di Riccardo Onori

PRATO. Sono ormai cinque settimane e mezzo che sono chiuso nella mia casa; esco solo un giorno a settimana, per fare la spesa. Non sono mai stato un abitudinario nella vita, ma durante questa segregazione ho deciso di diventare il più disciplinato possibile.

- Colazione; esercizi fisici; leggere un libro; pranzare; studiare la chitarra o scrivere qualche idea musicale; fare lezioni sul web o condividere video o foto sui social; cenare; serie tv o film; dormire.

Questa scaletta mi ha aiutato a scandire il tempo e a non perdere di vista l’obiettivo: restare a casa per evitare contagi. Mentre seguo le notizie di quello che succede fuori da casa il mio pensiero va a chi è costretto ad affrontare questa pandemia in prima linea. Alterno pensieri positivi a quelli più catastrofici e un pensiero costante è sempre la paura; la sensazione che le cose non potranno più tornare come erano è la cosa che mi angoscia di più e la percepisco anche semplicemente quando vado a fare la spesa e vedo nelle persone il sospetto di chi ha accanto; io stesso scanso le persone e le vedo come un pericolo.

Beh, questa è una cosa che mi impressiona parecchio, l’idea che i rapporti tra le persone potrebbero essere profondamente cambiati. Oppure per la prima volta nella storia dell’umanità potrebbe svilupparsi una coscienza collettiva. Mantenere delle tradizioni è ciò che attribuisce un'identità ad un popolo; questa identità è stata a mio parere messa in dubbio dall'avvento della globalizzazione economica e di contro adesso potrebbe esserci restituita dall'avvento di una globalizzazione dovuta ad un microscopico virus. Questo pericolo comune e indistinto forse permetterà a tutti gli esseri umani di sentirsi parte dello stesso pianeta e di iniziare a ragionare insieme su come cambiare il nostro impatto su di esso. Facendo il musicista e avendo avuto la fortuna d’averlo fatto su grandi palcoscenici, non so immaginare cosa saranno i grandi eventi dopo questa pandemia. Ci sarà una mutazione anche negli spettacoli? Si cambierà il modo di assistere a una delle cose che forse ci accomuna di più? I grandi spettacoli sono fatti sì dall’artista e dalla band che montano sul palco, ma niente avrebbe senso senza la folla che esulta e rende lo spettacolo completo. Ho sempre pensato che un concerto fosse un rito, una messa pop, la musica è virale, un'epidemia di emozioni che si scambiano tra le persone, tra chi genera la musica e chi la riceve, e ti restituisce l’emozione che si è generata amplificata mille volte. Penso a quando sono sul palco davanti a tanta gente e ho sempre la sensazione di regalarmi al pubblico perché loro sono lì per sentire cosa stiamo producendo, lo spostamento dell’aria che permette la diffusione di un suono, il suono rimbalza sui corpi e li smuove. Non posso immaginare cosa accadrà, ma sono sicuro che se mai questo dovesse cambiare, sarebbe un colpo durissimo per tutta l’umanità. Io mi ritengo un miracolato a poter fare quello che faccio e un pensiero va a tutte le persone che lo spettacolo lo fanno nell’ombra; penso al mio tecnico che ormai mi accompagna da diversi tour, che sta lì al mio fianco e mi mette sempre in condizione di fare il concerto al massimo delle possibilità. Mi protegge, mi prepara le chitarre, mi sostiene nei momenti di problemi tecnici. Insomma cosa sarebbe lo spettacolo senza di loro? Niente, e non vengono mai applauditi direttamente, ma ogni singolo applauso io lo divido con queste persone che sicuramente adesso sono quelle economicamente più colpite perché sarà la categoria che potrà iniziare di nuovo a lavorare solo quando tutto sarà finito. Non per polemizzare, ma questa è una categoria pressoché non riconosciuta da nessuno e io voglio fare un in bocca al lupo a tutti questi lavoratori dello spettacolo affinché tutto riparta il prima possibile. Non dirò ce la faremo, come sento dire spesso in questi giorni; dico: ce la dobbiamo fare, in tutti i modi.

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