effetti postindustriali, Walter Monini al basso, che il bandleader africano ha dimenticato di presentare nella carrellata finale prima dei saluti e il senegalese Ady Thioune, alle percussioni, voce ritmica in alcune serate di Ascanio Celestini, a rendere strumentalmente e cromaticamente compatibile il Continente Nero con il Blues. Il pubblico, che ha finito di assistere al concerto decidendo di alzarsi dalle poltroncine per provare a ballare, il più delle volte parecchio goffamente, sulle note allungate a dismisura, come se non ci fosse un domani, di Baba Sissoko e la sua band, ha oltremodo gradito la serata multietnica, inserita nel bel mezzo di un prologo (Daniele Sepe band) e un epilogo (la Taranta di Eugenio Bennato, stasera, domenica 25 giugno) che, spendendo due parole sugli organizzatori, merita, senza ombra di dubbio, un sonoro applauso: tre concerti di nobile e notevole fattura offerti, senza la minima tensione, a un prezzo (cinque euro) nemmeno quantificabile, all’interno di un parco meraviglioso dotato, tra l’altro, di un chiringuito capace di distribuire gustose cibarie, bevande, frutta fresca di stagione e gelato artigianale senza minimamente speculare sull’assenza di qualsiasi altra soluzione commestibile. Torniamo al concerto, che, ribadiamo, è stato un’efficace dimostrazione di polivalenza strumentale da parte dei musicisti che hanno ordinatamente e sapientemente occupato il palco, con una spaventosa precisione ritmica da parte di Eric Cisbani, l’apprezzatissimo pindarismo chitarristico del suono universale della sei corde di Angelo Napoli, l’aggressiva, ma rassicurante, armonica di Domenico Canale, il clarino usato nelle sue angolazioni più estreme di Alessandro De Marino, l’ordinatissimo basso di Walter Monini e la componente, tipicamente africana, dei battiti di Ady Thioune, tutti a sostenere le nenie e l’ngoni del sessantenne maliano Baba Sissoko, personaggio chiave del rapporto musico/culturale tra l’Africa e il resto del Mondo musicale, consapevole, quest’ultimo, che senza i primordi continentali attraversati dal Sahara, la musica, tutta, non sarebbe, probabilmente, mai nata.
QUARRATA (PT). Di noia, a Napoli, non soffre nessuno. Soprattutto i musicisti, perché la città, nelle sue viscere mnemoniche, offre, sistematicamente, indimenticabili ricordi, a volte epici, a tratti leggendari, che possono diventare occasione per rispolverare affetti comunque incancellabili e stravaganti riletture. Racconti popolari, tra realtà, finzione e immaginazione, filtrati, tutti, indistintamente e rigorosamente, da una colonna sonora che dall’avvento di Pino Daniele non può che essere il Blues. Ecco perché Daniele Sepe, memorabile sassofonista del quale evitiamo di citare interminabile bibliografia musicale, ha telefonato a tre amici veri, tutti sontuosi musicisti come lui, ovviamente, dicendo loro di mettere su qualcosa. Detto, fatto: Piombo a blues. L’esperimento, perfettamente riuscito, ha avuto ieri sera, nella prima delle tre serate della seconda edizione di Quarrata World Muisc organizzata in quel posto incantevole e incantato del Prato dei Ciclamini della Villa medicea La Magia, la sua consacrazione. Perché gli amici di Daniele, in questa gradevolissima circostanza, sono Mario Insegna alla batteria e alla voce, Gigi De Rienzo al basso e il più giovane della compagnia, Gennaro Porcelli, alla chitarra e alla voce, che di certe storie ha solo subito eco e fascino, vista la giovane età, un vuoto temporale abbondantemente assorbito dalla sua potenza strumentale, quella che lo ha di fatto eletto uno dei chitarristi blues più importanti in circolazione. E la serata, elasticamente fedele al suo diktat storiografico, è scivolata via mettendo a fuoco e scandendo alcune indimenticabili storielle; alcune strettamente personali, altre collettive, tutte filtrate dalla bellezza, a parer nostro incommensurabile, del Blues e di quello che nel tempo gli è vissuto attorno, elevando quel genere musicale a qualcosa di molto più articolato e complesso di una semplice classificazione sonora. Chi suona il Blues, siamo onesti, ha una particolare affezione all’alcool e alle droghe leggere, agli amori indimenticabili e inesorabilmente finiti prima di ogni ragionevole naturale oblio; chi suona il Blues non può dimenticare gli amici, soprattutto quelli in difficoltà: chi suona il Blues è sistematicamente pronto a mettersi in discussione, ad aprirsi a nuove frontiere, a sconosciute tonalità, apprezzandole, impadronendosene, senza mai dimenticare la nobiltà delle origini e la necessità, con la propria madre terra, di sdebitarsi. Suonando. Da Poggioreale a New Orleans, da santoni del Blues finiti nel fondo di una bottiglia di whisky, a Mondragone, ambita e preziosa località balneare del casertano, dove per alcuni anni, in virtù di non controllate presenze industriali, si sono moltiplicate anomalie subacquee, mozzarelle stranamente cromatizzate e inspiegabili tumori. La saudade partenopea che si materializza, anziché sulle note della Bossanova, su quelle del Blues, con la caustica e tassonomica precisione ritmica di Gigi De Rienzo, l’incontrollabile e incontrollata simpatia di Daniele Sepe e il raccordo armonico di nonno Mario Insegna, che se non fosse un musicista (e di che calibro), potrebbe tranquillamente personificare un qualsiasi personaggio hemingwayano. E poi, la chitarra di Gennaro Porcelli, precisa, leggera, profondissima, che entra nelle viscere della musica, spaziando dal rock al funk, che entra nel cuore di chi lo ascolta, tra i rimpianti del passato e la paura del futuro.
di Letizia Lupino
PISTOIA. La nuova stagione di Spazi Aperti 2023 riapre i battenti del teatro Manzoni di Pistoia nel migliore dei modi possibili: Riccardo Tesi, orgoglio pistoiese, prima ancora che internazionale, e l’Elastic trio che per l’occasione diventa Elastic Orchestra presentano il nuovo disco La giusta distanza. Numerosi gli elementi voluti in scena, come numerose sono le influenze che ci pizzicano le orecchie, tra storiche conoscenze come Claudio Carboni e Daniele Biagini e nuovi collaboratori e giovani cadetti, come Vieri Sturlini e Alessandro Natali, che entrano con pieno merito a far parte dell’equipaggio. Un equipaggio sì capitanato da Riccardo Tesi, ma che diventerà protagonista, elemento dopo elemento, del viaggio che via via ci accompagnerà per più di un’ora tra anse musicali e virate melodiche in una navigazione senza tempesta in quel Mediterraneo tanto caro e pescoso per la mappa di Riccardo. Non importa avere un orecchio allenato per godere ciò che viene suonato perché risulta facile, per l’equipaggio in primis, il riuscire a lasciarci trasportare sulle onde che lambiscono terre vicine e geograficamente lontane. È una traversata che gioca tra il reale e l’immaginario quella di stasera, fatta di giorni soleggiati, venti birichini, odori speziati e sguardi verso un soffitto che diventa cielo terso con stralci di nuvole morbide e spumose. Suonano una primavera poetica, travolgente ed evocativa, uccellini come Giua ed Eleonora Pascarelli cantano beandosi della brezza marina. Non poteva che essere così, una grande festa per il ritorno di Riccardo Tesi che, non per caso, ha scelto la sua città natale. Un concerto ben riuscito quindi che, nonostante elementi nuovi, rimane forte l’impronta folk di casa nostra, accompagnata fedelmente dall’inseparabile organetto diatonico, con incursioni dalla canzone d’autore, dal jazz e dalla tradizione che sconfina fino al Madagascar. Un Meltin Pot sonoro che fa dissipare qualsiasi tipo di limite, sia esso fisico, mentale, etnico, razziale, spirituale, territoriale o emotivo. Qual è quindi La giusta distanza?
PISTOIA. Osservare Ilenia Romano e Giselda Ranieri mentre ballano è una gioia per gli occhi. Ma anche per i sensi. La vista è rinfrancata dalla sinuosità dei movimenti della prima e dallo scandire, ammiccante, di quelli della seconda. Il complesso di tutti e cinque in nostro possesso viene regolarmente sollecitato dalla ludica perfezione dei battiti cardiaci con i quali, le due ballerine, che sono, alla bisogna, coriste, ma anche semplici coreografie di una scena semplicemente musicale, hanno un privilegiato armonioso rapporto. La musica sulla quale accendono ogni tipo di sensazione sentimentale è quella offerta dalle percussioni (lo riassumiamo così il suo universo strumentale) di Marco Zanotti, elemento indispensabile, con Zam Moustapha Dembélé (voce e strumentista maliano) di Mbira, lo spettacolo di musica/danza e qualche parola di troppo di Roberto Castello, che ha illuminato e scatenato l’inferno ieri sera al Funaro di Pistoia, suggerendo anche a modestissimi normoarticolati di tentare l’inosabile: tentare di ballare, addirittura ispirandosi alle inimitabili movenze dei corpi chimicamente predisposti alla danza, che coincidono, quasi mai, con quelli che fanno Pilates per sentirsi ancora agili.
FIRENZE. Quando lui e la sua band esplosero, noi, suoi coetanei, ascoltavamo altro; per sound, per groove, per scelta, soprattutto perché non avremmo potuto fare diversamente, visto il condizionamento politico. Ascoltare, a scelta, i Duran Duran o gli Spandau Ballet – erano loro, negli anni ’80, che si contendevano lo scettro della new wawe mondiale - non deponeva benefici al nostro odioso e miope impegno, che non ci suggerì nemmeno di indagare su quel nome strano con il quale la formazione britannica aveva deciso di battezzarsi. Questa piccola premessa serve a giustificare il nostro stupore alla vista, ieri sera, di un Tuscany Hall gremito, sold out, come si dice, per il concerto di Tony Hadley, l’anima e la voce degli Span’s, che ha regalato, accompagnato da una signora band, The Fabolous TH Band, con una vocalista alle percussioni di rara potenza e allegria, un’ora e mezza di assoluta, piacevole e composta nostalgia, inanellando alcuni dei motivi che sono entrati, di diritto, nell’immaginario collettivo di un’epoca, nonostante tutto, nonostante le grandi manovre dei servizi segreti e delle Mafie, tra le più fertili e spensierate dell’umanità. Lui, l’ex frontman degli Spandau Ballet, si è presentato in abito grigio, con la giacca che, nonostante i balletti, gli sforzi del diaframma, il caldo da prestazione e palcoscenico e l’inevitabile arrotondamento della conformazione addominale dell’età, durante l’intera esibizione non gli si è mai sbottonata.
BOLOGNA. A due passi da New York, nonostante non ci si sia mai andati. Ma la storia, musicale, della Grande Mela, racconta che nel cuore della City, sovente, leggende viventi che sembrano sempre passare lì per caso, delizino i clienti di un ristorante, dove si mangia molto bene in un ambiente particolarmente caldo e accogliente, con un loro concerto. A due passi da New York, scrivevamo, perché ieri sera, a Bologna, al Bravo Caffè, l’impressione ricevuta è stata proprio quella: trovarsi altrove. Sì, perché per arrivare a parcheggiare la macchina poco distante dal locale e immergersi nella movida bolognese, che pullula di giovani, tanti accenti, parecchie razze, molte etnie e entrare in questo jazzclubristorante e trovarsi, dietro la porta d’ingresso, Russel Ferrante, Bob Mintzer, Will Kennedy e Dane Alderson, che sono l’ultima versione degli YellowJackets, seduti attorno a un tavolino a sbocconcellare qualcosa prima di esibirsi, non pensavamo potesse succedere. E invece. È bastato andare a Bologna. E vederli. Sentirli. Stentare a crederci. Dane Alderson, il più giovane dell’attempata compagnia, non è lì con loro, da sette anni, a caso. Ci sarà un motivo per cui il tastierista Russel Ferrante, cofondatore, nel lontano 1977, con una delle chitarre più belle in circolazione, quella manipolata da Robben Ford, del gruppo, abbia deciso e scelto che dopo Jimmy Haslip e Felix Pastorius, al basso elettrico, fosse il caso che ci stesse lui? Anche Will Kennedy, che in questa parabola musicale luminosissima si è intervallato con Ricky Lawson, Marcus Baylor e Peter Erskine, non ha bisogno di dare spiegazioni perché si trovi su quello sgabello al cospetto della batteria.
PRATO. Dal Chiostro, semplicemente meraviglioso, di San Domenico, al Cencios, che trasuda ricordi, nostalgia e promesse, qualcuna mantenuta, sempre a Prato, ci saranno, sì e no, qualche centinaio di metri. Sul finire degli anni ’80, Irene Grandi era una delle reginette indiscusse della scena musicale fiorentina; era contesa da tutti i proprietari dei più famosi sottoscala che andavano da Firenze a Pistoia: il Cencios, appunto, ma anche il Maddalena, Tito’s e le varie rassegne rocchettare che in quegli anni spopolavano, come il Valdelsa rock and roll, dove, in qualità di giurati, l’abbiamo conosciuta. Era il 1989, tempi di sogni realizzabili. Lei e il suo gruppo, i Goppions (Jeppe Catalano alla batteria, Francesco Bottai alla chitarra, Giovanni Dall’Orto al basso), ma era anche una delle quattro de Le matte in trasferta, (Simona Bencini, poi voce dei Dirotta su Cuba, le contendeva lo scettro), erano specializzati nelle cover: i tre giovanotti sapevano suonare e a tutto il resto, ci pensava lei. Del resto, diaframma perfettamente sintonizzato, notevole carica adrenalinica e, siamo onesti, quel pizzico di malizia che non guastava, non guasta e non guasterà mai. Ieri sera, saltando a piè pari tutto quello che è successo nel mezzo (praticamente tutto: è diventata una star, ha vinto una quantità industriale di premi, collaborando con Jovanotti, Pino Daniele, Vasco Rossi, duettando con Stefano Bollani, Bobo Rondelli, cantando in spagnolo, in tedesco, in lingue arcaiche, passando, più volte, da Sanremo, anche dal Cinema),
AGLIANA (PT). Ballate, sorridete, divertitevi e godete tanto; non sappiamo quanto tempo manchi alla fine, ma quello che resta, occupatelo così. Non lo ha detto esplicitamente, ma lo ha fatto capire con ogni sua canzone, arpeggiando con la sua chitarra, in tutti i suoi intermezzi narrativi. Sì, certo, i capelli, quei pochi che gli sono rimasti, non sono più mossi, neri e fluenti, ma bianchi e ben incollati alla testa. E anche il corpo, un po’ imbolsito dall’età (settantasei anni compiuti in questo mese), non può più essere paragonato a una meravigliosa libellula sudamericana. La voce, però, la voglia, la tristezza, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria e la maestria nel suonare sono esattamente quelle di oltre cinquant’anni fa, quando con gli altri della corrente nuovista della bossanova, dette vita a uno dei movimenti più importanti della musica al mondo, quello che si costituì attorno a Rio de Janeiro. Con Toquinho, infatti, prima che la dittatura militare suggerì loro di scappare in Europa, in quel circolo si ritrovarono, come per magia, Chico Buarque de Hollanda, Caetano Veloso, Gilberto Gil, Joao Glberto, Tom Jobim, Baden Powel, Roberto Menescal e altri, tutti stregati dalla poesia di Vinicius de Moraes. Ieri sera, nel parco Carabattole di Agliana, uno dei tanti, tutti legittimi, figli dell’indimenticabile Ragazza di Ipanema, Antonio Pecci Filho, da San Paolo du Brasil, con nonni, chiaramente italiani, ribattezzato Toquinho dalla nonna materna dopo che gli amici, come usa in Brasile, lo avevano già rinominato Toninho, in compagnia di due abili strumentisti conterranei, Mauro Martins alla batteria e Dudù Penz al basso, ha ancora una volta dimostrato come la bossanova, più che un genere musicale, è davvero uno stile di vita.
PISTOIA. Sembra non ispirarsi a nessuno, Polo Nutini. Eppure, quando canta, si ha sempre l’impressione che la sua voce ne evochi un’altra; anzi, altre. Quando si cimenta nel rock and roll si intravede la sinuosa aggressività di Mick Jagger, ma resta un cantante che pare l’abbiano congelato, quarant’anni fa, nel bel mezzo della new wave e messo a sbrinare, senza fretta, nel terzo millennio. Il quarto e ultimo bis, Guarda che luna, ha forse voluto essere un omaggio alla canzone italiana, a Fred Buscaglione (ne poteva scegliere altre mille, di brani prototipo, Buscaglione escluso e soprattutto, visto nome e cognome, l’italiano potrebbe anche impararlo, eh), ma nel penultimo ha voluto rendere grazie al gruppo che lo ha preceduto in piazza del Duomo e più o meno inconsapevolmente ispirato, inserendo, per ben due volte, poco prima della fine dell’esibizione del terzo brano, il loop di Don’t You, che i Simple Minds gli hanno lasciato, oltre che nell’eco della piazza, anche come testimonianza attiva. Pure fisicamente, Polo Nutini ricorda quelle stagioni: bello, senza essere impossibile, impegnato, ma non militante, aperto e libero a ogni contaminazione, ma di sani principi, quelli ereditati dalla famiglia e dal nonno, il vero ostinato responsabile della sua carriera musicale. La fortuna, infatti, era lì, ad aspettarlo, a quell’omaggio paesano in onore del suo concittadino David Sneddon, vincitore inaspettato di Amici scozzesi.
PISTOIA. È stato sufficiente rendere a piazza del Duomo l’abito di gala, che è quello che gli compete, del resto, restituendo alla città uno di quei sapori che abbiamo imparato a riconoscere, da subito, in questi oltre quarant’anni del Festival, perché la modestia delle settantadue ore precedenti venisse assorbita, dimenticata e derubricata come un fastidioso, seppur evitabile, micro incidente di percorso. E sono bastati i Simple Minds, pensate, che seppur con una ventina di album registrati e sessanta milioni di copie vendute, non sono e non saranno mai la crema della word music, ma uno dei tanti, tantissimi gruppi che hanno popolato le stagioni auree della new wave, così definita per catalogare quei gruppi che presero, cautelativamente, le distanze dal punk, assorbendo strumentazioni e atmosfere disco, grunge e rock. Una formazione professionale, che conosce i giochi del palcoscenico, i suoi ritmi, le sue elasticità e anche se non mirabolante, ha immediatamente offerto alla serata un imprinting europeo; si ha avuto subito l’impressione, poco dopo le 21,30, di assistere a qualcosa che sarebbe restato incastonato, per sempre, probabilmente, tra le mattonelle medievali della Piazza. Lo si è capito dalla ripartizione umana della band, che conserva, invecchiati ma ancora perfettamente lucidi ed esemplarmente in tiro, i suoi due più nobili sopravvissuti: la voce di Jim Kerr e la chitarra di Charlie Burchill, cheanche se orfani dei molti colleghi che negli anni inimitabili si sono succeduti sui palcoscenici del mondo al loro fianco, hanno saputo equamente rimpiazzarli, con due femmine fulmicotoniche: una alle tastiere, Berenice Scott e l’altra alla batteria, una vera e propria leonessa che in molti ha suscitato la voglia di provare ad ammaestrarla, la trentaseienne britannica Cherisse Osei, una forza della natura, del ritmo e della bellezza.
PISTOIA. Venti anni li ha compiuti pochi mesi fa, Arianna Del Giaccio. Ma ha già capito un sacco di cose. La prima è che occorra raccogliere subito, anche senza aver seminato; il successo è lì, dietro l’angolo, pronto a prenderti per mano e scaraventarti ovunque. Ad aspettarti ci sono già nugoli di adolescenti che non riuscendo a parlare in casa con i genitori, a scuola con i professori e per strada, nei bar, nei circoli, negli oratori (che non esistono più, fisicamente e come istituzioni), con il prossimo, intravedono in una ragazzetta come loro una piccola grande eroina, che studia musica da quando era una bambina e che, ciondolando per le vie di Anzio, tratto del litorale romano, uno dei tanti teatri ideali per Suburra e affiliati, ha trovato per terra un mazzo di chiavi con le quali si è aperta, senza incontrare la minima resistenza, le porte del successo. Certo, è una notorietà pseudovirtuale, che inizia – e ci mancherebbe altro – dai canali televisivi di X Factor, per poi prendere il largo sui nuovi palcoscenici cosmici, che sono le piattaforme sociali, youtube, streaming e tutto quello che ti porta ovunque pur restando in casa. Si fa chiamare Ariete, la scaltrissima pischella metropolitana, che non è un riferimento zodiacale, né una precisa collocazione faunistica; è un nome che bucherà, vedrai. E ha bucato.
PISTOIA. I vecchi dissacratori dei Pistoia Blues hanno quasi tutti l’alzheimer. Come noto, però, la mamma degli imbecilli è sempre in stato interessante e dunque, non sapendo di cosa parlare perché non hanno mezzi per farlo, ma non solo di musica, eh, anche la new generation dei bastian contrario, che non incontriamo mai in piazza del Duomo, durante il Festival, ma anche in nessun altro posto dove si faccia musica, ma solo sulle piattaforme sociali, altro dato cancerogeno del terzo millennio, si scaglia contro la manifestazione pistoiese. Che per dovere di morale, non certo di cronaca, nelle ultime due serate è stata di modestissima levatura, più consona a un qualsiasi circolo Arci che a un palcoscenico che trasuda storia come quello del Blues’In. È chiaro ed evidente che dopo questa pandemia, il Festival vada nuovamente pensato e, qualora ce ne fosse la necessità, ridisegnato. Ma la cosa nemmeno ipotizzabile, dunque non ultima, proprio non contemplata, è quella di ventilarne la chiusura, la fine.
PISTOIA. Strano, perché dopo tanti anni di nobile servizio alla causa televisiva dei trampolinisti del successo, tempo nel quale Manuel Agnelli ha dato ampia prova di accurata riflessione culturale, emotiva, sociale, puntualmente offerta sotto l’egida di un darkismo che seppur vintage sembra non essere ancora del tutto sorpassato, ieri sera, l’ex bandleader degli Afterhours, non ha offerto pari moderazione nella sua esibizione sul palco Blues di piazza del Duomo a Pistoia. Ma non vogliamo fare del sarcasmo gratuito; non siamo tra quelli che aborrono a ciò che non sia Blues, ma siamo quelli che si indignano quando qualcuno avrebbe la pretesa di scambiare l’arte con la caciara. E ieri sera, anche con i gruppi (Zagreb e Bluagata) che han fatto da apripista al poliedrico frontman milanese, il tenore è stato lo stesso; amplificazione assordante che ha soprattutto il merito di sovrapporre e confondere, indefinitamente, il suono dei singoli strumenti, così che il basso, la batteria, la chitarra e le tastiere diventino un incomprensibile tutt’uno, sul quale campeggia, naturalmente in modo incomprensibile, la voce del vocalista di turno. E non vi consentiamo di bollarci come dei vecchietti che farebbero meglio a stare a casa, visto che a casa non ci siamo mai stati, per fortuna. E non potete nemmeno permettervi il lusso accusarci di non spendere parole affusolate solo perché non si gradisca il rock alternativo.
PISTOIA. Ci sono dei centravanti che, appena realizzato un goal, si tolgono la maglietta e corrono, a perdifiato, sotto la curva popolata dai propri beniamini per ricevere l’ovazione tribale e orgiastica del tifo. Altri, invece, ma succedeva solo tanti anni fa, anche dopo aver realizzato reti/capolavoro, si limitano ad alzare le braccia al cielo e dividere e condividere con i propri compagni la felicità della realizzazione. Il parallelo calcistico con il concerto di ieri a Pistoia ci sembra calzante. I giovanissimi, infatti, pochi, in realtà, non avrebbero potuto capire. Perché concerti come quello di ieri sera, in piazza del Duomo, appartengono alla memoria jurassica della musica dal vivo, quando ai musicisti, prima di ogni altra cosa, come ai calciatori, del resto, era chiesto suonare: suonare per capire che pochi altri potrebbero farlo, suonare per emozionare, suonare per ricevere. E loro, I Gov’t Mule, (Marco Van Basten, Gerd Muller)? questo han fatto: alla perfezione. Dai Pink Floyd alle viscere del Blues, l’ala scissionista, ma fedele, anzi, fedelissima della musica colta, degli Allman Brothers, ha deciso di perorare meravigliosamente la causa artistica della musica, scorporandola da ogni orpello. Guadagnate le rispettive postazioni sul palco, i quattro musicisti statunitensi lì sono rimasti per l’intera durata dell’esibizione, (preoccupandosi, unicamente, di svolgere, alla meglio, il proprio lavoro. Un’impeccabile catena di montaggio strumentale, che ha portato al termine il concerto intervallando, con soli pochi attimi di silenzio, ogni brano dal successivo.
PISTOIA. Era immaginabile – anche se ci abbiamo fatto la bocca fin da ultimo – che dei suoi due autentici capolavori (Sugo e Diesel) non facesse minimamente cenno, né nota, né strofa. Ed è stato giusto così, perché piazza del Duomo, ieri sera, aveva tutt’altro sapore e intimità e poi, perché ad aspettarlo e poi invitarlo sul palco, c’era già un suo vecchio, ma vecchio davvero, amico, Fabio Treves, con il quale ha spartito parecchie emozioni giovanili milanesi negli anni d’oro della musica, della rivolta, dei sogni. E delle illusioni. E mentre, con la voce di Tom Waits, si cimentava a raccontare la sua Anima blues, noi, sotto il palco, snocciolavamo velocemente i suoi poster, quelli con i quali, dopo averli attaccati al muro, siamo cresciuti. Non diventare grande mai, Scimmia e Scuola, forse no, ma Diesel (brano omonimo del suo terzo Lp; 1977: fu il primo a importare in Italia, con la generazione degli Area, la word music) e Non è nel cuore ci sarebbero anche potute stare, via. O almeno Wil coyote, simpaticissimo brano blues. Nulla. Ma siamo felici lo stesso, perché lo abbiamo rivisto, invecchiato, certo, ma con tutta la classe e l’eleganza britannica che lo hanno sempre contraddistinto. Ah, già; non abbiamo ancora detto che si tratta di Eugenio Finardi, musicista prezioso, poeta irriverente e profondissimo e uno dei pochi illustri istigatori (in)volontari per una generazione che è stata lì, a due passi dalla Rivoluzione.
PISTOIA. Scrivono ricordi Bob Dylan; affatto, per fortuna, altrimenti… sai che palle! Con Kristian Matsson invece, che ha scelto uno pseudonimo troppo lungo per entrare nell’immaginario collettivo, The Tallest Man of Heart (fallo più corto, dacce retta), oltre che ascoltare una voce policroma, che spesso e volentieri potrebbe procedere a cappella senza svilire di un atomo, e assistere a divertenti esercizi ginnici, supportati da un uso estremamente confidenziale e disinvolto della musica, ci si diverte parecchio. Peccato che, al di là della nostra crassa ignoranza anglofona, anche chi habla spigliatamente english, con le sue canzoni, sovente non è riuscito a cogliere il nesso poetico. E sì che il quasi quarantenne svedese, che della parola ne fa, sapientemente, un uso profondo, del significato delle denunce dovrebbe averne grande cura. Ma al di là di ogni previsione sul suo futuro, roseo o presto cestinato nel dimenticatoio, resta il fatto che questo ragazzotto, pulito, felice, senza tatuaggi, senza smalto, senza trucchi, con muscoli figli di una moderata frequenza palestrante, risvoltini ad hoc e mocassimi trendy, poco liquido, insomma, anche se fosse profondamente omosessuale, sul palcoscenico si trovi particolarmente bene e ieri sera, antipasto di nicchia per l’edizione 2022 del Festival Blues, alla Fortezza Santa Barbara, in un’ora e mezzo scarsa di esibizione ha confermato, a tutti quelli che non avevan alcun dubbio, a tal proposito, che se si parla di cantautorato d’autore, beh, lui può farne parte, anche con quella dose aggiuntiva, ma indispensabile, nel terzo millennio, di una velata teatralità.
di Fiorenzo Giovannelli
PISTOIA. Una serata, quella trascorsa al Circolo ricreativo di Piteccio, ridente frazione di Pistoia, che è stata la prima di un Luglio che si preannuncia intenso di eventi - giunto al suo terzo anno di realizzazione – e sembra destinato a diventare un appuntamento classico. La serata è bella, addirittura fresca, pubblico numeroso, che tradisce la naturale voglia, personale e collettiva, di musica dal vivo, dopo una pandemia e una quarantena interminabile che ha minato le elementari nozioni della voglia di vivere. Una serata, a detta di tutti, particolarmente intensa, che restaerà, assieme a tante altre pagine da scritte anche dai protagonisti di ieri sera, negli annali di una città con un’origine particolarmente controllata, quella del Blues. Ad aprire le danze, e a far capire ai presenti che cosa succederà di lì a poco, la The TNT & Dynamite Blues Band, che ha il pregio di introdurre musicalmente la serata e di creare tutta una serie di aspettative strumentali che verranno ampiamente soddisfatte nel giro di brevissimo, quando gli apripista lasceranno spazio a una delle numerose formazioni di Nick Becattini. Da quel momento, quando la scena e il groove se le prendono la sua sei corde, la serata entra in un’atmosfera senza ricordi e senza prospettive, in un presente senza tempo, dipinto dalle note sconfinate e universali del Blues, come se tutto fosse proveniente da un universo senza soluzione di continuità, con l’impossibilità di intravedere le origini e ancor meno scorgere la fine.
PISTOIA. Certi meccanismi sono insondabili. Come il successo. Non lo scriviamo perché gli eXtraliscio non lo meritino, eh; anzi, tutt’altro. Sono, prima di ogni altra cosa, musicisti inappuntabili, ma come riconoscono da sempre loro stessi, decisamente fuori moda, fuori moda di proposito, tanto che la loro siderale lontananza dai cliché, per il principio della circolarità di ogni cosa che appartenga all’umano, li ha collocati proprio nel bel mezzo, circondati da un nugolo di giovanissimi che invece cavalcano, con spudorata irritazione, il dorso dell’ambiguità futurista, dove si stenterà a distinguere la realtà dalla finzione, la genuinità di un suono da un accidente consollistico, un uomo da una donna. Perché anche nel futuro, stando alle loro previsioni, nell’iperspazio, come si diceva a nostri tempi, o nel metaverso, come si dice ora, la gente si ritroverà all’interno delle balere per ballare, ridere, scherzare e perché no, pomiciare. Anche ieri sera, a Pistoia, all’interno del giardino della Fortezza Santa Barbara, ormai luogo di culto museale, dove non si può fare nulla di deontologicamente naturale in piena estate, nemmeno bere una bottiglietta d’acqua, l’orchestra, orfana del Biondo, egregiamente rimpiazzato da un Robot, ha dato vita a una delle sue classiche esibizioni, anche se in tono un po’ minore, a essere onesti, forse per un’immotivata (anche se il prezzo del biglietto non sarà mai più, d’ora in avanti, un motivo trascurabile) scarsa affluenza del pubblico.
di Lisa Pugliese
PISTOIA. Lo ammetto, erano anni che non tornavo al Santomato live club, complice la pandemia da Covid 19, ma se non fosse per la modifica all’orientamento del palco, il tempo qui sembrerebbe essersi fermato. L’atmosfera gioviale e informale è quella tipica di un circolo, ma la gestione tecnica di luci e audio è decisamente il top! Il pubblico di ogni età è carico di adrenalina, la sala è piena e alle 22.30 in punto Nick Becattini, talentuoso chitarrista pistoiese classe 1962, sale sul palco insieme alla band: Andrei Keki alla tastiera, Carmine Bloisi alla batteria e Andrea Cozzani al basso. Nick parte con un intro strumentale e prosegue con un pezzo da lui cantato, le sue mani scorrono su e giù sulla chitarra con un assolo che pare un vero e proprio dialogo e noi ascoltatori in estasi ci accontentiamo - per una volta - di fare il terzo incomodo. Si prosegue alternando brani elettrizzanti a lenti blues, chiudi gli occhi e ti immagini in un sobborgo fumoso di Chicago o New Orleans. Duole doverlo dire, ma il momento di gloria del celebre chitarrista si conclude con You’re the one for me, allegra ballata dedicata alle donne, perché quando Lei entra sul palco, inghiotte il palcoscenico in un solo boccone: la voce e la presenza carismatica di Ty Le Blanc sono come una bomba per lo show, il suo ruggito è quello di una pantera uscita da un recinto in cerca della libertà. E la trova, indubbiamente, con il suo timbro limpido e potente, un po’ Tina e un po’ Aretha, accompagnata dal sassofono di Cris Pacini, la vera ciliegina sulla torta di questo magico show.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Ore 21. Stacco da lavoro con la fretta nelle gambe e l’ansia nel cuore con la dubbia certezza di arrivare tardi. Ho avuto la brillante idea di farmi una simpatica passeggiata a piedi perciò, adesso che manca un’ora all’evento, i chilometri che mi separano dalla macchina mi sembrano infiniti come il campo da calcio di Holly e Benji. Afferro la borsa, l’ombrello (nemmeno il meteo aiuta) e il compagno di serata trascinandolo a velocità sostenuta. Non parliamo nemmeno, presa come sono a mettere un piede davanti all’altro e a organizzare mentalmente il tempo che svelto scivola via. Dovremmo cenare. Devo dare cibo al gatto. Ah, mi devo cambiare che là dentro si soffocherà dal caldo, Il biglietto ce l’ho? Il biglietto ce l’hai! Sì, serafico. Il gomito indietreggia, mi volto e il mio accompagnatore mi sorride calmo. Ok. Ho capito. Mi devo rilassare. Ma non posso, non vedo l’ora! Io che negli ultimi mesi ho ascoltato e riascoltato Semplice fino a saperlo a memoria, impazzisco all’idea di non essere già là. Conquistiamo casa, poi la macchina e nel tempo di una sigaretta ho già parcheggiato. Una blanda fila, che a passo di lumaca avanza, si snoda all’ingresso dell’H2NO di Pistoia; ci accodiamo. Stanno controllando. Cazzo, il greenpass, l’ultima volta che mi è servito non lo trovavo! I palpiti si scontrano l’un con l’altro e le mani tremano nel cercare l’authcode.
VICCHIO (FI). Sulla garanzia musicale che le avrebbe garantito l’emiciclo strumentale di cui si è armata per sostituire, all’ultimo tuffo, l’indisponibile Eric Turner, si avevano ben pochi dubbi; da quanti anni, per fortuna, scriviamo e scriviamo di Pee Wee Durante all’organo Hammond, Enrico Cecconi alla batteria, Dimitri Grechi Espinoza al sax e, per onor di cronaca (non li avevamo mai sentiti prima), Marco Gagliero al basso e il giovanissimo Zeno Marchi alla chitarra. Con un palco musicale di tale spessore, il Jazz Festival Giotto di Vicchio, nelle meravigliose e inquietanti campagne fiorentine, poteva riposare sereno tra due guanciali. Ma il tocco vocale, la padronanza scenica e la facilità dell’estensione del diaframma sfoggiata da Karima Ammar hanno fatto il resto, trasformando una bella serata di musica in un concerto da applausi, compresa la collaborazione, per tre quarti d’esibizione nascosta, dietro le quinte, seppur microfonata, di Linda Palazzolo, che si è materializzata sul palco solo poco prima del bis, dando finalmente un nome e un cognome a quella voce che supportava Karima nei cori. La serata era della cantante creola di origini algerine nata a Livorno 37 anni fa; e lei, con estrema nonchalance, nonostante i timori di prove fatte alla ben meglio solo con il ticchettio dello scandire del tempo come una spada di Damocle, se l’è presa, traghettandola trionfalmente dall’altra parte della riva.
di Federico Di Pietro
PISTOIA. Se doveste scegliere una, un’unica canzone da cantilenare per festeggiare il 2022 (c’è da festeggiare? Bah, la realtà) quale scegliereste? Cantereste The final countdown? Oppure virereste su un classico duo Carrà-Cuccarini con Tanti auguri o La notte vola? Bene, niente scelte cringe. Neri Marcorè, nel suo tour Le mie canzoni altrui, a Pistoia, al Teatro Manzoni, ha scelto di iniziare la serata cantando il brano di Ligabue (non il pittore) A che ora è la fine del mondo? Sicuramente, in altri tempi, la scelta sarebbe stata azzardata, forse non l’11 dicembre 2012, ma altri giorni forse sì. Lo dice lo stesso Marcorè nei suoi intermezzi: meglio sdrammatizzare. Il canovaccio è semplice, ma allo stesso tempo impegnativo. L’attore e musicista, accompagnato dalla sua band di amici e colleghi, dipana nell’aria del Teatro Manzoni un repertorio di pezzi che hanno contraddistinto la sua infanzia, la sua giovinezza e la sua età matura, artistica e personale. Dicevo, che nonostante l’apparente semplicità dello spettacolo, esiste, nell’immaginario di Neri Marcorè in primis, ma anche in quello dello spettatore, forse, una sottile linea logica (non rossa) che lega in maniera inossidabile la scaletta scelta per la serata.
di Carmen Paolillo
SALERNO. Nella sua Salerno è tornato ieri, applauditissimo, al Teatro Verdi, da vincitore delle Olimpiadi. Perché aggiudicarsi il Premio internazionale Paganini, per un violinista, quello vuol dire. E aggiudicarselo a vent’anni, poi, è un vero trionfo, in un concorso nella cui storia solo tre italiani sono riusciti a guadagnarselo; uno di questi, è stato Salvatore Accardo, sessantatré anni fa, nel 1958. Ieri ha giocato in casa Giuseppe Gibboni, che, accompagnato dall’orchestra filarmonica Giuseppe Verdi di Salerno, diretta dal Maestro Giovanni Rinaldi, direttore d’orchestra, ha incantato un teatro finalmente di nuovo pieno, a dispetto dei tempi. Cresciuto a Campagna, nell’entroterra meridionale salernitano - in una famiglia di musicisti professionisti -, Giuseppe Gibboni vive da diciassette anni di studio e totale simbiosi con il violino. Alle sorelle, in prima fila, ha dedicato questo suo concerto di ritorno a casa, dopo la matinée di domenica a Roma al Quirinale, dove si era esibito in duo con la sua compagna d’arte e di vita, Carlotta Dalia. La serata al Verdi di Salerno è stata aperta dal Concerto per violino e orchestra n. 1 in mi bemolle maggiore, considerato una delle migliori opere di Paganini, che fonde l’eloquio melodico di immediata presa emotiva dell’orchestra ai funambolici e dirompenti virtuosismi del violino solista.
di Luna Badawi
PRATO. Non ci si abitua mai alla solitudine, eppure alla violenza sì. Non ci si abitua mai alla solitudine, ma a vivere una vita non propria sì. Non ci si abitua mai alla solitudine, eppure molti di noi si abituano a vivere soli, circondati da tante persone, inadeguati nella loro pelle e con identità che non si sono scelti. Non ci si abitua mai alla solitudine, eppure portiamo nelle nostre borse tante maschere scelte con cura, che ci fanno sentire abbastanza confusi e solitari. Non ci si abitua mai alla solitudine, eppure viviamo come se fossimo in un videogame ideato e amplificato dai nostri mostri. Non ci si abitua mai alla solitudine, ma vivere respirando solamente non è la vera solitudine dell’anima? Non ci si abitua mai alla solitudine? Oppure sì? Una sottile riflessione, molto toccante e profonda, che accompagna l’intero spettacolo diretto da Mimosa Campironi per l’attore Alessandro Averone: Family Game, al Teatro Fabbrichino di Prato. A godersi lo spettacolo si è per la maggior parte del tempo, soli con la tecnologia di un visore virtuale con il quale si è immersi completamente nella storia. Un giallo. La trama di uno scambio d’identità mescolata a un delitto tesse lentamente l’importanza della ricerca di noi stessi. Una tematica letteraria importante quella dell’identità. Un’identità pirandelliana che si mescola alla tecnologia, che diventa fattore imprescindibile nella denuncia dell’essere un uomo moderno. Uno, nessuno, centomila direbbe Pirandello!
di Letizia Lupino
PISTOIA. La fila è già lunga all’ingresso della Fortezza Santa Barbara di Pistoia che si appresta, ancora una volta, ad accogliere il pubblico pagante e affamato.
SpaziAperti2021 e Teatri di Confine ci invitano nuovamente a entrare e a fare nostro il cortile interno; un luogo intimo e fautore di storie. E sarà proprio una storia, anzi, delle storie che ci verranno raccontate: Storie della buonanotte per bambine ribelli. Quale miglior modo di accompagnare il sole che tramonta? Il palco aperto non si lasca intimidire dai nostri sguardi che frugano da un angolo all’altro, da uno spigolo all’altro. Le sedie sono sistemate a ferro di cavallo, per tutta la lunghezza del palco, e sopra quelle che saranno le loro teste si dipanano, dal centro fino ai quattro angoli, altrettanti fili di lampadine. Ed è già aria da festa di paese: calda, accogliente, profumata da un sottofondo di ballo liscio di coppia, chiacchierona! L’Orchestra Multietnica di Arezzo ne farà da cornice e da protagonista grazie alla direzione precisa anche nelle sbavature involontarie di Enrico Fink. Ciò che manca non si farà troppo attendere: Margherita Vicario, attrice e cantautrice, svolazza sul palco con leggerezza e determinazione.
PISTOIA. Potrebbe capitarvi, una domenica sera qualsiasi, che qualcuno vi inviti a uscire di casa per andare ad ascoltare e, anche, certo, vedere, il Lovesisk Duo. Beh, il consiglio che vi diamo è che, anche se ne fareste volentieri a meno di farvi una doccia, vestirvi e rimettervi in movimento anche dopo una giornata faticosa, uggiosa (scegliete voi l’aggettivo più fastidioso), assecondiate la richiesta; ne vale la pena. Abbondantemente. Sì, perché è successo anche a noi, proprio ieri sera, che abbiamo vinto, tra non poche titubanze, l’amletico dilemma: restare in casa o uscire? Siamo usciti, siamo andati alla Fortezza Santa Barbara, di Pistoia e abbiamo assistito, tra piccoli scrosci d’acqua e schiarite, alla seconda e ultima serata di questa gradevolissima appendice sonora del Festival Blues 2021. E il sipario, si è aperto proprio con loro, Paolo Roberto Pianezza, bolognese e Francesca Alinovi, emiliana e bolognese adottata, ma di Collecchio, Parma, per la precisione, i Lovesisk Duo, che girano in lungo e largo il pianeta invitati ovunque si faccia musica inscindibilmente legata all'allegria. E infatti, appena iniziate le danze americane degli anni ’50, abbiamo dovuto necessariamente constatare la loro perfetta allegra e professionale simbiosi e ringraziato il caso di non esserci lasciati vincere dalla pigrizia, perché ascoltarli, vederli, applaudirli è un inesorabile tutt’uno.
PISTOIA. Il profumo, nonostante più d’uno spettatore indossi il piumino, è quello che arriva da piazza del Duomo, in piena estate, di luglio, ogni anno dal 1980. Invece, è settembre inoltrato e nonostante si sia sempre a Pistoia e il cartellone reciti Festival Blues - da allora sono passati quarantuno anni (organizzatori e spettatori sono sempre gli stessi, decisamente invecchiati) - siamo alla Fortezza Santa Barbara. Ma il suono della chitarra di Kirk Fletcher, che del bluesman a origine controllata ha tutto, dalla mole al cromatismo epidermico, dal profilo del viso alla goffaggine dei movimenti, eccezion fatta che per le calzature (mocassini comodi e leggerissimi, che si addicono a un imprenditore in vacanza a Porto Cervo), catapulta tutti indietro nel tempo, almeno di una quarantina d’anni e l’impressione è che qualcuno dei mostri sacri della stagione più fertile del Blues ormai scomparsi abbia deciso di risorgere e reincarnarsi. Certo, quando si decide di fare quel blues, senza riletture, aggiornamenti, infiltrazioni, il sound e le emozioni non possono che far tornare alla memoria e alle trombe di Eustachio suoni già ascoltati e che il tempo ha reso inconfondibili. Invece, ci si può ancora confondere, anche perché, la band con la quale il 46enne americano è sbarcato a Pistoia, vanta Levent Ozdemir alla batteria, Erkan Ozdemir al basso e un italiano/internazionale, quel talento puro, genuino, stratosferico di Michele Papadia al piano e all’Hammond, uno strumentista che può suonare ovunque e con chiunque e risultare, sempre, indispensabile.
MONTEFALCO (PG). Senza quel piccolo e impercettibile contrattempo diplomatico, il concerto di Serena Brancale tra i vigneti Arnaldo Caprai di Montefalco, poco oltre, scendendo verso sud, di Perugia, uno dei tanti appuntamenti di questa nuova edizione di Suoni Contro Vento, sarebbe durato una decina di minuti meno. E sarebbe stato un peccato. No, certo, la sua voce sommessamente esplosiva, le sue danze feline e gitane, la sua stravagante eleganza e la sua smorfiosa confidenza con il pubblico avevano già esercitato tutto il loro irresistibile fascino e gli spettatori, accovacciati su una redola scoscesa tra filari interminabili di viti, si sarebbero congedati sazi e soddisfatti da quell’angolo incontaminato e paradisiaco. Ma nel bis impreventivato la professoressa barese di canto, che ha le cattedre in due dei templi più prestigiosi d’Italia, a Roma (Centro Jazz Saint Louis) e Milano (CPM), ha regalato anche una dedica a Lucio Dalla, sovrapponendo, nel suo preziosissimo loop, alcune indimenticabili strofe rese eterne dal meraviglioso jazzista pop bolognese. Con Serena, su un palco meticolosamente allestito in controtendenza, ma perfettamente funzionale, tanto acusticamente, quanto visivamente, il giovane (1993) polistrumentista campano Davide Savarese, alla batteria e, al Fender Rhodes, il veterano (ma solo nove anni meno giovane del collega) Domenico Sanna.
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di Federico Di Pietro
PISTOIA. Fondamentalmente non sarei un feticista delle scalette. Però, sì, mi piace chiederle quando finisce un concerto, soprattutto quando sento il bisogno di andare oltre a ciò che ho ascoltato e visto. Soprattutto ascoltato. E quindi ieri sera l’ho chiesta. Non essendo un critico, un musicologo o un giornalista musicale, non saprei slanciarmi in analisi tecniche o musicali di quello che ho visto (e ascoltato) ieri sera. Ciò che posso fare è tentare di spiegare quello che io ho visto. Ma la domanda sorge spontanea: cosa è successo ieri sera? Nella medievale cornice della Fortezza S. Barbara, per la terza serata del Serravalle Jazz, è andata in scena la cerimonia di ritiro del premio dedicato all’eclettico indimenticato pianista senigalliese Renato Sellani. Ma non tutto è andato secondo i piani. Il Maestro Enrico Rava, vincitore nonché ospite della serata, purtroppo, per motivi personali, non ha potuto essere presente all’evento. E quindi? E quindi ci ha pensato Flavio Boltro che, insieme al trio jazz Modalità trio (formato da Nico Gori, Massimo Moriconi ed Ellade Bandini) al pianista Piero Frassi e la cantante Stefania Scarinzi hanno dato volto e colore a una serata di puro jazz d’autore.
di Chiara Savoi
GAVORRANO (GR). Tailleur nero di pantaloni con una riga di strass sul fianco e la caratteristica nuvola di capelli rossi a coronare una donna straordinaria. I treni a vapore è la prima canzone sono uomini e donne piroscafi e bandiere, viaggiatori viaggianti da salvare e i cellulari registrano e il pubblico canta io la sera sogno perché so sognare e qualcuno si alza per ballare nelle ultime file per non dare noia agli altri e il dolore passerà. L'applauso è scrosciante, c'è la voglia di stare insieme e condividere cose belle. Fiorella Mannoia parla con il suo pubblico alla fine di ogni canzone: grazie, grazie, grazie. Grazie di essere qui. è bellissimo essere qui in questa cornice straordinaria (Teatro delle Rocce, a Gavorrano, un teatro inaugurato nel 2003 che ha rivalutato un luogo dismesso, una vecchia cava di calcare e che ha portato cultura con concerti e spettacoli teatrali in un luogo che era abbandonato). Durante il lockdown abbiamo tutti pensato che saremmo usciti migliori ma io, vedendo come siamo, ho i miei dubbi. Mah, un piccolo esserino come il virus ha messo sotto scacco l'intero pianeta e abbiamo capito solo che non siamo Padroni di niente e così inizia il secondo brano e quando tutti insieme cantiamo e poi succede che pensavo di cambiare il mondo e invece è lui che cambia me siamo tutti molto scossi, è una canzone che parla di noi e di quello che abbiamo e stiamo vivendo ed è anche la canzone che dà il titolo al tour e al suo ultimo album.
LEGRI (PO). Così, in alta stagione, si sta a Longarone, a Valle di Cadore. Ai piedi delle Dolomiti, nel bellunese, tanto per intenderci. Il caldo appiccicoso resta nella piana, ma il fresco, che dopo il tramontar del sole diventa freddo, con tanto di pullover al seguito se si vuole evitare una congestione, è ancora qualche meridiano più in là. In realtà siamo ai piedi della Futa, a quel che vorrebbe essere una montagna, ma non lo è e non lo diverrà mai, alle propaggini di Prato, dopo le Croci di Calenzano, ma non ancora nella piana del Mugello. A Legri, per l’esattezza, raduno ideale per biker e motobiker. Un posto che a Pistoia ricorda, maledettamente, Spedaletto, lungo la Porrettana. L’azienda autonoma di soggiorno e turismo non ci finanzia il pezzo, ma ci pareva carino spiegarvelo, perché, per noi, ad esempio, era la prima volta. Non ci siamo capitati, naturalmente. Ci ha invitato Cristiana Romoli (nella foto, sfuocatissima), una delle voci più interessanti del circondario, che da qualche tempo, ogni sera, è lì, in questo ristorante/pizzeria perfettamente gestito da una numerosissima famiglia albanese e tutte le sere, con la sua piccola consolle portatile e il suo piccolo microfono, come una Lilliput delle note, delizia con la sua grande voce i clienti.
di Letizia Lupino
GIRONE (FI). Girone, Firenze. Un concerto aspetta. Ma dove caspita è Girone? L’arrivo degno di un Indiana Jones un po’ imbranato crea un’ulteriore domanda, mi aggiro come un gatto di strada in cerca di cibo. Nessuna indicazione, nessun rimando, nessuna pubblicità. Un ristorante, un’oasi nel deserto: È qui il concerto?’ Sì è qui! un sospiro di sollievo, allora è vero, ma, qui dove? L’ingresso non è dei più intuibili, dietro il ristorante stesso tramite una scala anonima di ferro, di quelle con gli scalini aperti qui forati là, che se a quello che sta salendo prima di te disgraziatamente gli cadesse qualcosa. Vabbè. Al terzo o quarto piano, dunque, l’associazione culturale La chute in collaborazione con il Circolo Arci Il Girone ci accoglie in una terrazza ampia, sistemata per l’occasione, davanti verso destra una trentina di sedie sistemate con le doverose distanze, in fondo l’ensemble sonoro che di lì a poco avrebbe cominciato a suonare. Quel poco che basta per un giro di diversi drink.
di Chiara Savoi
COLLE VAL D’ELSA (SI). Si ripete la tradizione tracciata dai B-Side nell'accogliere tutto ciò che ha gravitato intorno al Consorzio Suonatori Indipendenti, meglio conosciuti come Csi. Qualche anno fa ospitarono al Sonar, la casa della musica di Colle Val d' Elsa, i Marlene Kunz, poi la prima reunion dei post Csi al teatro di Colle alta (già senza il bandleader) e poi di nuovo al Sonar, Giovanni Lindo Ferretti (foto di Erik Bottega Roots)da solo. Giovedì sera è stato aggiunto un altro tassello a favore della musica Underground degli anni '90. Concerto organizzato dal Teatro del Popolo di Colle Val d'Elsa in collaborazione con il Comune e con l'Azienda Speciale Multiservizi. Concerto in Piazza, nel pieno rispetto dei distanziamenti anti covid. Orario previsto di inizio, 21.30. In genere G.L.F. è puntuale perché, dicono quelli che lo conoscono, vuole tornare a casa presto: infatti non si è smentito: solo 10 minuti di ritardo. Inizia subito con un omaggio a Franco Battiato, Aria di rivoluzione e alla fine del brano fa l'unico discorso di tutto il concerto: Franco, sarò franco: di certo il mar mediterraneo senza te è un po' opaco, meno cristallino ed emoziona da subito il suo già affezionatissimo pubblico. Poi, Produci, consuma, crepa, che ci ha convinti poco come accompagnamento musicale: il violinista ha preso la chitarra e ha abbassato il livello.
di Chiara Savoi
FIRENZE. Oceano spazio. Una somma di piccole cose. In sei sul palco. Dopo due canzoni ringrazia il pubblico che è stato paziente, che ha aspettato l'inverno per poi ritrovarsi finalmente tutti insieme. Questo concerto era stato programmato a Fiesole l'anno scorso e poi accorpato a questo di Firenze, all'interno del programma MUSart in piazza Santissima Annunziata. Vorrei regalarvi qualcosa di pulsante, come se il sangue tornasse a scorrere, racconta Niccolò Fabi. Dice che nel concerto non ci saranno pezzi nuovi perché il periodo appena passato è stato poco creativo, ma che lui ha riguardato le sue canzoni con occhi nuovi e queste hanno assunto significati diversi e lo spettatore si ritrova automaticamente ad ascoltarle in un altro modo e, in effetti, sembrano canzoni nuove. Come Immobile: invece assisti immobile. Come l'acqua passerà. Se potessi dormire sceglierei l'inverno. Verranno giorni limpidi come i primi di quest'anno. Ritorneremo liberi come quelli che non sanno. Il cambiamento di orizzonte e i movimenti sono quelli che alimentano la creatività. Quando parla al pubblico, lo fa in modo pacato, ma deciso, e noi ascoltiamo rapiti. Racconta di un viaggio in Provenza, da solo. Quindici giorni di letture e ascolto di musica in cuffia.
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di Chiara Savoi
COLLE VAL D’ELSA (SI). Una cornice usuale per chi scrive. Un locale speciale, Bottega Roots, a Colle Val d'Elsa, che riapre dopo la chiusura per lavori di ristrutturazione e naturalmente per il Covid. Un luogo che mescola sapientemente cultura e gastronomia, buona musica e piatti prelibati, spettacoli teatrali e cene a tema. Stasera c'è O' Zulù, Raiz, lo storico cantante dei 99 Posse. Sto cercando di trovare le parole Sto cercando nelle pause i silenzi Manteniamo le distanze La cura c'è, non fare finta Niente sarà mai più come prima, si sente in ogni singola rima. Un pugno allo stomaco da subito, da quando O' Zulù inizia lo spettacolo/concerto dicendo che ha deciso di togliere il beat perché è nei silenzi che arrivano i messaggi veri. Finisce la prima lettura, il violino che lo accompagna tace e lui ci saluta e spiega che il testo che ha appena letto, con rabbia e passione (come farà per tutto lo spettacolo) lo ha terminato pochi mesi fa e che il prossimo anno sarà una canzone con i 99 Posse. Ho passato i primi anni a riempire i silenzi e ora voglio dare spazio a questi silenzi. A togliere il beat perché è nei silenzi che le parole fanno uscire il dolore. Il concerto è un ripasso dei suoi trent’anni di esperienza. Inizia a Napoli e finisce a Genova, al pestaggio durante il G8. Il primo atto, lo ripetiamo, è un cazzotto nella pancia. È dolore. È rabbia. E noi tutti col fiato sospeso a viverla e riviverla quella rabbia.
di Federico Di Pietro
PISTOIA. In un Festival Blues fortemente caratterizzato dal dittico pischelli vs glorie del passato venturo, la presenza di Iosonouncane ha subito mescolato nuovamente il mazzo di carte a disposizione del pubblico. Ma aspettate, chi è Iosonouncane? Ma non era quello di La macarena su Roma? Lui, esatto. Ma lo stesso di DIE? Proprio lui, quello che canta Stormi. Ah, ora abbiamo capito. Iosonouncane, al secolo Jacopo Incani, originario di Buggerru, si è rivolto al pubblico solo dopo un’ora dall’inizio della sua esibizione. Buonasera. Laconico. Del resto, le parole a lui non sono state molto d’aiuto nell’ultimo album Ira, uscito proprio nel 2021, il 14 maggio, due mesi esatti dal giorno della sua comparsa in città. Perché Iosonouncane è comparso, sul palco, ha suonato, tanto, ed è scomparso dopo almeno due ore di performance. Nel mezzo? Tutto, politica. Letteralmente. Perché Incani, nell’intervista rilasciata a Rolling Stones, lo dice chiaramente. Il suo album è stata un’impresa complessa, e quindi politica.
PISTOIA. Quando, da giovani, ascoltavamo i Wather Report, Jimi Hendrix, i Doors, sui vinili o andando a concerti spesso non autorizzati, i nostri genitori, cresciuti a pane e Marisa Sannia e Orietta Berti, che seguivano in radio o a Canzonissima, non capivano, non ci capivano e soprattutto non si sforzavano minimamente di capire. Noi, invece, che avevamo capito tutto, ovviamente, li guardavamo con tenerezza, tagliando corto sulla loro imperdonabile miopia. Questa innocente riflessione è nata ieri sera, quando piazza del Duomo, a Pistoia, ha nuovamente illuminato il palcoscenico di questa Storytellers accendendo i riflettori su Frah Quintale, di cui, sempre fino a ieri sera, ne ignoravamo l’esistenza. Noi soltanto però, perché le migliaia di ragazzi che hanno seguito il concerto e che si sono comportati con ogni precauzione ben oltre ogni ragionevole prudenza, oltre a sapere perfettamente chi fosse, ne conoscevano, a mena dito, ogni strofa. Avremmo dovuto ascoltarlo bene anche noi, Frah Quintale, che all’inizio avevamo pensato si trattasse di un rigurgito asterixiano o un irriverente tributo manzoniano, ma siamo stati, comprensibilmente, rapiti dall’afflato (il termine groove appartiene alla nostra generazione) con il quale, questo illustre sconosciuto, abbia interagito, per circa due ore, con una fetta consistente di elettori.
PISTOIA. Fino a quando non ha rispolverato il suo repertorio caro all'età del vinile, la gente di piazza del Duomo, quella abituata a questa edizione alterata del Festival Blues, denominata Storytellers, a rispettare con parsimonia gli inviti da distanziamento, si è fidata del nome, di quello che ha rappresentato negl’ingannevoli anni d’oro e ha applaudito con calore le sue interpretazioni, senza però conoscerle e riconoscerle, le canzoni che andava snocciolando. E tra il pubblico pistoiese di ieri sera, siamo convinti che ben pochi ricordino, o meglio, sappiano, del processo in diretta che Francesco De Gregori subì il 2 aprile del 1976 al Palalido di Milano, quando Nicoletta Bocca (figlia del giornalista Giorgio) e Gianni Muciaccia (bandleader dei Kaos Rock) interruppero a più riprese la sua esibizione serale accusandolo di sfruttare i temi cari al proletariato per fare soldi e successo, fino addirittura a imporgli, a notte fonda, un chiarimento in stile sovietico con la frangia estrema della sinistra extraparlamentare. A più riprese, colleghi cantautori, hanno ricordato, in alcuni loro brani, quella notte, cercando di stigmatizzare quanto più possibile l’accaduto.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Bello, bello, bello! Questo uno dei tanti commenti intercettati al concerto in piazza del Duomo al Pistoia Blues; un’edizione strana quanto agognata. Storytellers-Suoni d’autore presenta Ghemon, E vissero feriti e contenti tour. Ore 21:00, il cielo è ancora chiaro, il sole lo intuiamo da lontano e il vento è carico di promesse, promesse di finali; Wembley, Wimbledon; curioso gioco di consonanze. Piazza del Duomo è transennata, le sedie perfettamente allineate, il palco pronto e affamato. Una musica sottile ci accompagna nell’attesa; chi arriva, chi si sistema, chi si disseta, chi parla velocemente al telefono, chi si alza frenetico, incapace di attendere ancora. La voglia c’è, si sente, si vede. Piccoli capannelli delle forze dell’ordine sistemati a ogni via di accesso sembrano, forse, un po’ sonnacchiosi, vagamente preoccupati, la piazza non è gremita, ma la finale dell’Europeo in atto.
Ore 21:20, le ombre sono scomparse insieme al sole, è buio, un buio dolce però, la musica si allenta per prepararci; un fruscio che si perde ci apre le porte dello spettacolo. La formazione entra in scena silenziosamente, Fabio Brignone al basso, Vincenzo Guerra alla batteria, Giuseppe Seccia alle tastiere, Filippo Cattaneo Ponzani alla chitarra e poi le coriste, Ilaria Cingari e Sabrina Fiorella, attraversano il palco trasversalmente salutando, dandoci il benvenuto e il pubblico ricambia, caldo.
FUCECCHIO (FI). Ci sono canzoni che bucano più di altre, senza un apparente specifico motivo. Quanno chiove di Pino Daniele non è migliore o più profonda di altre scritte dall’indimenticabile bluesman napoletano, ma è quella che arriva più lontano. Così come L’anno che verrà di Lucio Dalla, L’avvelenata, di Francesco Guccini, ma succede anche con Rimmel, di Francesco De Gregori, La canzone di Marinella di Fabrizio De André, Non è nel cuore, di Eugenio Finardi e via via tutti i motivi nei quali, con ingiustificata approssimazione, si finiscono per ricordare ed elevare a olimpo i loro padri. Anche con Bobo Rondelli, ieri sera al Parco Corsini di Fucecchio a presentare, anche, il suo ultimo album, Cuore libero, succede quello che capita con tutti i suoi colleghi e con il cantautore livornese, l’emozione collettiva, popolare, nostalgica, puramente amaranto, arriva con Madame Sitrì, che tutti sanno perfettamente a memoria e che tutti cantano con encomiabile trasporto, così come è successo ieri, a Fucecchio e avviene, sistematicamente, ovunque Bobo e il suo insperabile compagno di palcoscenico Claudio Laucci si esibiscano. Per noi, che non soffriamo, orgogliosamente di panurghismo, quella magia identificativa si accende con Nara F., che l’autore, invece, smercia come se si trattasse dell’ennesima irriconoscenza riservata a sua madre.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. La prima volta, sì, davvero la prima volta che ci capita di recensire, o meglio, raccontare un concerto, di un gruppo salito sul palco senza aver fatto il sound check. Spocchia? Sicumera? O altre stranezze da storia del Rock? Niente di tutto ciò. Gli sciagurati Subsonica - ci racconta prima dell'inizio l'amico-collega Leonardo Cecconi, che avrebbe dovuto intervistarli - sono rimasti imbottigliati in una delle file più lunghe mai viste in autostrada. Ma veniamo al dunque. Apertura serata affidata al giovane trio i Tersø. minimal elettronica, voce, batteria e tastiere. Semplicità e melodia, e qualcosa di italiano, nel cantato di Marta Moretti, qualcosa di inglese (Portishead, Massive Attack)? nella musica ci fa apprezzare questo gruppo malgrado la brevissima esibizione. Eppoi, come detto, i Subsonica, (e chi non li conosce) sono saliti sul palco senza prima aver annusato l'aria della meravigliosa Piazza del Duomo per la seconda serata dell’edizione 2021 del Pistoia Blues e subito, dalle parole del frontman Samuel, si sono emozionati, chiedendo subito un applauso ai tecnici, per aver risolto da soli il fantomatico sound check.
PISTOIA. Ai nostri tempi, i canali dai quali potevamo attingere musica erano pochi e conosciuti. Da qualche stagione, le vie ufficiali d’ascolto, ma anche di tendenza e dunque gradimento e, perché no, voti, passano attraverso altri filtri, che noi che nel 1977 pensavamo che un altro mondo fosse possibile, stentiamo a riconoscere, decifrare, capire. Come i nostri figli, del resto, che sono disobbedienti, sì, ma con ragione e che sono quelli che ieri sera, a Pistoia, per la prima serata di questo Festival Blues, che per non urtare i nervi di quelli che se ne intendono si chiama Storytellers, hanno popolato in ogni ordine e grado piazza del Duomo. La stella d’attrazione è stata il 24enne romano Filippo Uttinacci, che da quando è in voga, si chiama Fulminacci. Un pischello a modo, senza fronzoli, divise, smalto sulle unghie delle dita delle mani, orecchini e tatuaggi, con una capigliatura di cui i suoi genitori ne vanno fieri, con nessun indumento d’astronauta o che ricordi, vagamente, qualche guerra punica. Il giovanissimo metropolitano, che abbiamo già visto all’opera alcune estati fa e Empoli, non ha perso contatti, né di vista, con la realtà; la differenza è che da allora, tra merito e giusti procuratori, è diventato una voce ufficiale dell’allegra insofferenza giovanile e seppur impegnato non è diventato, per fortuna, il paladino di nessuna causa, se non la propria, quella che molto probabilmente lo porterà lontano.
di Chiara Savoi
POGGIBONSI (SI). Premessa: siamo spudoratamente di parte. Abbiamo visto all’opera Petra Magoni varie volte e ogni volta, qualcosa di più. Andremmo a un suo spettacolo anche se cantasse una lista della spesa presa a caso. Questa volta, oltretutto, la location è suggestiva: siamo nel Cassero della Fortezza di Poggio Imperiale di Poggibonsi, un'imponente opera, unica in Toscana, che avrebbe dovuto far parte della fortezza voluta da Lorenzo il Magnifico ma mai portata a termine. Ha una pianta pentagonale e dal 2013 è utilizzata anche per spettacoli all'aperto grazie all'attività svolta da Sandra Logli cui è dedicata la serata. Il concerto inizia con La canzone dei vecchi amanti, portata in Italia da Franco Battiato, cover dell'originale francese la chanson de vieux amants. Poi Eleonor Rigby dei Beatles e quando Petra è arrivata a Bob Marley ha chiesto la collaborazione del pubblico che doveva intonare Is this love e la sensazione è che ognuna delle persone presenti avesse voglia di partecipare con lei e per lei, forse anche per riscattare un lungo periodo di stop forzato.
PISTOIA. Protetti dai fregi del Della Robbia e innervositi da quel pezzo di ferro appoggiato proprio lì davanti, Pistoia, ieri sera, ma come succede un po’ tutte le volte che in piazza XXIII si suona, è parsa Parigi, con il jazz in sottofondo a fare da sfondo a una città che sente la necessità di (ri)nascere. A facilitare l’opera di resurrezione ci han pensato, con la loro classe cristallina e la loro naturale disinvoltura, Cris Pacini al sax, Daniele Gorgone al piano, Nino Pellegrini al contrabbasso e Giovanni Paolo Liguori alla batteria (nella foto, gentilmente concessa da Alessandra Sulpasso), invitati dal Comune di Pistoia a impreziosire la sesta delle nove serate della Festa della Musica. Nonostante un impensabile refrigerio, sodalizio ideale per riprendersi le piazze, tutte, dopo diciotto mesi di inenarrabile morte, paura, buio, dolore e sconforto e un’offerta musicale degna dei più prestigiosi anfiteatri, tra l’altro a ingresso libero, la città ha risposto come non serve più meravigliarsi, e cioè con la solita inspiegabile avarizia e distrazione, perdendosi così un’ora e mezzo di jazz delicatissimo.
di Francesca Infante
PISTOIA. Tetro. Sempre. Perché i topi la luce non la vedono mai. La scenografia grezza, claustrofobica, cunicolare. Poi il buio. Il buio e una voce che impreca. Poi appare quella figura, che non ti aspettavi così grande in quel tugurio così stretto. Macerie, disordine e bottiglie di vino vuote. Quanto può essere difficile recitare, per un'ora e venti, senza interloquire con nessun altro, avendo il peso di uno spettacolo solo su se stessi? Dovremmo chiederlo a Imma Villa, che ha portato in vita il personaggio di Enzo Moscato, con una maestria impareggiabile, ma anche con l'umanità che distingue, non solo l'attrice, ma la donna, che a fine spettacolo, ha fermato il pubblico che la stava applaudendo, solo per ringraziare chi aveva condiviso quel momento di teatro, purissimo, con lei. E con gli occhi lucidi, se ne è andata, circondata dagli applausi scroscianti. Scannasurice è il testo che nel 1982 segnò il debutto di Enzo Moscato come autore e interprete. Nel 2015 è stato messo in scena da Carlo Cerciello che ne ha affidato l’interpretazione a una straordinaria Imma Villa (Premio Le Maschere del Teatro Italiano 2017 come Migliore Interprete di Monologo) e lo spettacolo si è aggiudicato il Premio della Critica.
PISTOIA. Di Don Abbondio e della sua assenza di coraggio, non se ne parla affatto, nemmeno sul foglio di sala. Ma questo ESSERE JIM MORRISON, scritto da Andrea Bruno Savelli e portato sul palco da Nicola Pecci, andato in scena al Bolognini di Pistoia, speriamo voglia essere un diktat per tutti quelli che si spacciano per artisti: perché se non si è Jim Morrison, ma solo dei donabbondio qualsiasi, si può anche fare altro; anzi, è il caso che si faccia altro. Perché di un teatro che non lascia segni, che non scortica la pelle, che non fa male, che non ti ordina di uscire in strada a urlare, beh, con tutta onestà, se ne può fare tranquillamente a meno. E questa pandemia, che sembra finalmente essere sul punto di confondersi con un incubo ormai passato, proprio al Teatro, che ha sofferto tanto, troppo, deve per forza aver insegnato qualcosa che non sta scritto sui copioni, sui contratti, sulle scritture. Detto questo e pensando che Andrea Bruno Savelli, che nonostante vanti numeri interessanti sullo scranno di regista non può certo dirsi un maledetto, lo spettacolo è stato oggettivamente qualcosa di gradevole, apprezzato, con ingiustificata parsimonia, dal pubblico in sala, utilmente e preventivamente distanziato, ma ancora virtualmente intimorito dai contagi e convinto che la riconquista della libertà consista nel poter nuovamente tornare a bere aperitivi, anziché riempire i teatri.
COME NONNA ANGELA, chissà quanti vecchi avranno affrontato i mesi più duri della pandemia con il terrore di non farcela e con l’angoscia di morire lontani e soli dagli affetti più cari. È per questo che il Ministero della Cultura, ora che la nebbia in fondo al tunnel sembra iniziare a diradarsi, ha finanziato il progetto di Luca Romani, Presidente dell’Italian Blues Union, nonché patron del Torrita Blues Festival: una compilation di inediti, tutti rigorosamente blues, dal titolo inequivocabile, Il valore della vita. Si tratta di venti brani, scritti da altrettanti musicisti/ambasciatori, ognuno rappresentante della propria Regione, ai quali è stato espressamente chiesto di scrivere una canzone che potesse in qualche modo ricucire lo strappo forzoso e coatto che ha tenuto lontani, tutti, dai loro cari più fragili: i vecchi. Il Cd dovrebbe essere presentato il prossimo 21 giugno (si vocifera a Milano, per adesso, ma nulla è stato ancora definito), per la giornata della Festa della Musica, che quest'anno assumerà un significato che andrà ben oltre quello specifico già di per sé particolarmente ricco, nella speranza che quel giorno sia veramente estate e che, nonostante il caldo, ci si possa finalmente (ri)abbracciare.
HA IL SAPORE di un atto di disobbedienza. Ma non lo è. Anzi, rappresenta la speranza, la voglia insopprimibile di musica, il suono senza tempo, senza barriere, senza alcuna precauzione delle note. Si tratta della meravigliosa celebrazione del Piano Day, che quest’anno coincide, ahitutti, con questo inimmaginabile e inenarrabile periodo. Perché domenica 28 marzo, rispettando, con inattaccabile scrupolo, ogni forma possibile di contagio, nel Teatro Cesare Caporali, gestito dalla Compagnia del Sole, a pochi chilometri da Perugia, tutti i pianisti del Mondo festeggeranno il loro Natale, che coincide con l’ottantottesimo giorno dell’anno, quanti sono i tasti di un pianoforte. L’idea, meravigliosa, l’ha avuta Nils Frahm, polistrumentista tedesco, che da sempre abbina agli studi classici ogni possibile contaminazione sonora e dalla sua iniziativa, ogni ottantottesimo giorno dell’anno, i pianisti celebrano e diffondono il loro giorno speciale.
QUANTE SONO le anime di Nick Becattini. Una probabilmente, forse nessuna o come Luigi Pirandello ci ha imposto da oltre un secolo, centomila. E si somigliano tutte, tra l’altro. Perché affondano le loro radici nella musica, quella beata, maledetta compagna della sua esistenza, senza la quale sarebbe stato altro, chissà, o forse nulla. Noi ce lo teniamo così, stretto stretto, come uno dei migliori chitarristi blues in circolazione, con un trascorso di quarant’anni nei quali ha circumnavigato i palcoscenici del mondo, portando, su ognuno di questi, gli animali feroci che gli divorano l’anima e che gli impongono, più che suggerire, di non potersi arrendere. E dire che stiamo parlando di un Cd, del suo nuovo Cd, Lifetime Blues, che ha visto la luce in questi giorni, dodici tracce tra insostituibili riferimenti e omaggi ad alcuni dei suoi maestri e ha ulteriormente esaltato la sua pasta musicale, un manuale prezioso di come si suona e si canta, di come si suona e si canta il blues. Per questa nuova esperienza musicale, ma anche e soprattutto esistenziale, emotiva, Nick ha chiamato a raccolta alcuni dei suoi tanti, tantissimi colleghi/amici, quelli con i quali ha diviso e condiviso sogni, aspirazioni, studi, viaggi, partenze e ritorni, successi, applausi e delusioni, conquiste e rinunce.
PISTOIA. Il fatto che a noi non facciano impazzire vuol dire poco. Anzi: nulla. Altrimenti, restare sulla cresta dell’onda, dell’onda del rock alternativo (a parer nostro, un po’ troppo alternativo) per oltre trent’anni e, in tempi di flebili riprese post quarantena, fare il tutto esaurito alla Fortezza Santa Barbara, a Pistoia, scampolo di un Festival Blues, ai tempi del Covid, Blues Around, che meglio non si sarebbe potuto nemmeno immaginare, beh, qualcosa di molto efficace devono averlo fatto. Il pubblico, infatti, oltre che rispondere massiccio alla chiamata al concerto dei Marlene Kuntz, ha accompagnato tutte le canzoni in scaletta interpretate dall’autorevole voce di Cristiano Godano, bandleader, oltre che pioniere, con il batterista Luca Bergia, della formazione cuneese. Già, le canzoni. Bisogna conoscerle prima di ascoltarle, altrimenti, non solo noi, schizzinosi e pruriginosi critici, ma anche altre persone accorse con la voglia di riprendere i contatti con le manifestazioni dal vivo, non siamo in grado di decifrarle e dunque, eventualmente, apprezzarle.
di Raffaele Marseglia
PISTOIA. Bellissima serata ieri, 18 settembre, alla Fortezza Santa Barbara di Pistoia con il concerto, inserito nella rassegna Spazi Aperti, promosso dall’Atp di Pistoia, di BandItaliana, storica formazione folk che si affida, da tempo, a Riccardo Tesi (organetto diatonico), Maurizio Geri (chitarra e voce), Claudio Carboni (sax) e Gigi Biolcati (percussioni). Bellissima serata, ribadiamo, al di là dell’estrema gradevolezza sonora e musicale, anche perché inserita in un contesto ambientale meraviglioso e che ha potuto sfruttare una location semplicemente perfetta. Serata con tanti spettatori (vista la capienza limitata per le misure adottate) attenti e partecipanti nella musica che sprigionava impulsi nel collaborare e unirsi alle note e al ritmo che i quattro noti e grandi musicisti esternavano, battiti di mano nel tenere il ritmo e cantare; davvero una partecipazione bellissima. Il repertorio è stato uno spiluccare successi scritti e suonati nello spazio di questi ventisei anni di attività della formazione, successi consacrati dal pubblico di tutto il mondo, con tanti premi vinti in tantissime rassegne alle quali, BandItaliana ha partecipato.
PISTOIA. La potenza dell’arte, in generale, la si percepisce sempre. Inequivocabilmente, alle ricorrenze, come ieri sera, 12 settembre, per festeggiare, con un anno di anticipo, il centenario della nascita di Piero Piccioni. Lo ha deciso Maurizio Tuci (assente ingiustificato e ingiustificabile: devi tornare tra noi, cazzo), l’anima del Serravalle Jazz, manifestazione che per ovvi motivi di sicurezza immunitaria è stata trasferita, in quest’estate che ci auguriamo di transito, alla Fortezza Santa Barbara, a Pistoia, sito ideale per l’Atp per organizzare questa interessante rassegna live Spazi Aperti. E se il festeggiato è Piero Piccioni, va da sé che si parli di musica (jazz) e cinema (commedia all’italiana) e se si mastica jazz, va da sé che uno dei direttori d’orchestra, nei paraggi, non può che essere Antonino Siringo, 42enne siracusano, pianista, compositore, improvvisatore, direttore, istruttore, anima completa dei propri studi e dei suoi insegnamenti, impartiti, regolarmente, dal 2017 alla scuola di Fiesole. E con lui, Paolo Zampini al flauto, Guido Zorn al contrabbasso, Andrea Melani alla batteria e, naturalmente, Valentina Piccioni alla voce, la figlia, che tra un tributo musicale e il successivo dedicato al padre ha raccontato, con quella potenza di cui accennavamo all’inizio, la bellezza dei bagagli che solo l’arte riesce a tramandare con il sorriso e la piena e perfetta consapevolezza di non poter e dover dimenticare.
QUARRATA (PT). Difficile immaginarlo diversamente. Anche se, con tutta onestà, potrebbe stare nell’olimpo del cantautorato, al fianco degli altri che popolano il firmamento. E forse, un giorno, ci sarà, ma perché non sia soltanto la sua Livorno, la sua Bella Livorno, a celebrarlo, dovrà andarsene. Per sempre. È già successo a tanti talenti irriverenti nel corso dei secoli, tra i quali anche un suo illustre collega conterraneo predecessore, Piero Ciampi; così potrebbe succedere anche a Bobo (Roberto) Rondelli, ma non sappiamo se sia il caso di augurarglielo; potrebbe non gradire. Fino a quando c'è’ però, ce lo teniamo, e pure stretto stretto, perché quando intona la poesia a Nara F. pensiamo alle nostre, di madri, che per fortuna somigliano maledettamente la sua e piangiamo, forte, perché se ne sono andate troppo presto e noi, eredi irriconoscenti, siamo rimasti in debito, un debito che non salderemo mai. È andata così anche ieri sera, 28 agosto, a Quarrata, in uno degli appuntamenti del Settembre Quarratino, che ha la fortuna di poter sfruttare, per tali circostanze live anche in tempi di rischiocontagio, La Magia, patrimonio dell’Unesco.
PISTOIA. La musica torna lentamente a rioccupare gli spazi più consoni, i suoi spazi: i palcoscenici. Perché la musica, come l’arte nel senso più etereo e nobile del termine, non può fare a meno di interfacciarsi con il pubblico, al quale offre tutta se stessa; in cambio dei verdetti: applausi o fischi. Certo, ci sono anche le vie di mezzo, ma non è stato il caso di ieri sera, quando alla Fortezza Santa Barbara di Pistoia, anziché a Serravalle, dove l’idea è nata (Maurizio Tuci) e consolidata (Maurizio Tuci) nel tempo, è stato consegnato il Premio Sellani (pianista delizioso). La giuria, composta rigorosamente da addetti ai lavori, per questa edizione virale ha deciso di consegnare il premio (un pianoforte in miniatura, ma pesantissimo, che Stefania Scarinzi, dopo aver deliziato il pubblico con la sua voce anglobrasiliana, ha sorretto a fatica prima della consegna) a Fabrizio Bosso e alla sua tromba, con la quale lo straordinario musicista torinese interagisce nel più profondo dell’intimità, facendo diventare lo strumento un prolungamento della sua anima, più che del suo diaframma. La cosa, quando duetta con il professor Nico Gori diventa semplicemente sublime.
ALTOPASCIO (LU). Rendere onore e merito a Mina (una delle interpreti migliori di tutti i tempi, anche e soprattutto di quelli che verranno) equivale a omaggiare tutti gli autori che una delle signore più imponenti della canzone ha deciso di rileggere; a modo suo, unico, inimitabile. Circoscrivere un atto d’amore live nello spazio di un’ora e mezzo vuol dire rinunciare a un magma imprecisato di interpretazioni inquantificabile. Ma Chiara Galeotti, eminenza apuana del diaframma, ha scelto, come struttura ossea, estetica e di portamento impone, più che suggerisce, la prima stagione, quella di Canzonissima e della Bussola, tanto per capire, quella nella quale Mina incantò il mondo. Un fascino così smisurato che le ha consentito, in modo parecchio discutibile, di venire via dalle scene e rinchiudersi (da oltre quarant’anni, senza mai uno strappo alla regola) in sala di registrazione, dove ha vilipeso e glorificato non solo mostri sacri e prestigiatori, ma anche i menù dei ristoranti. Per questa carrellata di Mina inimmaginabilmente chiusa in un eremo dorato elvetico, Chiara Galeotti (che sfoggia su un carnato, tanto cereo quanto possente e nobile, un solo innocentissimo tatuaggio sul polso interno del braccio destro, inezia che le precluderebbe il concorso nelle forze dell’ordine),
PISTOIA. Non le manca nulla. A iniziare dalla voce. Per non parlare dei centimetri (178, con anfibi) e quella faccia sconsacrata, dissacrante, che non vuol e non ha la minima intenzione di voler ferire nessuno. Beatrice Chiara Funari, Bpuntato nell’era degli pseudonimi che devono bucare la curiosità, è una romana come ce ne sono a migliaia, disperse sotto le gallerie delle metropolitane dell’Urbe, anche se a Valmelaina, zona Talenti, dove è nata, la metro è arrivata dopo. La metro, però, perché tutto il resto, che è quello che conta per diventare una chansonnier dei tempi (incerti) nostri, in quella valle incastonata tra Podere Rosa e il West, c’è sempre stato, e in abbondanza e lei, che per diventare una paladina del malessere giovanile protetto da famiglie che ancora badano ai propri pargoli è addirittura passata dal Conservatorio, ha deciso di cantarlo. Lo fa con dedizione, serietà, abnegazione, ma senza illudersi; se qualche pertugio della stanza dei bottoni del terzo millennio, che nei secoli precedenti si apriva solo mostrando affidabilissimi attestati di competenza, dovesse spalancarsi, lei è pronta a entrare: senza autoreggenti, senza moine, senza promesse e lusinghe.
PISTOIA. Sul palco, dopo l’intro, sarebbe potuto cadere il telo sul quale, negli altri giorni, in piazza del Duomo formato Blues Around, al posto dei concerti vanno in onda le proiezioni dei films. Lo diciamo non certo a mo’ di pietoso velo, ma esattamente al contrario. La sesta e ultima serata pistoiese del Festival BluesCoronaVirus ha dato un arrivederci, ci auguriamo davvero diverso, al 2021, con il concerto dei Calibro 35, formazione jazid ad alto contenuto musicale che ha sonoramente spiazzato i vecchi intransigenti bluesaroli anni ’80 e la new generation di imberbi e imbelli cresciuti con i dj. Sì, perché la band, attiva da oltre due lustri con un trascorso internazionale da brividi, che si avvale di quattro nobili strumentisti (Enrico Gabrielli, tastiere e fiati; Massimo Martellotta, chitarra; Fabio Rondanini alla batteria e Luca Cavina al basso, tutti sotto l’occhio vigile del produttore Tommaso Colliva) di eterogenea provenienza, hanno ulteriormente stregato piazza del Duomo, che è davvero la piazza dei Miracoli Blues, con un set musicale che si sarebbe dovuto seguire a occhi chiusi, provando a indovinare cosa, sull’immaginario telone calato sul palco, si stesse proiettando durante l’intonazione sonora.
PISTOIA. A non tesserne le lodi, soprattutto in considerazione dell’oceanico gradimento, correremmo seriamente il rischio di risultare spocchiosi (che poi lo siamo, ringraziando il cielo). Ma a noi, questi Negrita, anche in formato acustico, esigenza, più che scelta, dettata dalle indispensabili misure anti contagio, nonostante conoscano alla perfezione tutte le leggi e le regole del palcoscenico, non necessitino di alcuna lezione di musica e sappiano precisamente come attizzare il pubblico (ci vuol poco, eh, a essere onesti), non piacevano prima e continuano a non piacerci ora. Da ieri sera, poi, per la quinta serata del Blues Around, con una piazza del Duomo piena come Covid 19 potesse consentire, che li abbiamo visti all’opera, le impressioni si son fatte certezze. Sono un esemplare e perfetto concentrato di astuzie demagogiche, luoghi comuni, piccole inconfessabili verità e sulle note di canzoni che si somigliano maledettamente tutte (stile Ligabue, tanto per intenderci), usano, nelle conversazioni che precedono, anticipano e solfeggiano i brani in scaletta, uno scientifico, chirurgico vocabolario contemporaneo, e non in aretino, zona (Capolona) dove sono nati e partoriscono gli studi dei loro successi, ma in aspirante milanese, condito inoltre da tutti gli ingredienti fashion/alternativi e nel quale domina incontrastato il termine raga,
PISTOIA. Prima di venirci a suonare, a Pistoia, Alex Britti ci veniva spesso. Di luglio. Veniva a sentire e vedere i Festival Blues, anzi, i Blues’In, per essere onesti e tassonomici, quando il complemento di specificazione musicale, più che un marchio funzionale, era un rigore sonoro obbligatorio. A noi, il giovanotto di Monteverde, che il prossimo 23 agosto compirà 52 anni, è sempre piaciuto; parecchio. La prima affezione è puramente campanilistica: ci conoscemmo a Roma, dove siamo cresciuti entrambi, al Big Mama, a Trastevere (lui non se lo ricorda; potremmo anche barare, sul dettaglio, ma è vero), a sentire un concerto dell’indimenticato Roberto Ciotti, con un amico comune alla batteria, Piero Fortezza. La seconda è di natura morale e umorale; ha sempre vissuto nelle righe, cosa che trapela anche dai testi delle sue canzoni, spalmate su nove registrazioni e soprattutto durante le sue esibizioni: preferisce evitare enfasi, protagonismo e cliché e che sia un genuino e un autentico ce lo hanno confermato anche i musicisti che gli gravitano attorno, come i cinque di ieri sera, 31 luglio, con i quali ha animato la quarta serata di questo Festival postvirus, denominato, Blues Around: le due giovani vocaliste, la marchigiana Cassandra De Rosa (che dimostra meno delle primavere trascorse, a onor del vero) e la senegalese Ouumy Ndiaye (lei giovanissima davvero, 26 anni appena) e tre strumentisti, come Matteo Pezzolet al basso, il giovanissimo Benjamin Ventura alle tastiere e Davide Savarese alla batteria, al quale ha concesso un interminabile assolo meravigliosamente gestito poco prima dei saluti.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Un nome strano in programma alla terza serata di Blues Around, a Pistoia, per la band che ha scelto di unire i cognomi di tre componenti (Eugenio in via di gioia) per segnare il proprio esordio nel 2012, dopo esperienze musicali di strada all’incrocio tra cantautorato e swing-folk italiano. Giovani e freschi di successi (compendio di vecchi brani e nuove composizioni il loro recente album Tsunami) hanno ricevuto il premio della critica Mia Martini al festival di Sanremo 2020 e guadagnato le simpatie di un pubblico trasversale; dai giovani, agli adulti. A Pistoia hanno sostenuto il palco in maniera solida e leggera, leggeri e ondeggianti come i quattro palloncini sistemati in linea sul fondo scena del palco. Quattro: Eugenio Cesaro (voce e chitarra), Emanuele Via (piano, fisarmoniche e cori), Paolo di Gioia (batteria percussioni e cori) e al basso Lorenzo Federici. Atmosfera ridanciana, fin dall'inizio dello show, presentazione della band da una voce fuori campo, e, onestamente, ci è tornato alla mente il Luna Park.
PISTOIA. Anche solo ad accennarle tutte, le hit che lo hanno reso semplicemente inconfondibile e trascinato sulla cresta incorruttibile della musica degli ultimi cinquant’anni, gli ci sarebbe voluta un’altra ora di concerto. Ma a settantaquattro anni compiuti tre giorni prima, Edoardo Bennato, icona sempiterna del rockblues dell’Italsider, ha preferito lasciare tutto il pubblico di piazza del Duomo di Pistoia con l’amaro in bocca, fermandosi, senza alcuna possibilità di deroga, sulla porta dignitosissima delle due ore di esibizione. Senza intonare Un giorno credi, senza sillabare L’isola che non c’è, senza scandire il riff di Capitan uncino, senza fare il minimo accenno di Venderò, senza solfeggiare La mia città, canzoni queste che, insieme a molte altre praticamente leggendarie e con le quali un’intera generazione, la nostra, è cresciuta sognando, il concerto pistoiese di ieri, 26 luglio, seconda tappa del Festival Blues versione asintomatica, versione Blues Around, si sarebbe, molto probabilmente, trasformato in un evento epocale. Il tiro, la voce, l’energia, compresa quella velata mania di protagonismo profetico che assale i menestrelli divenuti famosissimi (perdonandogli persino lapsus – reazionario, anziché rivoluzionario - che in altre circostanze sarebbero valsi un generale spernacchiamento) sono state quelle di sempre;
PISTOIA. Saremmo mai potuti mancare a un concerto di omaggi, dediche, genuflessioni che si è chiuso sulle note di A me me piace ‘o blues? D’accordo, l’esibizione non è finita lì, perché poi, richiamati a gran voce dal pubblico del Chiostro della Fondazione Luigi Tronci, Albano Castrese (contrabbasso), Gennaro Scarpato (percussioni, batteria, armonica, voce) e Meme Lucarelli (chitarra e voce), la Statt’zitte band, si è dovuta facilmente e piacevolmente cimentare in due bis, sempre targati Napoli: Enzo Avitabile prima e ancora Pino Daniele, fino alla fine. In un altro dei soliti, gradevolissimi, giovedì della Ufip, il vecchio Luigi Tronci si è fatto trovare presente, con il suo solito, impagabile, immarciscibile entusiasmo, allestendo, all’ombra, seppur notturna, della secolare magnolia che campeggia nel giardino, un’altra esibizione esemplare, offerta da tre grandi professionisti. Lo hanno annunciato, che avrebbero rispolverato, in largo e in lungo, la canzone d’autore italiana, con qualche piccola gemma, quasi sempre solo strumentale, di alcuni brani oltre i confini; sono stati di parola, con tutta la fantasia sonora che li contraddistingue: da Lucio Battisti a Francesco De Gregori, con arrangiamenti, a volte davvero audaci, di Carosone, Fabio Concato, i Pink Floyd in salsa reggae,
PISTOIA. Nulla succede a caso, probabilmente. Come la disposizione del palco in piazza del Duomo ieri sera, 18 luglio, prima serata di un improvvisato, commovente, meraviglioso Festival Blues formato covid 19, battezzato, alla bisogna, Blues Around, quello che nessuno, nel ricordo/incubo della quarantena, avrebbe potuto lontanamente immaginare. Sì, perché l’unica volta che la piazza del Blues d’Italia ha disposto lì il palcoscenico, anziché davanti al Comune, anche se in formato decisamente più grande, anzi, galattico, sarebbe il caso di apostrofare, è successo il 20 settembre 2006, quando a Pistoia, in un concerto a dir poco memorabile, si esibirono i Pearl Jam. Lo vollero lì, i promoter della formazione grunge di Seattle, perché di quella serata ne fecero un video, altrettanto imponente e nelle immagini di cornice mai e poi mai avrebbero voluto che il palco oscurasse Palazzo di Giano e desse luce e prestigio alla Prefettura e al Monte dei Paschi di Siena. La coincidenza risiede nel fatto che i Bud Spencer Blues Explosion, duo metropolitano di blues/caciara, fiore all’occhiello di questa prima serata di un Festival che ci sarebbe potuto non essere, siano nati proprio nel 2006, l’anno dei Pearl Jam a Pistoia; un omaggio asintomatico, senza dubbio, ma che la dice lunga su come i cerchi, prima o poi, siano destinati a chiudersi.
di Silvano Martini
PISTOIA. Come tutte le manifestazioni estive, anche il Pistoia Blues Festival ha dovuto prendersi una pausa. Non si è però fermato, cedendo il passo alla paura dello stramaledetto Covid 19 ma, nel pieno rispetto delle normative vigenti, ha messo in piedi una manifestazione che si presenta sotto le mentite spoglie di Blues Around e che comprende, oltre a nomi di spicco del panorama nazionale, almeno quelli che hanno deciso di mettersi in gioco intraprendendo brevi tour, anche alcuni nomi che appassionano intenditori del genere. La formula è quella di presentare questi nomi in giro per la città, tra piazze e locali. Il primo nome che si è presentato nella città del blues per eccellenza è quello dei Superdownhome. Erano già stati sul palco principale del Pistoia Blues nel 2018, lasciando stupito il pubblico che era venuto per apprezzare il grande Billy Gibbons, headliner di quella serata con i Supersonic Blues Machine. Ieri sera, 16 luglio, si sono presentati sul palco del delizioso Fortezza 59, il nuovissimo locale situato all'interno del Parco della Resistenza, conosciuto meglio dai pistoiesi come Piazza D'Armi.
PRATO. Quattro professori e un trip, tra amicizie di vecchia e consolidata prova, complicità acustiche e intellettuali, sonorità eccelse, che non hanno bisogno di presentazioni, titoli, spiegazioni. Riccardo Onori, del quartetto che ieri, 16 luglio, ha incantato i fortunati spettatori dell’Anfiteatro Pecci di Prato, è l’inevitabile bandleader: la formazione è una sua idea e poi, sui gradoni in pietra disposti a semicerchio attorno al palcoscenico, ci sono anche i suoi genitori e qualche piccolo fan, che al termine dell’esibizione, srotola uno striscione con il suo nome. Riccardo, a Prato, c’è nato e da lì ha spiccato il volo con le sue chitarre. Da quindici anni è la prima sei corde di Lorenzo Jovanotti Cherubini, che, a sua volta, non muove un passo e una nota se a condividerla non ci sia anche lui, Saturnino, un pluristrumentista che nasce con il violino stretto tra il mento e la clavicola e si specializza con il basso elettrico: a quattro, cinque, sei corde. Alla batteria, un lametino figlio d’arte, Donald Renda, al quale la Calabria andava un po’ stretta. E allora, via verso nord, Prato e Brescia, per diventare un meraviglioso sessionista, capace di suonare più ritmi contemporaneamente. L’ultimo anello di questa eccelsa formazione è Michele Papadia, a ogni tastiera del mondo, con una febbrile predilezione per quella Hammond,
PISTOIA. Scegliere di chiudere una serata in onore di Pino Daniele interpretando Chill’è ‘nu buone guaglione è, contemporaneamente, un atto di assoluta devozione all’indimenticabile artista napoletano, di coraggio, perché con A me me piace ‘o blues ci si sarebbe congedati nella migliore e più entusiasmante maniera e, ultimo, ma non ultimo, un’ulteriore attestazione del suo profondo intellettualismo poetico. Vale la pena ricordare, infatti, che quel brano, un inno di rispetto, amore e tolleranza verso l’universo transgender, fu scritta e inserita dal vate partenopeo nel suo primo album, datato 1977 e raccontare, con tenerezza rockblues, la dura realtà e i sogni omosessuali, 43 anni fa, non era affatto così politicamente corretto e soprattutto digeribile. All’autore, a quell’incommensurabile artista che ha trasformato la tarantella in world music e che ha rappresentato per milioni di appassionati e per tutti i seicordisti un indispensabile punto di riferimento, tanto musicale, quanto poetico e prim’ancora morale, non è mai interessato copiaincollare, ma si è sempre preoccupato di sondare nuovi territori. Lo ha fatto da subito, dagli esordi, imponendo, con la grazia, la leggerezza e la sontuosità che hanno contraddistinto le sue performance, un nuovo stile di vita artistica.
POGGIO A CAIANO (PO). Senza emergenza Covid, Villa Il Cerretini sarebbe rimasta forse una reggia incantata proibita. E invece, visto che le precauzioni sanitarie impongono esibizioni all’aperto e distanziate, ecco che il Festival delle Colline, per esistere anche in quest’annata lockdown, ha dovuto adeguarsi e trasferire, in un angolo di rara bellezza purtroppo imbalsamata, uno dei suoi appuntamenti. Anzi, due, perché Gnut prima e gli OoopopoiooO dopo, si sono esibiti in un primo set alle 19 e in un secondo, identico (?) alle 21,30, per consentire così al popolo della musica di poterci essere senza correre rischi di contagio. Da filo bossanovisti, intimisti, pinodanielisti inguariti e inguaribili, adoratori incorruttibili dell’essenza musicale e poetica, siamo rimasti incantati dal minimalismo di Gnut (al secolo, Claudio Domestico) e delle sue ballate involontariamente suggeritegli dal poeta asintomatico Alessio Sollo, napoletano come il cantore, che affidava a facebook la sua visione alcolica. Le due vite si sono finalmente incontrate e l’equazione drammatica ha dato i suoi frutti, battezzando novelle di una semplicità e di una fioritura esemplari, odi di ermetico richiamo che si avvalgono dell’autodidattismo di Gnut per trasformarsi in arie che, al di là della dittatura idiomatica partenopea, trasudano, come tutte le ballate che nascono nel golfo del Vesuvio, la solita inconfondibile, inimitabile e comunque mai ripetitiva, saudade napoletana.
PISTOIA. I concerti ad alto contenuto rock dove il pubblico, per incolumità e ricatti, è costretto a seguire l’evento restando seduto al proprio posto, equivalgono a masturbarsi con il preservativo. Fatta questa tragicomica peccaminosa premessa (esaustiva per il popolo maschile e facilmente intuibile per quello femminile) e saltando a piè pari tutto quello che riguarda la virtuale ripartenza post quarantena, e ribadendo, a onor di cronaca, quanto poco ci piacciano i copia/incolla dei tributi a chicchessia, ci preme sottolineare quanto bravi e professionali siano i Killer Queen. Bella scoperta, obietterà chiunque, ma noi abbiamo potuto appurarlo solo ieri sera, al Santomato Live, nell’Arena deputata ai dibattiti politici della sinistra, fortunatamente rivitalizzata dalla musica, quella dello staff artistico di Tony De Angelis. Ci saranno anche stasera, gli assassini della regina, per una doppietta/live utile a non lasciare fuori quelli che, per esigenze di distanza, non sarebbero potuti entrare ieri. Yaser Ramadan, voce sontuosa della formazione, seppur bandleader da soli cinque dei venticinque anni della storia del gruppo, è un volto e una voce nota, lanciato in orbita, oltre che per le sue inoppugnabili qualità canore, dai programmi televisivi alla ricerca di talenti.
PISTOIA. A molti, a tutti, a essere onesti, non è parso vero che a Pistoia, in piazza della Sapienza, a due passi da piazza del Duomo, che per la prima volta dal 1980 non ospiterà il Festival Blues, questo fine settimana appena trascorso, sotto le logge di quella che è stata per decenni la biblioteca della città, si siano potuti alternare, suppur provvisti di mascherina prima e dopo le esibizioni, musicisti intenti a fare la cosa che fanno meglio, che spesso è anche l’unica: suonare. Vi raccontiamo della terza e ultima sera, quella che ha visto Federica Gennai al piano e alla voce, Davide Malito Lenti alla batteria e alle percussioni e Federico Moro al basso elettrico. Tre docenti, ognuno delle proprie specifiche competenze strumentali, che hanno accompagnato la prima sera meteorologicamente estiva sul dorso della musica di prestigio, ma comunque potabile, commestibile, dunque digeribile, senza dover ricorrere a sofismi e appunti cattedrali. Lo hanno fatto spiluccando Steve Wonder, mago vivente ed eterno di una sonorità plastica, elastica; gli Eurythmics prima e dopo lo scioglimento della coppia e la vedovanza musicale di Annie Lennox;
di Michele Santeramo
TERLIZZI (BA). Che poi, a guardarla per bene, dice che ogni cosa serve.
Mah.
Non lo so.
A me questo fatto di stare chiusi in casa non mi è servito tanto.
All’inizio io a mia madre l’ho detto.
Dico: mà, sicura? Sei sicura?
Lei ha detto: e che posso farci?
Così è stato che Matteo è venuto a stare da noi.
La casa è bella, su due piani, bella spaziosa e intorno c’è il giardino e dentro il
giardino il cane.
Roxy.
Un bel cane. Forte. L’abbaio è cupo, è un cane grande.
Io dormo al piano di sopra.
Loro due sono andati a dormire al piano di sotto.
Per la riservatezza.
di Rosa Emilia Dias
THIENE (VI). In questi giorni di quarantena la mia testa è come dentro a un vortice di pensieri e di idee. Essere forzati a stare a casa, senza sapere per quanto, non mi costa particolari sacrifici. Anzi. Continuo a leggere, scrivere, cantare e curare la mia casa e la mia mente. Abituata a organizzare la mia vita in base ai progetti musicali, collaborazioni artistiche e contatti virtuali con gli amici lontani, casa mia è sempre stata il mio quartiere generale. Amministrare il mio tempo non fu mai compito di qualcun altro che di me stessa. Ma essere forzata a stare a casa mi ha fatto riflettere sulla sorte del pianeta, sulla mia sorte come persona e di sperare in un mondo migliore. Mi domando dove stavamo andando così di fretta che non ci accorgevamo più che il danno che stavamo facendo al pianeta era il danno che facevamo a noi stessi! Ci siamo abituati a vedere le immagini dello scioglimento dei ghiacciai ai Poli, dell’inquinamento nelle grandi città, della fame in Africa, dell’epidemia in Cina come se non ci riguardassero. Da quanto tempo siamo rimasti indifferenti alla sofferenza altrui? Siamo stati attaccati e svegliati da un virus!
di Elisabetta Cosci
NIBBIAIA (LI). La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione. (Giorgio Gaber). Cinquantatreesimo giorno di quarantena (che poi, perché continuiamo a chiamarla quarantena, se siamo già a 53 giorni, devo capirlo): l’esilio forzato in casa prosegue. Ieri sera, 26 aprile, nel giorno successivo a quello in cui si festeggia la festa della libertà, il primo ministro ha comunicato alla nazione che ancora almeno per un mese e poco più nulla cambierà. Per carità, il virus è ancora vivo e lotta contro di noi, è giusto restare a casa, stare alle regole; chi dice riapriamo tutto e torniamo alla normalità è un pazzo incosciente. Però un dubbio permettetemi di esprimerlo: mi chiedo dove stanno le novità alle quali ha lavorato il comitato tecnico scientifico degli illuminati (tutti rigorosamente maschi) che supporta il governo nella gestione dell’emergenza? Stupisce il fatto che non c’è alcuna progettazione in vista; gli esperti ci regalano contentini che allontanano l’attenzione dal problema reale: il virus non è stato ancora sconfitto, non c’è una strategia di cura, non ci assicurano i tamponi, i test sierologici, non c’è una rete di sicurezza per chi si contagia, per chi si ammala e per chi gli sta vicino. L’economia è in ginocchio e gli esperti (ripeto, tutti rigorosamente maschi) dimenticano le famiglie, le donne, i ragazzi, i bambini, dimenticano i diritti e non ci garantiscono una rete che ci renda più sicuri.
Leggi tutto: Non è un paese per vecchi, ma nemmeno per bambini e donne
di Riccardo Onori
PRATO. Sono ormai cinque settimane e mezzo che sono chiuso nella mia casa; esco solo un giorno a settimana, per fare la spesa. Non sono mai stato un abitudinario nella vita, ma durante questa segregazione ho deciso di diventare il più disciplinato possibile.
- Colazione; esercizi fisici; leggere un libro; pranzare; studiare la chitarra o scrivere qualche idea musicale; fare lezioni sul web o condividere video o foto sui social; cenare; serie tv o film; dormire.
Questa scaletta mi ha aiutato a scandire il tempo e a non perdere di vista l’obiettivo: restare a casa per evitare contagi. Mentre seguo le notizie di quello che succede fuori da casa il mio pensiero va a chi è costretto ad affrontare questa pandemia in prima linea. Alterno pensieri positivi a quelli più catastrofici e un pensiero costante è sempre la paura; la sensazione che le cose non potranno più tornare come erano è la cosa che mi angoscia di più e la percepisco anche semplicemente quando vado a fare la spesa e vedo nelle persone il sospetto di chi ha accanto; io stesso scanso le persone e le vedo come un pericolo.
di Tullio De Piscopo
NAPOLI. Era domenica. Guardavo il calendario.
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Qui gatta ci cova… Una sensazione tenue e inesorabile si insinuava da qualche tempo fra le pieghe delle mie giornate e della mia routine, fatta di studio, esibizioni e lezioni a scuola. A breve avrei festeggiato il mio compleanno, assieme ai miei amici, ai miei nipotini e alla mia famiglia. Qualcosa non andava in quei numeri e nel mondo. In Cina si ammalavano; come si chiama la città? Wuhan? In Italia c'erano persone ricoverate all'Ospedale Spallanzani di Roma, al Nord si parlava di focolaio e si andava a caccia di un fantomatico Paziente zero. E poi, come in un disegno a tinte forti, il dispiegarsi del lockdown su tutto il territorio italiano, la reclusione in casa propria, la separazione sociale. Qualcosa di nuovo, mai sperimentato dalle nostre generazioni, prima sottovalutato, poi acquisito in tutta la sua imponenza. Scelto dalle popolazioni mondiali per combattere il virus, per arginare il numero dei morti, per limitare il contagio.
Sabato 14 marzo.
Paura
di Donatella Pellegrini
LIVORNO. Ore 8.40: sveglia. Sempre, anche se vado a dormire alle 4 del mattino al rientro da un concerto, dopo che ho portato giù le canine per poi dormire quelle poche ore. Adesso non ce ne sono di concerti, e alle 23.30, c'è l'ultima uscita per loro fino al mattino successivo. E si ricomincia. Pensare che in questo periodo tante persone vorrebbero un cane per poter prendere una boccata d'aria; beh, io vorrei qualcuno che me le portasse a fare un giretto al mattino e me ne starei a fare la gatta di Masino come non ho mai fatto. Amo le mie 3 canine, ma è impegnativo! E poi lava le zampette, il pelo ancor più di prima perché il timore di fare qualcosa di sbagliato attanaglia i miei pensieri. Ho una donna di quasi 82 anni in casa da proteggere: mia madre. Grande responsabilità. Bene, 8.40 mi alzo, faccio colazione, mi lavo, mi vesto e poi il giretto con le canine; de, il giro dell'isolato è tremendo, tre guinzagli, una tira sempre avanti per cui l'ho legata ad una cintura avendo solo mani; l'altra s'inchioda perché ha paura e siccome è una bassotta, se s'inchioda si salda al terreno; la terza ha la displasia, quindi vuole camminare dove vuole e si ferma ad annusare ogni filo d'erba. Ogni tanto tirano tutte e tre che se avessi un carretto, son convinta, mi porterebbero fino a Viareggio! Mi è venuta pure l'epicondilite!